Cultura (di G.Marocco). Il Trattato di Versailles, cento anni fa. Dai ‘14 Punti’ a Fiume

Un momento dei lavori in Francia per il trattato di Versailles
Un momento dei lavori in Francia per il trattato di Versailles

Nel 1914, mentre l’Europa era prossima alla WWI, il Presidente degli USA, Thomas Woodrow Wilson (Staunton, Virginia, 28 dicembre 1856 – Washington, 3 febbraio 1924), del Partito Democratico, avvocato, già Rettore dell’Università di Princeton, disse che «l’America apparirà in piena luce quando tutti sapranno che essa pone i diritti umani sopra ogni altro diritto e che la sua bandiera non è solo dell’America, ma dell’Umanità». In tal modo Wilson pareva recepire le convinzioni, le idee dei movimenti pacifisti, progressisti ed internazionalisti nordamericani. Fuori dei confini statunitensi egli si presentava, con un successo oggi difficilmente comprensibile, come un “paladino della pace, delle soluzioni arbitrali per ogni conflitto, dell’opposizione alla diplomazia segreta, della predicazione per la nascita di una grande organizzazione internazionale capace di dare valore di norme di diritto internazionale ai principi dell’internazionalismo”. Al tempo stesso eran gettate le basi di quella fortunata propaganda ‘Democracy and Freedom’ che – passando per l’ “Arsenale della Democrazia” della WWII – è ancora vigente, per quanto creduta da sempre meno persone.

Il piccolo capolavoro propagandistico (anche d’ insincerità o d’ipocrisia bella e buona) sarà poi, nel gennaio 1917, quando ormai la guerra era scoppiata da anni, l’intervento di Wilson al Senato di Washington per ribadire il suo pensiero, dichiarando che la pace futura doveva essere “basata sull’uguaglianza delle nazioni, sull’autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari, su una riduzione generalizzata degli armamenti”, e senza vincitori, poiché una pace imposta ai vinti avrebbe comportato un’altra guerra. Queste profetiche parole, secondo i suoi apologeti, non si sarebbero mai tradotte in fatti concreti se gli USA non fossero già stati la prima potenza economica mondiale e se non fossero entrati direttamente in guerra. Cioè, “dovevano” entrarci.

La proposta wilsoniana dovette poi misurarsi, oltre che con le Potenze impegnate nei combattimenti, anche con Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre in Russia, che predicavano un nuovo ordine internazionale, fondato sull’alleanza dei lavoratori, invece che su intese fra governi. L’8 novembre ’17 il Congresso Panrusso dei Soviet licenziò il «decreto per la pace» col quale chiedeva ai popoli di tutti i paesi in guerra ed ai rispettivi governi «l’immediata apertura di negoziati per una pace giusta e duratura», dal carattere essenzialmente eversivo, dal momento che si rivolgeva ai ‘popoli’, premessa per la rivoluzione proletaria. Esattamente due mesi dopo, l’8 gennaio 1918, Wilson rispose con i famosi “Quattordici punti” (Fourteen Points), dove riunì gli obiettivi di guerra statunitensi, facendoli precedere da un preambolo alquanto bugiardo e cinico:‘gli Stati Uniti non entravano in guerra per interessi propri, quanto piuttosto per rendere più sicuro il mondo e le nazioni’. Wilson, del resto, pretenderà dagli Alleati la resa della Germania basata su tali punti. Stessa cosa, quale inizio dei negoziati di pace. Ma sarà essenzialmente, e nel migliore dei casi, pura e vacua retorica di vincitori.

Da sinistra, il primo ministro del Regno Unito, Lloyd George, il presidente del Consiglio italiano, Orlando, il presidente del Consiglio francese, Clemenceau ed il presidente degli Stati Uniti d’America Wilson, 27 maggio 1919, U.S. Signal Corps photo

Sebbene, nel dicembre 1916, Germania ed Austria-Ungheria fossero riuscite ad impadronirsi di un importante canale di approvvigionamento con l’occupazione della Romania e l’acquisizione del controllo della regione danubiana, l’ininfluente Battaglia dello Jutland – la più grande battaglia navale della guerra in termini di naviglio impiegato, che ebbe luogo fra il 31 maggio ed il 1º giugno 1916 nelle acque del Mare del Nord, e vide scontrarsi la Royal Navy britannica e la Kaiserliche Marine tedesca – aveva lasciato ai britannici il dominio dei mari, permettendo loro di mantenere il ‘blocco navale’ che strozzava la Germania, insufficiente già in tempo di pace al proprio fabbisogno alimentare, visti i suoi 70 milioni di abitanti. I vertici tedeschi si risolsero quindi ad estendere la guerra sottomarina: gli Stati Uniti erano già molto vicini politicamente ed economicamente all’Intesa, che sopravviveva grazie agli aiuti americani, sia pure in contrasto con quanto previsto dal vigente diritto internazionale per gli ‘Stati Neutrali’. Il 1º febbraio 1917, per non uscire debellato dalla ‘guerra di logoramento’ in atto, il Reich fu costretto a varare la cosiddetta ‘guerra sottomarina indiscriminata’; da quel momento in avanti ogni nave diretta ai porti dell’Intesa sarebbe stata considerata un bersaglio legittimo. Era lo sperato casus belli: pochi giorni dopo gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con la Germania.

