Riforme. Se il regionalismo piace al Nord e non spaventa i meridionali

Un Nord-Est convintissimo e un Sud sostanzialmente tiepido e «non ostile». Il tema del regionalismo differenziato (o asimmetrico) non divide più di tanto il tessuto del Paese come certa comunicazione – soprattutto di matrice progressista – lascerebbe intendere. Tutt’altro, invece. Lo dice l’istituto Demos, che a metà luglio ha condotto una rilevazione per la Repubblica. Il 60% degli italiani è favorevole alla devoluzione di competenze chiesta dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Percentuale che arriva a quota 90 nei territori dell’ex Serenissima. Ma c’è di più. A dirsi favorevoli non sarebbero soltanto gli elettori della Lega, ma ci sarebbe un consenso assai più vasto e che travalica i tre poli.

Si tratta di numeri che hanno tantissimo di politico. Perché la questione dell’autonomia potrebbe anche apparire come un’opportunità per i territori. Opportunità rispetto alla quale, gli attuali ostruzionismi di maniera, alla fine potrebbero rivelarsi un boomerang. Al netto della specifica questione sulla scuola (ancora tutta da chiarire e puntellare), è difficile articolare un niet che sia totalmente privo di imboscate. Dovesse partire l’autonomia delle tre regioni del Po, innescando quegli affetti positivi che in tanti attendono, e i distinguo di oggi sarebbero spazzati via quali opzioni oziose se non retrive o reazionarie.

È chiaro che ogni rilievo vada posto nel modo giusto e senza ipocrisie. “Maggiore autonomia necessita di strumenti idonei di monitoraggio per evitare tensioni sul bilancio dello Stato”, fa bene la Corte dei Conti a invocare cautela. Che è cosa diversa dallo spauracchio. Degno di nota è l’appunto del governatore dell’Abruzzo, Marco Marsilio, affinché “se si punta a un dimagrimento delle funzioni dello Stato, questo non può avvenire a vantaggio di alcuni e a danno di altri”.

Bando agli isterismi, dunque. Perché di secessioni in vista non c’è neanche l’ombra. Il primo motivo è costituzionale. Appunto perché è il titolo quinto a stabilire i confini di un piano che è già in nuce nella Carta riformata addirittura dal centrosinistra nel 2001. Il secondo è di carattere storico. La vicenda siciliana lo insegna: il riconoscimento dell’Autonomia dell’Isola si è rivelato lo strumento più efficace per neutralizzare la tentazione separatista esplosa con lo sbarco degli americani e la fine del fascismo. Certo, ha ragione Pietrangelo Buttafuoco quando dice che l’Autonomia ha poi partorito dei mostri assai peggiori. Ma il problema lì sta tutto nella responsabilità dei gruppi dirigenti siciliani cresciuti all’ombra dello scudocrociato, che hanno interpretato lo Statuto nel modo più autoreferenziale possibile. Cioè, a uso e consumo del diametro addominale di pochissimi.

Se c’è una questione che va posta con urgenza è semmai la mancanza di orgoglio meridionale. Inutile impedire alle Regioni del Nord di gestire risorse che sono frutto del proprio lavoro. Ben venga quindi l’idea del giornalista partenopeo Alessandro Sansoni di lanciare la macroregione autonoma del Sud. Lasciando stare Sicilia e Sardegna che hanno già un loro Statuto, perché dal Mezzogiorno non può arrivare una contro-iniziativa che sia speculare a quella dei cugini padani? Perché Campania e soprattutto Puglia – che potrebbero trarne addirittura dei benefici economici – non si attivano in tale direzione?

L’idea di azzoppare il Nord per non perdere di vista il Sud è fuori tempo massimo. Iniziare a correre, invece, pretendendo pure delle scarpette adeguate, non farebbe altro che alzare il livello dell’intero sistema Paese. Insomma, chi è sensibile al tema delle identità (nel pieno rispetto di quella nazionale) non può temere la spinta propulsiva dei territori. Cioè delle comunità: che sono da sempre l’anima dell’Italia intera.

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Fernando M. Adonia

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