Il ricordo. L’incanto di Ilaria Occhini e le riviste fasciste del padre Barna (su cui scriveva Evola)

Ilaria Occhini
Ilaria Occhini

Cari amici di Barbadillo,

il bel ricordo di Ilaria Occhini pubblicato da Amerino Griffini evoca in me altre memorie, legate ai miei incontri sia con l’attrice appena scomparsa, sia con suo padre, Barna. Cominciamo da quest’ultimo, perché è il ricordo più antico, che alla memoria presbite di un sessantenne risulta anche il più vivido. Doveva essere il novembre o il dicembre del 1977. Invitato dall’amico Carlo Fabrizio Carli, mi recai da Barna Occhini nella sua casa di viale Gramsci, nome che detestava, tanto più che aveva sostituito quello di un principe di casa Savoia, in un condominio alto borghese affacciato sui platani e purtroppo sul traffico convulso del viale.

Il saggio di Carlo Fabrizio Carli

La prima impressione non fu delle migliori, e ne capisco oggi il motivo. Imitando il grande suocero, Barna Occhini, all’epoca settantunenne, amava “papineggiare”, provocando gli ospiti del suo salotto, senza però essere Papini. Mi colpì come stroncò senza appello il volumetto su “Architettura e tradizione” che Carli gli aveva fatto recapitare. Ci fece invece l’elogio del volume di Montanelli e Cervi sull’Italia littoria, appena uscito; al che mi sentii in dovere di contraddirlo a mia volta, obiettandogli come i due giornalisti non facessero altro che divulgare quello che, con ben maggiore impegno e coraggio, aveva scritto De Felice negli “Anni del consenso”. Credo che quella critica non gli dispiacesse, tanto che al termine dell’incontro Occhini mi regalò un suo volume pubblicato nel 1972 con l’editore Giovanni Volpe, “Mosca Lenigrado, grandezze e miserie”, che poi era il resoconto del suo viaggio in Unione Sovietica insieme, presumo, al genero Raffaele La Capria e alla figlia Ilaria. Era un diario sincero, che si sforzava di essere obiettivo (del resto Occhini era stato un fascista di sinistra, ai tempi della Rsi), con alcune pagine belle, oserei dire di alta retorica, per esempio sul culto degli eroi.

Dopo quel congedo non ebbi più occasione d’incontrarlo, anche perché morì pochi mesi dopo. Per uno strano caso, reduce da un viaggio a Roma, mi ero recato da lui a consegnargli una lettera che l’amico Carli mi aveva chiesto di recapitargli a mano (allora le poste funzionavano a seconda degli umori dei portalettere, cioè male); purtroppo il portiere dello stabile mi aveva fermato perché “il professore sta male” per un attacco di cuore. Si sfogò poi con me dicendomi che un uomo nelle sue condizioni non avrebbe dovuto andare alle corse dei cavalli.

Italia e Civiltà, la rivista curata da Barna Occhini, a cui collaborarono Giovanni Gentile e Giovanni Spadolini

In seguito conobbi Occhini dalle opere, prima fra tutte l’antologia di “Italia e Civiltà”, la rivista espressione del revisionismo fascista nei mesi della Rsi, di cui fu direttore e che ebbe molti insigni collaboratori, alcuni dei quali, come Ardengo Soffici, Enrico Sacchetti, Giotto Dainelli, non rinnegarono le loro idee, altri, come Silvano Tosi, Primo Conti, Giovanni Spadolini ebbero un più o meno immediato ralliement col nuovo corso democratico. Come mi avrebbe ricordato Sigfrido Bartolini, l’antologia uscì negli anni in cui Spadolini era direttore del “Corriere della Sera”. Dalla cernita dei testi pubblicati, Barna espunse quelli in cui il giovanissimo Spadolini manifestava posizioni più estremiste, ma ricevette una contropartita: mai come nei mesi successivi alla pubblicazione i libri delle edizioni Volpe furono così recensiti dal quotidiano di via Solferino.