Nonostante gli incidenti susseguitisi per due anni, a partire dall’affondamento del RMS Lusitania, nel 1915, il presidente Wilson si era attenuto ad una ufficiale ‘politica di neutralità’. L’annuncio della campagna sottomarina ed il maldestro tentativo tedesco di sondare il Messico circa un eventuale attacco agli Stati Uniti (il celebre “telegramma Zimmermann”), diedero il pretesto formale a Washington per modificare il neutralismo, assai radicato nell’opinione pubblica nordamericana, e prepararlo alla guerra. L’opinione pubblica venne allora chiaramente ingannata, manipolata, giacchè gli USA non avevano nulla da temere dagli Imperi Centrali e loro Alleati. Semmai le banche. Sin dall’inizio della guerra le banche USA avevano concesso agli Alleati, su autorizzazione del governo ingenti finanziamenti (circa 9 miliardi di dollari alla fine del conflitto), di cui gli Stati Uniti pretesero la restituzione integrale, contro i consigli di Keynes; tuttavia gli europei smisero le restituzioni a causa della crisi del ’29. Il 4 aprile 1917, Wilson presentò al Congresso la proposta di entrare nel conflitto: il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono, quindi, guerra agli Imperi Centrali. Nessuno dubitava che l’impatto dell’esercito statunitense in Europa sarebbe stato potenzialmente decisivo. Gli USA avrebbero addestrato circa un milione di soldati, che a poco a poco sarebbero forse saliti a tre. La questione era il tempo necessario per rendere effettiva tale presenza. La Germania sperava, naturalmente, di concludere le operazioni prima della consistente presenza al fronte di truppe dello Zio Sam.

Il Governo USA aveva seguito una politica imperialista militare, come tutte le grandi Potenze dell’epoca, forse con maggiore aggressività e mancanza di scupoli, in adesione al precetto del ‘Destino Manifesto’. Tale politica aveva una dimensione globale e si giocava su scala mondiale. Ne sono prova i tre interventi contro il Messico (1846-’48, 1914, 1917), la guerra contro la Spagna, nel 1898, con annessa occupazione di Cuba e Portorico (oltreché delle Filippine e di Guam), le operazioni in Nicaragua, Haiti, República Dominicana, Colombia, Panama (staccata dalla Colombia e ridotta ad Informal Colony per detenere il controllo del Canale).

L’imperialismo nordamericano si consolida attraverso la combinazione di due grandi fattori. In primo luogo la sua enorme crescita economica dopo la Guerra Civile, che consacra gli USA come grande Potenza militare e genera la necesità di mercati e materie prime. Ciò a fronte dal crescente protezionismo europeo dopo la crisi del 1873, che praticamente chiude gli sbocchi commerciali del Vecchio Continente. Le tariffe adottate dai Paesi europei convincono la classe dirigente nordamericana a cercare di stabilire relazioni economiche inedite ed assicurarsi mercati con una politica estera espansionista. Più sottilmente, si fa strada l’idea di legare al proprio destino la Gran Bretagna e di subentrarle gradualmente nel ruolo di Potenza marittima e coloniale egemone (le teorie geopolitiche di Alfred Mahan e del Sea Power). Secondariamente, la politica estera di Washington fu influenzata dal “darwinismo sociale”, cioè dalla tesi della sopravvivenza della specie di Darwin, applicata alle relazioni internazionali. Gli USA “dovevano” competere, anche con le armi, contro altre nazioni per sopravvivere e prosperare.

Se il loro spazio naturale di difesa e poi di espansione era già stato individuato con la Dottrina Monroe, nel contesto dei processi di indipendenza dell’America Latina, gli Stati Uniti proseguirono, quindi, la politica imperialista oltre l’America Centrale ed i Caraibi, ponendo l’occhio al Pacifico, alla Cina, alle enclaves navali per proteggere le rotte commerciali con l’Asia. Acquistata l’Alaska dalla Russia nel 1867, gli USA procedettero alla conquista delle Haway e delle Filippine nel 1898. Spesso gli USA non procedettero alla conquista e colonizzazione diretta di molti territori, come gli europei od i giapponesi, ma ottenendo il controllo e la sottomissione economica di tali territori, nell’ottica degli interessi delle loro grandi imprese, come la multinazionale United Fruit Company. Il 26mo Presidente USA, del Partido Repubblicano, Theodore Roosevelt (1858-1919), dal 1901 fino al 1909, fu il massimo istigatore di tale política aggressiva, conosciuta como del “Big Stick” (grosso bastone). Non a caso Roosevelt sarà un accanito sostenitore dell’ingresso degli USA nella WWI.

Si rende necessario soffermarci ulteriormente sui menzionati “Quattordici punti“, il nome dato all’accennato discorso del Presidente Wilson in merito all’ordine mondiale una volta raggiunta la pace. I punti, base per i colloqui di pace da parte degli Usa, furono illustrati l’8 gennaio 1918 davanti al Congresso in Washington, riunite le Camere in sessione congiunta, e riprendevano molti dei suggerimenti di una Commissione (The Inquiry) creata da Wilson e presieduta dal giovane giornalista progressista di origine ebreo-tedesca Walter Lippmann. In un quadro globale nel quale gli Stati Uniti, protetti dalla vastità di due Oceani – sul dominio di entrambi presto si dirigeranno non solo la riflessione geopolitica, ma misure concrete – si delineavano come l’unica grande Nazione rimasta di fatto immune dalla catastrofe della guerra, Wilson dichiarava al mondo di promuovere una “Pace senza vincitori”. Ma si trattava di una manipolazione sfacciata e dei propositi e dei seguiti.

Doveva trattarsi (teoricamente) di una pace basata sull’eguaglianza delle nazioni, sull’autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari. In particolare, la diplomazia “segreta” avrebbe dovuto essere abbandonata. Gli accordi segreti tra potenze avevano, infatti, caratterizzato buona parte dei passaggi-chiave della politica estera del passato; tale realtà, ignota alla pubblica opinione, era stata smascherata poco prima dai bolscevichi, i quali, giunti al potere in Russia, avevano subito pubblicato i patti segreti intercorsi tra lo zar deposto ed altre Potenze dell’Intesa, nei quali era prefigurato il futuro dell’Europa e del Medio Oriente, con una assoluta mancanza di riguardo per i desideri e gli interessi delle popolazioni coinvolte. I “14 Punti” intendevano rispondere, ed allo stesso tempo far propria, la propaganda bolscevica in tema di autodeterminazione e contro la diplomazia segreta (poi smentita, tra l’altro, dal Patto Ribentropp-Molotov dell’agosto 1939 sulla spartizione della Polonia, ma sarà un’altra storia…).

