Politica. La Svimez rivela l’attualità (al Sud) del dramma dell’emigrazione

Emigrazione

“Si è sempre meridionali di qualcuno” (Così parlò Bellavista – Luciano De Crescenzo)

Sono allarmanti le prime anticipazioni del rapporto Svimez sull’emigrazione; un rapporto dove emerge, laddove ce ne fosse bisogno, l’immagine di un Paese spaccato in due con il Mezzogiorno che regista sempre di più il fenomeno di “svuotamento da emigrazione” da parte di migliaia di giovani e di laureati, che lasciano i paesi natii per cercare fortuna altrove.

Laureati con la valigia di cartone

Il Sud dell’Italia si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione di un’intera area del nostro Paese  tra il 2002 e il 2017 sono stati oltre 2 milioni, di cui 132.187 nel solo 2017, di questi ultimi 66.557 sono giovani (50,4%, di cui il 33% laureati) giovani di cui 133mila laureati, con le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori.

Problema lavoro

Che una migrazione interna all’Italia sia sempre esistita lo sappiamo tutti: trovare qualcuno al Sud che abbia almeno un parente che negli anni ’60 è andato a lavorare alla Fiat è piuttosto semplice, così come al Nord abbondano i cognomi meridionali e le estati “dai parenti di giù”. Ma allora era un fenomeno diverso, si trattava quasi sempre di poveri che cercavano lavoro nelle zone industrializzate d’Italia, e molto spesso anche all’estero.

Ma la questione dell’immigrazione al Nord oggi è diversa, perché non coinvolge più operai e contadini ma neo-diplomati in procinto di cominciare l’università o comunque giovani specializzati. È un campione sociale diverso da quello di sessant’anni fa e il rischio che ne consegue è inquietante: mentre prima anche chi rimaneva al Sud continuava comunque a fare figli, oggi il tasso di natalità è molto più basso. In pratica, c’è molta più gente che muore di quanta decida di mettere al mondo nuovi esseri umani. I giovani piuttosto che rimanere a studiare a casa propria preferiscono andare in una città dove il livello universitario è ritenuto più alto e soprattutto dove una volta laureati avranno un’effettiva prospettiva di lavoro, o quantomeno la speranza di una prospettiva, compresa quella di mettere su una famiglia. Nel frattempo, nelle regioni da cui se ne sono andati non c’è un ricambio generazionale sufficiente a garantire che questo fenomeno non implichi una vera e propria desertificazione.

Infrastrutture e trasporti

Sono 600 i chilometri che dividono Roma da Milano, e vengono percorsi in treno praticamente tre ore.

Mentre dalla città meneghina per raggiungere Torino occorrono poco più di quaranta minuti per 140 chilometri.

Non c’è che dire: un grande risultato.

Esiste invece una metà di penisola in cui i treni ad alta velocità si trasformano in carri bestiame di fine Ottocento.

Prendete lo stesso portale di Trenitalia e provate a digitare: da Palermo a Catania, ossia per 190 chilometri?

Più di quattro ore. Per non dire da Catania a Ragusa dove, per percorrere appena cento chilometri, si impiegano fino a sei ore, la tratta interna Roma  – Pescara ne impiega circa 4 per meno di 180km oltre che treni che si riducono ad un binario sul 90% delle tratte meridionali e capoluoghi di Provincia che nel 2019 ancora non sono collegati.

Il Sud è diventato in breve tempo territorio di conquista per le società di trasporto su bus. Non avendo alternative i cittadini prendono la corriera rinforzando, inevitabilmente, un sistema potentissimo che sembra impossibile da cambiare. Si sono moltiplicate le società specializzate, mettendo su un business che ha preso il posto del servizio ferroviario.

Unità incompiuta

C’era una volta Giovanni Gentile che indicava in un processo di modernizzazione la compiuta esecuzione di uno Stato “italiano e cosmopolita”, garante di un livello accettabile di convivenza, se non di civiltà, a dispetto dei suoi stessi paesani, individuava uno stato che, con i Borghi rurali, portava la città in campagna, sottraendo il territorio alla mafia.

Era uno stato che fabbricava industrie e segnava ferrovie, riducendo le distanze e la periferia. Era uno stato che debellava l’analfabetismo portando tutto il mondo dentro il largo paese della marginalità.

L’Italia fu unita nel nome di uno Stato centralista fondato sulle province e sulle prefetture, a imitazione del modello napoleonico; e in cento anni quello Stato, con tutte le sue contraddizioni e le sue ingiustizie, portò l’Italia da paese povero, contadino e analfabeta a paese moderno, sviluppato e istruito, con un ascensore sociale straordinario, una vitalità pubblica e privata da far invidia alle nazioni più moderne.

Le Regioni furono l’inizio del declino dello stato italiano, il raddoppio degli sprechi, del clientelismo e del personale politico, un favore fatto a tutte le consorterie, dalla partitocrazia alle associazioni mafiose, dal familismo alla lottizzazione. Ma la riforma del titolo V fu poi la mazzata finale che investì le regioni di compiti e prerogative che furono il colpo di grazia dello Stato nazionale e sovrano. L’istruzione, la sanità, la sicurezza regionali, e una marea di conflitti da logorare il tessuto unitario e ogni prospettiva di efficacia.

Quel che spaventa è l’introduzione di un principio: se chi è più ricco o meglio amministrato può chiamarsi fuori dalla responsabilità nazionale, allora presto vedremo province più ricche e meglio condotte scaricare regioni più povere e aree malandate, anche a nord.

Perché la corsa agli egoismi locali va all’infinito e distrugge ogni comunità.

Il sud ad oggi è fuori dall’agenda politica, o meglio ci entra e ci esce a fine anno quando l’esecutivo trova più comodo firmare un assegno e rinviare il problema come accaduto con il reddito di cittadinanza immaginato da Tria come panacea di tutti i mali del meridione.

L’introduzione di questo “metadone di stato” altro non è che uno stupido tentativo di curare in cancro con una cura a base di antistaminici. Una cura inutile, ma molto costosa, per la quale è prevista una spesa di circa 7.493 milioni di euro annui, soldi che probabilmente avrebbero potuto migliore di tanto la situazione se investiti in modo corretto, per esempio destinando questa somma alle piccole e medie aziende, che avrebbero potuto così aumentare le assunzioni.

Tutto questo perché la soluzione del problema avrebbe un costo troppo elevato in termini elettorali, vi regaliamo un po’ di soldi, accontentatevi. Il sud è ormai narcotizzato dai flussi di risorse. Si preferisce deviare verso il mezzogiorno dei soldi anziché affrontare una delle grandi ipocrisie italiane: sbandieriamo ai quattro venti l’esistenza di un mercato del lavoro unico ma ciò non corrisponde al vero.

Ci si può proclamare “sovranisti” e urlare che vengono prima gli italiani e poi distinguere tra padani, romani e terroni?

@barbadilloit

Francesco Di Giuseppe

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