Ho già avuto modo di esprimere la mia opinione su Occhini in un articolo sul “Secolo d’Italia”, poi raccolto nell’“Ideario italiano” pubblicato dalle edizioni del Minotauro a cura di Gennaro Malgieri. Barna, oltre che un brillante polemista, fu una persona di grande gusto e sensibilità, che affrontò in maniera un po’ estetizzante la politica; il suo ingegno per certi aspetti dispersivo gli fece dare il meglio di sé come organizzatore di riviste: prima, dopo l’esodo degli ermetici, come caporedattore di un “Frontespizio” “fascisticamente impettito”, come lo definì Giorgio Luti, poi a “Italia e Civiltà”, poi come fondatore insieme a Sigfrido Bartolini di “Totalità”, il periodico che fra il 1966 raccolse alcune firme di spicco della cultura di destra, da Julius Evola a Fausto Gianfranceschi, da Giano Accame a Vintila Horia, e di cui Simonetta Bartolini ha raccolto l’eredità, fondando un giornale on line con questo titolo. 

La rivista di Sigfrido Bartolini Totalità

Di famiglia aristocratica, bell’uomo, figlio del senatore Pier Ludovico Occhini, innamorato dell’arte al punto di sostituire il suo nome di battesimo, Carlo Luigi, con quello di un prediletto pittore trecentesco, Barna deva aver conosciuto una gioventù splendida, specie dopo il matrimonio con la figlia dello scrittore più famoso nell’Italia fra le due guerre. La guerra, il crollo del regime, la prigionia insieme ad Ardengo Soffici, che per altro amava e stimava più del suocero, diedero una brusca svolta alla sua vita. Occhini si trovò ridotto a un ruolo marginale, e soprattutto mancò a lui, come del resto a molti scrittori legati come lui al culto della bella pagina, la capacità di concepire opere di ampio respiro. Scrisse un manuale di storia dell’arte per la Paravia, diresse le Edizioni dell’Arco, che negli anni del dopoguerra cercarono di raccogliere quanto restava dell’eredità della cultura vicina al fascismo, ma forse il meglio di sé lo lasciò in uno splendido libro-confessione, “Lettera a te”, dedicato all’amata moglie Gioconda, morta precocemente per un tumore. Il libro è uscito postumo nel 2002, per le edizioni Le Lettere, e in quelle pagine di prosa lirica, accorate senza essere melense si disvelava il grande scrittore che sarebbe potuto essere. Resta di lui, però, per merito della Fondazione Sigfrido Bartolini, un archivio oggi consultabile telematicamente che raccoglie la sua corrispondenza con alcuni fra i maggiori esponenti della cultura italiana: mille lettere, oltre a moltissimi testi inediti, di personalità non soltanto riconducibili al mondo della destra, come Salvatore Quasimodo, Piero Bargellini, don Giuseppe De Luca,  Ildebrando Pizzetti, Giovanni Spadolini, Giuseppe Prezzolini,  Giò Ponti, Giovanni Michelucci, Carlo Carrà, Enrico Pea, Pietro Pancrazi, Emilio Cecchi.

Ilaria Occhini

Due parole, infine, sulla figlia di Barna, Ilaria Occhini. La conobbi di persona l’8 agosto del 2006, quando, nell’ambito degli incontri sui “Percorsi del Novecento” al Caffè della Versiliana, volli dedicare un pomeriggio al ricordo di suo nonno Giovanni Papini, scomparso mezzo secolo prima. Insieme a lei invitai, d’intesa con Romano Battaglia, Simonetta Bartolini, figlia di Sigfrido e curatrice della “Lettera a te” di Barna Occhini, e Mauro Mazza, all’epoca direttore del TG2: un “papiniano di complemento”, visto che nel 1981, negli anni in cui lavorava al “Secolo d’Italia”, aveva pubblicato un volume su Papini con l’editore Volpe.