Il “princìpio di nazionalità” – noto anche con il nome di “principio di autodeterminazione dei popoli” – sarebbe dovuto essere, in effetti, la base per la ricostruzione dell’Europa e degli Stati nazionali, ma viziato da certo idealismo sterile, abbondante ipocrisia e pure da quella Realpolitik che a parole si condannava. Tali princìpi saranno applicati soprattutto all’Europa Orientale ed al Medio Oriente, per colmare il vuoto lasciato dal crollo simultaneo dei tre grandi Imperi multietnici (Russo, Asburgico, Ottomano). Tuttavia, data la complessità etnica del continente europeo, i suoi intrecci e sovrapposizioni secolari, esso non avrebbe potuto, anche se sincero, trovare una effettiva, giusta applicazione. Sarà, in ultima analisi ed in effetti, non il trionfo di ‘una nuova moralità internazionale’, dell’idealismo da molti generosamente attribuito a Wilson, ma quello degli interessi egoistici e della volontà di sopraffazione e/o di controllo dei vincitori.

Il ricordato Walter Lippmann (New York, 23 settembre 1889 – New York, 14 dicembre 1974) è stato un giornalista e politologo per decenni assai influente nel determinare le relazioni pubbliche statunitesi. Un teorico dell’utilità della manipolazione, non lontano dal… dr. Goebbels! Il suo nome è spesso associato a quelli di Ivy Ledbetter Lee e, soprattutto di Edward Louis Bernays (Vienna, 22 novembre 1891 – Cambridge, 9 marzo 1995), un pubblicista e pubblicitario statunitense di origine austriaca. Celebre per la sua parentela con Sigmund Freud (essendo suo nipote), Bernays fu uno dei primi spin doctor, ed è considerato uno dei padri delle moderne relazioni pubbliche, di cui, già nei primi anni del Novecento, teorizzò le principali regole. Morto ultracentenario, è considerato fra le cento figure più influenti del XX secolo, secondo una classifica stilata da Life. Combinando le idee di Gustave Le Bon (autore del libro Psicologia delle folle) e di Wilfred Trotter con le teorie sulla psicologia, elaborate dallo zio Sigmund, Bernays fu uno degli antesignani nel pubblicizzare metodi per utilizzare la psicologia del subconscio, al fine della manipolazione dell’opinione pubblica. A lui si devono le locuzioni “mente collettiva” e “fabbrica del consenso”, concetti importanti e controversi della propaganda.

Nel 1988, Noam Chomsky ed Edward S. Herman daranno alle stampe Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media, che fa riferimento alla ‘fabbrica del consenso’, espressione coniata da Walter Lippmann, che con Bernays aveva teorizzato il ‘modello di propaganda’ dei media. Secondo tale modello, la maggioranza dei mezzi di comunicazione di massa solo trasmette le opinioni ed interessi delle élites economiche e dei governi. La necessità di “manipolare le masse”, teorizzata da Bernays e Lippmann, per Chomsky ha contaminato la democrazia, convertendola in un palliativo: ‘Dare alla gente una medicina per un benessere temporaneo, affinchè si senta meglio, senza attaccare le condizioni e ragioni che creano la patologia’. Vengono poi, a complemento, i ‘guardiani della storia’. Chi sono? Gli storici, ovviamente, al servizio della politica. Parte del loro lavoro consiste nel modellare la nostra visione del passato in modo tale da sostenere gli interessi del potere attuale. Se non lo fanno, probabilmente saranno marginalizzati, in un modo o nell’altro. Le corporazioni mediatiche, per Chomsky, attivano dei filtri quali strumenti di propaganda e generazione del consenso al servizio dei poteri costituiti, assolutamente non della libertà d’informazione.

L’armistizio di Salonicco fu siglato il 29 settembre 1918 alla Convention per l’armistizio della Bulgaria a Salonicco, in Grecia, fra il regno di Bulgaria e le forze alleate, sancendo la sconfitta di Sofia ed a catena quelle dell’Impero Ottomano, dell’Austria-Ungheria, ed infine della stessa Germania imperiale. Il Reich aveva visto il proprio potenziale gravemente compromesso da quattro anni di guerra, trovandosi in gravi difficoltà dal punto di vista economico e sociale. Il 1º ottobre i britannici si apprestavano a superare la linea Hindenburg, lungo il canale di St. Quentin, e gli statunitensi a sfondare nelle Argonne; il generale Ludendorff (il vero governante della Germania in guerra) si recò allora direttamente dal Kaiser per chiedergli di avanzare subito a Wilson una proposta di pace, sulla base dei ‘Quattordici Punti’, dando egli la responsabilità della grave situazione a “idee spartachiste e socialiste che avvelenavano l’esercito tedesco”; il 4 ottobre il Cancelliere, principe Maximilian von Baden, telegrafò a Washington per richiedere l’armistizio. La Germania non era ancora precipitata nell’anarchia (come settimane più tardi), né aveva deciso di arrendersi.

A conferma che i “Quattordici Punti” erano essenzialmente propaganda, solo il 23 ottobre

Wilson respinse la proposta tedesca, esigendo preventivamente la caduta di tutte le monarchie germaniche ed il cambio integrale della sua classe dirigente, per lo più aristocratica! Ludendorff, sentendosi ingannato, optò per continuare la lotta, nella speranza che un’efficace difesa della frontiera tedesca potesse smorzare le pretese degli Alleati ma, di fronte alle resistenze dei politici (il governo del Reich ora comprendeva i socialdemocratici), rinunciò. La capitolazione dell’Austria-Ungheria, il 3 novembre, scoprì il fronte sud-orientale, dove la rivoluzione intanto dilagava. Di fronte alla rivoluzione interna ed alla minaccia delle forze alleate sul confine nazionale, i delegati tedeschi – che si recarono a Compiègne il 7 novembre – accettarono le gravose condizioni imposte dagli Alleati. L’armistizio entrò in vigore alle ore 11:00 dell’11 novembre 1918, ponendo così fine al conflitto.

