Il caso (di P.Buttafuoco). “Popolo ma non troppo”: troppo liberalismo e poca sovranità

La democrazia fonda la propria legittimità su un’affermazione – “non c’è altro sistema migliore” – che è a sua volta, con Winston Churchill, una negazione suprema: “La peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre”.
Non ammette altra alternativa a se stessa che il “male”. E ben più che l’assolutismo, la democrazia, radica la propria compiutezza nella perentoria cristallizzazione del demos.
Una sorta di nulla salus extra ecclesiam, questo è l’egualitarismo elevato a sistema, per ricavarne una chiesa definitiva in cui alloggiare il minaccioso muggito delle masse.
“Temi Iddio e l’idiozia della plebe”, recita Ezra Pound nel LXXIV dei suoi Cantos, fa ancora testo Aristofane rispetto alla tirannia “dei peggiori” ma il popolo è da sempre il pretesto per l’esercizio del potere e la cosiddetta sovranità popolare non rappresenta la popolazione nella sua interezza e il liberalismo che ha permesso la democrazia – ed è la tesi di Yves Mény – si sta trasformando nella minaccia a questa stessa.
Un accumulo di istituzioni che limitano la sfera decisionale della politica – le autority, le banche centrali, le corti costituzionali – generano quello che Mény, nel suo saggio Popolo ma non troppo, il malinteso democratico (Edizioni Il Mulino), definisce “effetto paralizzante” all’interno del sistema.
Lo spettro del populismo si aggira per le sparse sovranità d’Europa. La discussione è aperta e l’obiezione del politologo francese trova conferma nella crisi di sistema nell’intero spazio occidentale.
La crisi della democrazia d’Occidente, secondo Mény, coincide con l’eccesso di liberalismo.
La collocazione dell’individuo al centro della società “evoluta”, alle sue estreme conseguenze, genera monadi tra loro scollegate ma “nessuna società può sopravvivere senza un legame tra i singoli”. Lo strapotere liberale sulla democrazia – il proliferare degli organismi di mediazione – prescinde dai vincoli “spirituali” che lega la vita di tutti e delle cose.
Il liberalismo ammette l’esistenza del male sociale solo quando il governo sfugge ai borghesi e cade in mano ai popoli. La scuola liberale che si è assunto il compito di amministrare, per dirla con Juan Donoso Cortés, “senza Dio e senza popolo”, spregia la dimensione più intima.
Non di solo indistinta umanità vive il popolo. Quella che sgorga dall’io profondo dei popoli, come pure dal genius loci che fa di ogni contrada una distinta patria – spazio e tempo circoscritti in un confine – è la radice in cui ogni comunità incardina il proprio destino.
Il liberalismo si proietta nella direzione di un dominium svuotato di qualunque legittimità identitaria. Fa dei simili, dei dissimili: “Ogni individuo”, dice Mény in un’intervista di Anais Ginori su Repubblica, “è come Sansone che demolisce le colonne del Tempio, distrugge le fondamenta del sistema rappresentativo” ma l’assoluto democratico – se vale la controprova offerta dalla realtà dei fatti – trova l’inciampo in se stesso.
Il liberalismo altro non è, infatti, che la nemesi per la democrazia, la forma più affinata di capovolgimento del proprio verbo.
Suo ufficio resta – ed ecco il malinteso ben inteso su tutte le conseguenze della crisi d’Occidente – stabilire di volta in volta ciò che per l’individuo è bene e ciò che è male sottraendolo al dovere sociale verso i singoli, al farsi popolo di un destino.
Nulla salus oltre il liberalismo, dunque – e il populismo incombe – ma se si è secolarizzata la Chiesa, non dovrebbe potersi smaterializzare la democrazia?

da Il Fatto Quotidiano del 29 luglio 2019

Pietrangelo Buttafuoco

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