Il ricordo. De Crescenzo, Napoli e la filosofia della vita con la bonomia partenopea

Luciano De Crescenzo
Luciano De Crescenzo

E così anche Luciano De Crescenzo ci ha lasciato. Curiosa coincidenza, a pochi giorni di distanza dalla scomparsa di un altro grande vecchio, Andrea Camilleri, il nostro avaro panorama culturale perde due figure popolari, guarda caso venute entrambe da quella che fu la Magna Grecia.

Di fronte alla notizia, si affastellano nella mia memoria ricordi, suggestioni, emozioni legate alla mia città d’origine e alle pagine – ma anche ad alcune sequenze cinematografiche – di quell’Autore fecondo, sensibile e acuto, cantore bonario di un popolo e di una città che è universale.

Durante la mia infanzia partenopea, trascorsa nel quadrilatero Foria-Granili-Materdei-Tarsia, ho incontrato tutti i tipi illustrati da De Crescenzo nella sua galleria di personaggi della napoletanità. Sono gli stessi tante volte visti – o letti – nelle messe in scena o nei film dei De Filippo, di Totò, di un Autore come Giuseppe Marotta, a torto quasi dimenticato.

Proprio nei confronti di quest’ultimo, De Crescenzo rivela affinità, nel suo rapporto con gli dei, i miti e i filosofi dell’antica Grecia, ai quali entrambi dedicarono libri importanti come “Gli Alunni del Sole” (Marotta) e “Oi Dialogoi” e “I miti degli dei”. Ma soprattutto, sia l’uno che l’altro furono cantori della civiltà e della poesia del vicolo, e di una vicinanza con “i signori” che solo a Napoli ha trovato la sua realizzazione (almeno in anni lontani).

Difficile, per uno scrittore, sfuggire alla retorica e al luogo comune, quando si parla della città che deve uno dei suoi nomi alla sirena Partenope e la cui poesia in forma di canzone è nota in tutto il mondo: ebbene, De Crescenzo, al pari degli altri grandi della letteratura napoletana, vi è riuscito, in virtù di uno stile affabulatorio e mai sguaiato; di più: ha espresso, con la bonomia che gli era propria, quella complessa filosofia della vita, nella quale può riconoscersi ogni figlio di quella terra, e che si sostanzia in un forte senso della comunità, in una devozione insieme forte e irriverente, in un disincanto pure non esente da entusiasmi, in un fatalismo ora nobile ora abulico.

Questa perdita mi ripropone anche un altro connotato che accomuna tanti artisti della mia città: quasi tutti quelli che, in campi diversi, hanno ottenuto il successo che meritavano, hanno dovuto abbandonare il Golfo e le sue bellezze sciupate; a fronte di un Luigi Compagnone e di un Mimì Rea, rimasti a Napoli, sono andati a ingrossare le fila dei “napoletani della diaspora” i De Filippo e Totò, i Marotta, i Patroni Griffi e i La Capria. E non basta la considerazione che le opportunità di lavoro e di successo si trovavano – e si trovano – lontano da Napoli (per lo più, a Roma).

Viene allora il sospetto che questa città, non diversamente da certe eroine delle tragedie e dei miti della Grecia, sia troppo spesso crudele nei confronti dei propri figli; ma questa nota, nelle pagine di De Crescenzo, non la troviamo, e forse anche questa mancanza costituisce un’ulteriore dimostrazione di affetto filiale.

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Giuseppe Del Ninno

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