I problemi che le nazioni sconfitte, a partire dalla Germania, dovettero affrontare furono molteplici, enormi, sociali, economici ed politici: si trovarono a dover combattere le forze rivoluzionarie a sinistra (e poi il para militarismo a destra), sostenere il morale della nazione, bollata dal marchio della sconfitta e schiacciata dal peso oneroso della “colpa della guerra”, che si tradurrà poi nel desiderio ossessivo di recuperare i territori perduti. La mattina del 1º dicembre le prime truppe britanniche e statunitensi varcarono la frontiera tedesca, mentre le autorità austriache inviarono a Berna l’ex ambasciatore a Londra per richiedere l’invio, da parte dei paesi vincitori, di derrate alimentari nella capitale austriaca, in quanto il problema della fame diveniva ogni giorno più grave. Dalla frantumazione dei quattro Imperi sconfitti emersero rapidamente nuovi Stati. Il 1º dicembre, nel giorno in cui le truppe Alleate entrarono in Germania, a Belgrado venne proclamato il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (poi Jugoslavia), che racchiudeva molte minoranze, tra le quali 500 mila ungheresi ed altrettanti tedeschi, decine di migliaia di romeni, albanesi, bulgari ed italiani. Il 4 dicembre, le truppe britanniche entrarono a Colonia, dove istituirono una zona di occupazione. Nove giorni dopo arrivò in Europa il presidente statunitense Wilson, in vista della Conferenza di Pace che si sarebbe svolta a Parigi.

Universalmente accolto come il salvatore dell’Europa e come il “Grande Uomo”, portatore di un verbo nuovo e superiore, Woodrow Wilson avrebbe dovuto ispirare i negoziatori dei trattati. Ma i suoi propositi, rivendicando la nazionalità e l’autodeterminazione dei popoli nello stabilire le nuove frontiere, si trovarono a dover competere con le diverse componenti nazionalistiche nei Balcani, con la necessità di creare Stati “cuscinetto”, con le rivendicazioni italiane sugli slavi e con i risentimenti acuti che i francesi covavano nei confronti dei tedeschi fin dall’epoca napoleonica, passando per Sedan. Wilson venne accolto col ‘tappeto rosso’ anche perchè gli Stati Uniti erano forti creditori di tutti i Paesi vincitori…

Wilson ben presto capì che i suoi programmi non sarebbero stati seguiti dai vincitori. In un incontro con Raymond Poincaré, il 14 dicembre, il presidente francese espose a Wilson l’idea centrale della presenza e dell’azione della delegazione francese alla Conferenza: ‘la Germania doveva essere punita per tutto quanto aveva fatto con e durante la guerra’ mentre Wilson fino ad allora non aveva mai parlato di ‘punizione’, ma solo di preparare una situazione in cui la classe dirigente tedesca, aristocratica, autocratica e militarista non avrebbe potuto più nuocere. Una dura ‘punizione’ avrebbe colpito, secondo Wilson, non l’autocrazia, bensì proprio gli sviluppi democratici che in quel momento il popolo tedesco stava faticosamente cercando. Nonostante ciò, Wilson conosceva la storia ‘giacobina’ della democrazia francese e, nella sua risposta a Poincaré, appoggiò la necessità di condannare a ‘giusto castigo’ la Germania.

Dopo la fine della guerra, la maggioranza della popolazione tedesca dava per scontato che si sarebbe arrivati ad una pace già prima della fine del 1919, sulla base dei ‘Quattordici punti’; i tedeschi si aspettavano, quindi, un certo riguardo, nonostante poco tempo prima essi avessero imposto dure condizioni alla Russia a Brest-Litovsk (3.3.1918). Già nel novembre 1918 essi scoprirono però, tramite informatori, che gli Alleati avrebbero fatto in modo che il peso e la colpa del conflitto sarebbero stati attribuiti in toto alla Germania.

La Conferenza di Pace di Parigi – per delineare una nuova situazione in Europa e stilare i trattati di pace con le quattro Potenze uscite sconfitte dalla guerra – si aprì il 18 gennaio 1919 e durò fino al 21 gennaio 1920, con alcuni intervalli. Partecipano i paesi vincitori della Guerra Mondiale: l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti e l’Italia, mentre i paesi sconfitti verranno convocati solamente per firmare i trattati. Durante la Conferenza emergono da subito vari contrasti: sembra prevalere, pur annacquata, la linea di Wilson, che prevede pace definitiva, disarmo ecc. La pace con la Germania è, però, chiaramente mirata ad un netto indebolimento di quella Nazione. La pace con l’Austria-Ungheria porta poi allo smembramento dell’Impero ed alla creazione di nuovi Stati. Un mosaico di nazioni, a volte irrilevanti. L’Italia riceve i territori del Trentino, Alto Adige (Sud Tirolo), Istria e Trieste, ma non la Dalmazia, che era stata promessa all’ingresso in guerra: per questo si parlò di “vittoria mutilata”, in parte non veritiera, in parte eccessiva, in parte poi usata per giustificare azioni e politiche nazionaliste e revisioniste.