Ilaria Occhini, che viveva col marito Raffaele La Capria a Bagnoro, in un incantevole rustico nei pressi di Arezzo, non amava spostarsi e aveva accettato solo dopo la mia promessa di andarla a prendere, cosa che feci con piacere, visto che sarebbe stata l’occasione di scambiare delle opinioni con una delle protagoniste del teatro italiano del dopoguerra. Mi recai puntualmente alle tre e un quarto davanti alla sua abitazione, ma, con mio grande sgomento, dell’attrice non v’era traccia. Il marito, persona squisita, innamoratissimo della moglie e per l’occasione sinceramente imbarazzato, mi spiegò che era ancora impegnata a prepararsi. Con sollievo vidi dopo qualche tempo apparire la bella signora e sperai che salisse in macchina, invece mi aspettava un’altra sorpresa. Ilaria Occhini si mise affannosamente a cercare una copia dell’“Uomo finito”, di cui voleva leggere un brano nell’incontro, senza però riuscire a trovarla. Nella vana ricerca si fecero le quattro, ora che cominciava a suscitare qualche allarme, perché alle sei doveva tassativamente cominciare la ripresa televisiva. Accortasi anche lei di aver traccheggiato, mi confessò che anche in teatro era abituata a far tardi alle prove. Dovetti spiegarle che alla Versiliana non si fanno prove: si va direttamente in diretta. Un ingorgo autostradale, che ci indusse a uscire a Firenze Sud per poi entrare a Novoli, non migliorò le cose. Oltre tutto, appena arrivati, l’attrice mi chiese dov’era il camerino. Le spiegai che alla Versiliana non ci sono camerini e si ritirò a truccarsi lo stesso, per cui dovemmo cominciare senza di lei. Sopraggiunse più tardi e, all’ingresso, inciampò poco prima di salire sul palco, sulla ghiaia della grande arena all’aperto, costringendoci a ricominciare.

Come molte imprese cominciate male, l’incontro finì benissimo. Ilaria Occhini incantò il pubblico, folto ed entusiasta, leggendo alcuni passi del nonno, che ricordava con nostalgia anche per la sua capacità di temperare il rigore del padre nei suoi confronti, e gli altri partecipanti non furono da meno. Come ebbi sentore passando, per il viale Gramsci, davanti alla casa di Barna, Ilaria Occhini non aveva un bel ricordo di quel padre cui in realtà somigliava più di quanto non pensasse e che invece era stimato per il suo senso dell’onore e la sua coerenza dal genero, pur di idee politiche molto lontane dalle sue. 

“L’ultima” rivista papiniana

Mi ero portato, insieme ad altre opere di Papini, due rarità bibliografiche. La prima era il numero speciale della rivista “L’Ultima”, pubblicato dopo la morte dello scrittore nel 1956. “L’Ultima” era stata effettivamente l’ultima rivista su cui Papini aveva scritto, spesso sotto fantasiosi pseudonimi. L’altra rarità bibliografica era un omaggio non al nonno, ma al padre dell’attrice. Si trattava infatti del volume sulla Toscana uscito negli anni ’30 nella collana del Touring Club Italiano “Attraverso l’Italia”. Del volume, per l’epoca un capolavoro della grafica, con incisioni in bianco e nero e tavola in quadricromia, avevo già deciso di farle omaggio; ma la signora Occhini, con l’aggraziata impudenza della bella donna abituata a non ricevere rifiuti, mi chiese “in diretta” di regalarle anche la rivista e io non ebbi cuore di rifiutare. Lì per lì ci rimasi male: quella copia era un dono del vecchio professor Adolfo Oxilia, che era stato direttore della rivista e aveva portato a spalla la bara di Papini. Oggi invece sono contento di averlo fatto e spero che sia stata anche qualcuna di quelle pagine a suggerire a Ilaria Occhini le belle parole che nella sua autobiografia ha dedicato alla figura del nonno.

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Enrico Nistri

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