………………………………………………………………………………………………………………………. (II)

I “Quattro Grandi” alla Conferenza di Parigi furono il britannico Lloyd George, l’italiano Vittorio Emanuele Orlando, il francese Georges Clemenceau, lo statunitense Woodrow Wilson, con i Delegati di 27 Nazioni. Le potenze sconfitte non vennero ammesse ai lavori. In primo luogo Wilson ottenne la discussione del patto istitutivo della Società delle Nazioni, un’organizzazione internazionale il cui compito sarebbe stato quello di prevenire o risolvere pacificamente i conflitti avvalendosi di sanzioni economiche o militari.

Facevano parte della Delegazione Italiana Vittorio Emanuele Orlando, Sidney Sonnino, Giuseppe Salvago Raggi. Orlando, dopo il disastro di Caporetto, il 30 ottobre 1917 fu chiamato a sostituire il debole Boselli. Oltre alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – egli era all’apice della sua carriera politica – mantenne anche il dicastero degli Interni nella drammatica situazione del momento. Orlando (Palermo, 18 maggio 1860 – Roma, 1º dicembre 1952) sarà chiamato il “Presidente della Vittoria”. Sidney Sonnino (Pisa, 11 marzo 1847 – Roma, 23 novembre 1922) nel 1914 divenne Ministro degli affari esteri fino al 1919, e condusse le trattative che portarono alla firma del patto di Londra nel 1915. Con tale accordo, l’Italia si impegnò ad entrare nella guerra contro l’Austria. Con la fine del conflitto, essendo l’Italia risultata vittoriosa, alla Conferenza, Roma richiese che venisse applicato alla lettera il Patto di Londra, sottoscritto nel maggio del 1915 da Salandra e da Sonnino stesso. Sonnino era un “italiano atipico”: liberale conservatore, anglicano, barone, nato in una famiglia da padre di origini ebraiche e da madre britannica. Il marchese Giuseppe Salvago Raggi (1866-1946), diplomatico di carriera, anch’egli liberale conservatore, già governatore dell’Eritrea ed ambasciatore a Parigi, fu inviato da Roma nella capitale francese anche per ‘mediare’ tra i forti caratteri di Orlando e Sonnino… Diede le dimissioni nell’aprile 1919 per “non essere complice di quello che accadeva”!

Il Trattato di Pace con la Germania fu sottoscritto a Versailles, il 28 giugno 1919; con l’Austria il Trattato di Saint-Germain, il 10 settembre 1919; con il Regno di Bulgaria il Trattato di Neuilly, il 27 novembre 1919; con l’Ungheria il Trattato del Trianon, il 4 giugno 1920; con l’Impero Ottomano il Trattato di Sèvres, il 10 agosto 1920. I francesi volevano umiliare i boches che lì avevano proclamato, nel Salone degli Specchi, simbolo della grandeur e della gloire della nazione, l’Impero nel 1871. Poi ci penserà Hitler ad umiliare i francesi nel 1940, tirando fuori il vagone ferroviario di Compiègne, dove i tedeschi avevano dovuto sottoscrivere l’armistizio l’11 novembre 1918…

La Conferenza di Parigi si aprì il 18 gennaio 1919 (lo stesso giorno in cui, quarantanove anni prima, fu solennemente proclamato l’Impero Tedesco), nella sala dell’orologio del Quai d’Orsay, sede del Ministero degli esteri francese, con un discorso del presidente Raymond Poincaré. Presidente effettivo della conferenza venne designato Georges Clemenceau (1841-1929), esponente della sinistra radicale e repubblicana transalpina. Nel 1906, in qualità di Ministro degli interni, egli ordinò la repressione violenta di uno sciopero di minatori nel Pas de Calais e di un’agitazione di vignaioli nel Linguadoca-Rossiglione. Nello stesso anno diventava Presidente del Consiglio, operando una decisa svolta politica verso il nazionalismo ed il centralismo statale. Clemenceau, autodenominatosi “il primo poliziotto di Francia”, sostenne la creazione della Polizia scientifica e delle Brigate regionali mobili (dette le “Brigate del Tigre”).

Tante questioni sul tavolo, molti e presto gli scontenti. Che la Conferenza di Pace sarebbe stata tutta in chiave antigermanica fu chiaro fin dalla scelta del luogo e della data. Nei primi giorni dei lavori, il 21 gennaio, Lloyd George (1863-1945), di modesta origine gallese, liberale di sinistra, propose d’invitare i bolscevichi al negoziato. Clemenceau e Sonnino si opposero non volendo concedere loro credibilità. Il primo tuttavia, si disse disposto ad adeguarsi al volere degli alleati; Sonnino, invece, tenne duro e propose, al contrario, di radunare tutti i ‘russi bianchi’ e di fornire loro le truppe necessarie! Che, però, nessuno intendeva inviare… Partiti i negoziati, Sonnino insistette perché le contrapposte rivendicazioni dell’Italia e degli slavi fossero discusse solo dal gruppo ristretto di nazioni, il cosiddetto Consiglio Supremo, temendo, giustamente, che un comitato di esperti più ampio si sarebbe preoccupato più della correttezza delle frontiere e del rispetto alle etnie locali, che delle clausole del Patto di Londra. In questo periodo Sonnino, che rifiutò anche di discutere su di un eventuale processo ed impiccagione di Guglielmo II, si conquistò presso gli alleati la fama di intransigente rompiscatole. Così che quando, a fine marzo, il Consiglio supremo si ridusse ai soli quattro Capi di governo, si disse che la decisione era stata presa al solo scopo di… sbarazzarsi di Sidney Sonnino.

Gli italiani venivano trattati con sufficienza od aperta ostilità: per gli Alleati, essi erano stati dal 1882 al 1915 alleati nella Triplice Alleanza di tedeschi ed austro-ungarici; solo nel 1916 il Regno dichiarò, inoltre, guerra alla Germania; essi erano stati rovinosamente sconfitti a Caporetto nel 1917 e si erano salvati per il rotto della cuffia, grazie anche ad ingenti trasferimenti di truppe alleate sul fronte del Piave (il contingente francese di circa 130.000 uomini fu il maggiore apporto, pur se essenzialmente come truppe di riserva); erano risultati alla fine vincitori, respingendo con valore l’offensiva di giugno-luglio 1918, è vero, ma infine a causa della rapida decomposizione austro-ungarica.

A Versailles fu difficile stabilire una linea comune, anche perché ogni Stato aveva instaurato con i tedeschi rapporti diplomatici differenti, sia prima che durante il conflitto. A causa di ciò venne definendosi un compromesso, che alla fine non piacque a nessuno. La Francia aveva sofferto moltissime perdite durante la guerra – umane e materiali – e gran parte di questa era stata combattuta sul suolo francese. La nazione era in rovina, con molti danni subiti da infrastrutture, edifici storici, risorse importanti. Il “Tigre” Clemenceau voleva dalla Germania riparazioni che permettessero in primo luogo di ricostruire e riparare i danni. Nel 1870, Francia e Prussia avevano già combattuto una guerra, e Berlino aveva strappato a Parigi la regione dell’Alsazia-Lorena. Lo statista transalpino intendeva ora proteggersi contro l’eventualità di altri possibili attacchi germanici: richiese, quindi, la demilitarizzazione della Renania ed il pattugliamento alleato dei territori oltre il Reno. Venne definita “zona di sicurezza territoriale”. Inoltre, la Francia impose la riduzione drastica del numero di soldati dell’esercito tedesco, in modo controllabile e, sempre come parte delle riparazioni, chiese che le venisse dato il controllo di molte fabbriche. Intenzione della Francia non era, infine, solo quella di punire lo storico ‘nemico tedesco’, ma anche di preservare il proprio impero e le colonie.

Mentre gli USA portavano avanti (almeno ufficialmente, come semplice foglia di fico, secondo altri) la politica dell’ “autodeterminazione” etnica o nazionale, Francia e Regno Unito volevano mantenere, anzi incrementare i loro imperi. Clemenceau rappresentò la popolazione francese nel suo desiderio di vendetta sulla nazione tedesca: egli voleva pure proteggere la prassi dei trattati segreti e disporre blocchi navali attorno alla Germania, così che la Francia potesse controllare le merci importate ed esportate dalla nazione sconfitta. Era il più radicale dei “tre grandi”. La Gran Bretagna giocò un ruolo più defilato, in quanto il suo territorio non era stato invaso. Tuttavia, molti soldati britannici morirono sulla linea del fronte in Francia e, quindi, la popolazione britannica chiedeva un duro castigo per la Germania. Il primo ministro Lloyd George, pur reclamando delle riparazioni severe, chiese meno dei francesi: egli era conscio che se le pretese francesi fossero state tutte accolte, la Francia sarebbe diventata estremamente potente nell’Europa Centrale ed un delicato equilibrio si sarebbe spezzato. La Gran Bretagna sempre si era opposta ad ogni tentativo di egemonizzare il continente, dai tempi di Filippo II.

Dall’altra parte, Woodrow Wilson aveva visioni differenti su come “punire” la Germania. Aveva già proposto i suoi ‘Punti’ (un monumento di falsità ed ipocrisia, visto con gli occhi del poi) prima ancora della fine della guerra, che erano assai meno duri di quanto i francesi od i britannici volessero. Poiché la popolazione americana aveva vissuto la guerra solo a partire dall’aprile 1917, egli sentiva di dover uscire dalla “confusione europea” il più in fretta possibile. Comunque, Wilson voleva istituire una politica mondiale che assicurasse che niente di simile sarebbe più accaduto. Allo scopo di mantenere la pace, venne fatto il primo tentativo di creare una Corte mondiale, la Società delle Nazioni. La teoria era che se le nazioni più deboli venivano attaccate, altre avrebbero garantito loro protezione dagli aggressori. In cima a tutto ciò, Wilson promosse, come detto, l’autodeterminazione che incoraggiava le nazionalità (o i gruppi etnici) a pensare, governare, controllare sé stessi.

Questo gran discutere di ‘autodeterminazione’ ebbe come conseguenza immediata un incremento del sentimento patriottico in molti paesi che erano o erano stati sotto il controllo dei vecchi imperi. L’autodeterminazione era di fatto, e continua ad essere pure oggi, una fonte di attrito tra differenti gruppi in tutto il mondo, nel momento in cui ognuno cerca di migliorare la propria posizione. Come si individua, con certezza, il titolare del diritto (Catalogna docet…)? L’accettazione fervorosa, da parte di molti popoli, del concetto fu l’inizio della fine degli imperi, in ogni caso, compresi quello francese e quello britannico, pochi anni o decenni più tardi. Fu anche una ricompensa per il sostegno dato alla Madrepatria. L’autodeterminazione è, certo, la ragione per cui così tante nazioni si formarono nell’Europa Orientale; Wilson non voleva contribuire ad aumentare le dimensioni del Regno Unito, Francia, Italia. Gli incrementi territoriali erano all’epoca, peraltro, sempre considerati necessari, dovuti; naturali in caso di vittoria militare.

La Germania – che aveva più o meno ingenuamente creduto nei Punti wilsoniani – fu, in ultima analisi, trattata in modo iniquo. La Francia voleva privare la Germania di grosse fette di territorio nazionale e, quindi, di popolazione. Clemenceau sempre era stato ossessionato dalla differenza di popolazione ed avrebbe desiderato ‘uccidere 20 milioni di tedeschi’! Il capo delegazione, conte von Brockdorff-Rantzau, si recò alla firma del Trattato pensando ad una pace basata sui ‘14 punti’, oltre alla richiesta dell’annessione dell’Austria alla Germania. Questa idea venne rigettata (l’ ‘autodeterminazione’ era un principio elastico e non valeva per Germania ed Austria…), procurando ulteriore risentimento in patria verso le potenze vincitrici, ed egli fu costretto a firmare il Diktat con le sue dure condizioni. Indigeste al massimo, considerando che, durante tutto il conflitto, non un metro del Reich era mai stato calpestato dal nemico. 

L’Alsazia-Lorena fu restituita alla Francia; lo Schleswig settentrionale passò alla Danimarca; gran parte della Posnania e della Prussia occidentale, e parte della Slesia, vennero trasferite alla Polonia. Il Reich rimase spezzato in due dal ‘corridoio polacco’; la città di Danzica (totalmente tedesca), con il delta della Vistola sul mar Baltico, venne resa ‘Città Libera’, sotto l’autorità della Società delle Nazioni e della Polonia. La Germania soffrì la perdita totale dell’impero coloniale; le furono poi comminate le draconiane restrizioni militari accennate: la

smilitarizzazione della Renania, il divieto di un’aviazione militare, di una flotta d’alto mare, di armi pesanti, la fine della coscrizione militare e limitazioni alle forze armate, che non dovevano superare le 100.000 unità. Riparazioni ed indennità di guerra: alla Germania fu imposto il pagamento agli Stati dell’Intesa di una indennità di guerra per una cifra fuori dalle possibilità di qualsiasi nazione. La cifra abnorme fu stabilita in ben 600.000.000 di sterline (132 miliardi di marchi oro). Ma in parte servivano per restituire i prestiti accordati dalle banche statunitensi…

Per la Germania, particolarmente pesanti sul piano morale risultarono poi gli articoli 227,

col quale il Kaiser Guglielmo II veniva messo in stato d’accusa di fronte ad un venturo Tribunale Internazionale “per offesa suprema alla morale internazionale” e l’art. 231, in cui “la Germania riconosce che lei ed i suoi alleati sono responsabili, per averli causati, di tutti i danni subiti dai Governi Alleati ed associati e dai loro cittadini a seguito della guerra, che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati”. Quest’ultima clausola (la Germania come unica responsabile del conflitto) era opinabile allora e viene ancor oggi contestata dalla gran maggioranza degli studiosi.

La Francia voleva vendetta; il Regno Unito aspirava ad una Germania ancora relativamente forte economicamente, per controbilanciare il predominio continentale della Francia; gli Stati Uniti – con una opinione pubblica imbevuta di sentimenti ed idee contraddittori, idealismo, imperialismo, massoneria illuminista, moralismo protestante, pacifismo, ebraismo e sionismo spesso liberal, socialista e filobolscevico – volevano, invece, la distruzione dei vecchi imperi autocratici; mentre l’Italia era desiderosa di poter ampliare i propri possedimenti coloniali e completare l’opera risorgimentale con l’annessione di terre già appartenenti al defunto Impero asburgico. Opportuno non dimenticare che la lobby ebraica americana nel 1914-’16 era contraria all’ingresso in guerra perché gli USA avrebbero dovuto combattere assieme alla Russia zarista, responsabile dei pogrom antiebraici. Il risultato fu un compromesso che non lasciò nessuno soddisfatto. Gli osservatori più acuti, come John Maynard Keynes, criticarono il trattato: non prevedeva alcun piano di ripresa economica, non affrontava gli spinosi e complessi tema della riconversione industrale e della manodopera femminile cessante; l’atteggiamento punitivo e le sanzioni contro la Germania avrebbero provocato conflitti ed instabilità, invece di garantire una pace duratura. Keynes espresse questa visione nel saggio The Economic Consequences of the Peace (1919).

La Commissione per le riparazioni, costituita ad hoc dopo il Trattato di Versailles, fissò non solo l’ammontare totale delle riparazioni dovute dalla Germania alle Potenze vincitrici, in particolare Francia e Belgio, ma anche modalità e scadenze dei pagamenti. Dopo un primo versamento di 1 miliardo di marchi oro, effettuato il 31 agosto 1921, la Germania comunicò nel dicembre dello stesso anno l’impossibilità a proseguire nei pagamenti. Accertata l’inadempienza, le Potenze vincitrici procedettero con l’occupazione della Ruhr nel 1923, alla quale i tedeschi risposero con varie modalità di resistenza passiva. Sorse la Società delle Nazioni, i cui lavori ebbero ufficialmente inizio il 10 gennaio 1920 a Londra (da fine 1920 a Ginevra), un’organizzazione intergovernativa con lo scopo di arbitrare i contrasti tra le nazioni prima di arrivare al conflitto armato. Il suo statuto, la Convenzione della Società delle Nazioni, occupava i primi 26 articoli del trattato di Versailles. Fu, comunque, un grande ed inutile pasticcio. Che a nulla servirà.

Gli Stati Uniti d’America, paradossalmente, non ratificarono mai il trattato. Le elezioni del 1918 videro la vittoria del Partito Repubblicano, che prese il controllo del Senato e bloccò due volte la ratifica (la seconda volta il 19 marzo 1920): alcuni erano partitari dell’isolazionismo ed avversavano la Società delle Nazioni e ulteriori coinvolgimenti, altri lamentavano l’eccessivo ammontare delle riparazioni. Come risultato, gli USA non si unirono all’organismo multilaterale e negoziarono una pace separata con la Germania: il trattato di Berlino del 1921. Che confermò il pagamento delle riparazioni ed altre disposizioni del trattato di Versailles, ma escluse esplicitamente tutti gli articoli correlati alla Società delle Nazioni.

A Wilson nel 1919 venne assegnato (naturalmente) il Premio Nobel per la Pace. Da buon sudista era razzista e fervente ammiratore del Ku Klux Klan: “The white men were roused by a mere instinct of self-preservation…until at least there had sprung into existence a great Ku Klux Klan, a veritable empire of the South, to protect the Southern country”. Concluse di lì a poco la sua Presidenza con uno dei provvedimenti più idealisti e più sciagurati che la storia ricordi, sia pur emanandola dopo aver posto un veto: “Il proibizionismo”. Cioè il periodo, fra il 1919 e il 1933, in cui negli Stati Uniti, tramite il XVIII emendamento ed il Volstead Act, venne sancito il bando sulla fabbricazione, vendita, importazione e trasporto di alcool. Il Senatore repubblicano Andrew Volstead, che promosse la legge, dichiarò all’indomani dell’entrata in vigore, in un clima di moralismo cieco ed ottuso: “I quartieri umili presto apparterranno al passato. Le prigioni ed i riformatori resteranno vuoti. Tutti gli uomini cammineranno di nuovo eretti, tutte le donne sorrideranno e tutti i bambini rideranno. Le porte dell’inferno si sono chiuse per sempre”.

Ammetterà, poi, di aver preso un enorme granchio…

La questione italiana. L’applicazione integrale del Patto di Londra avrebbe consentito all’Italia di ottenere buona parte della Dalmazia con le isole adiacenti. Roma aumentò però le richieste con la concessione della città di Fiume, a motivo della prevalenza numerica dell’etnia italiana nel capoluogo quarnerino. I contrasti con Wilson furono netti; il presidente statunitense non era disponibile ad applicare alla lettera il Patto di Londra e non accettava le richieste di Roma a spese degli slavi, perché «si spianerebbe la strada all’influenza russa ed allo sviluppo di un blocco navale dell’Europa occidentale». La Francia, inoltre, non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana poiché avrebbe consentito all’Italia di controllare i traffici del Danubio. Il risultato fu che le Potenze dell’Intesa alleate dell’Italia opposero un rifiuto e ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915.

Il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni approfondì subito il fortissimo contrasto con l’Italia, reclamando non solo i territori assegnati dal Patto all’Italia (Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia settentrionale), ma anche la Slavia veneta, appartenente all’Italia fin dal 1866. Secondo la delegazione jugoslava, tutte queste terre andavano assegnate al nuovo Regno dei Karageorgevich per motivi etnici e politici. La città di Trieste, pur riconosciuta di maggioranza italiana, doveva diventare jugoslava, secondo il principio per cui le città dovevano seguire le sorti dell’entroterra circostante, nella fattispecie a maggioranza slava. Lo stesso criterio doveva essere seguito per la città di Fiume, giacchè la popolazione italiana era considerata costituita in massima parte di slavi italianizzati.

L’irredentismo nazionalista, rafforzatosi nel corso della guerra, si spostò allora su posizioni di aperta e radicale contestazione dell’ordine costituito. Dopo l’abbandono della Conferenza da parte dei delegati italiani, ad aprile, il mito della “vittoria mutilata” e le rivendicazioni adriatiche divennero i motivi di forza del movimento che raccolse le tensioni di una fascia sociale eterogenea, prevalentemente di destra, nazionalista e fascista, della quale furono parte assai attiva gli Arditi, le truppe d’assalto della fase finale del conflitto. In molti ambienti si diffuse la convinzione, alimentata dai giornali e da parecchi intellettuali, che i seicentomila morti della guerra erano stati “traditi”, mandati inutilmente al macello, e tre anni e mezzo di sofferenze erano serviti solo a distruggere l’Impero asburgico per costruirne uno ancora più ostile ai confini d’Italia. Assieme, la percezione, acuta e dolorosa, ancorchè inconfessata, dell’errore compiuto scendendo in guerra il 24 maggio 1915.

Sonnino dichiarò: «Dopo una guerra così piena di enormi sacrifici, nella quale l’Italia ha avuto oltre 500.000 morti e 900.000 mutilati, non è concepibile dover ritornare ad una situazione peggiore di prima, perché la stessa Austria-Ungheria, per impedire l’entrata dell’Italia in guerra, ci avrebbe concesso alcune isole della costa dalmata. Voi non vorreste darci nemmeno queste. Per il popolo italiano ciò sarebbe inspiegabile» definendo, poi, le conseguenze: «Non avremo il bolscevismo russo, ma l’anarchia». Il governo italiano fu però diviso sul da farsi: Vittorio Emanuele Orlando era un sostenitore del riconoscimento delle nazionalità in opposizione alla politica, decisamente imperialistica, di Sonnino: il contrasto fra i due politici fu fatale; se Orlando, disposto a rinunciare alla Dalmazia, richiedeva l’annessione di Fiume, Sonnino non intendeva cedere sulla Dalmazia, cosicché l’Italia finì col richiedere entrambi i territori, senza ottenere nessuno dei due. Una ulteriore richiesta italiana fu quella di annettere la Somalia Francese ed il Somaliland britannico in cambio della rinuncia alla partecipazione nella ripartizione delle colonie tedesche. Bocciata. Il tentativo non ebbe seguito.

A seguito di un appello diretto di Wilson al popolo italiano, che scavalcò il governo di Roma, Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la Conferenza, il 24 aprile. Già più volte, di fronte alla insensibilità esibita dagli Alleati contro le rivendicazioni italiane, egli non aveva potuto trattenere stizza e lacrime di sdegno. Era un avvocato meridionale di torrenziale facondia, ma nel consesso meno favorevole. Al punto che il prostatico “Tigre” Clemenceau, uomo di singolare cattiveria, pronunciò ad alta voce il celebre: “Ah, si je pouvais pisser comme M. Orlando pleure!”. Sonnino lo seguì dopo un paio di giorni. In mancanza del Presidente del Consiglio italiano le trattative però continuarono lo stesso e la delegazione italiana fu obbligata al dietrofront. Orlando e Sonnino il 5 maggio 1919 annunciarono che sarebbero tornati a Parigi, e lo fecero, ma il clima ormai era ulteriormente compromesso, sia in Francia che in Italia. Il 23 giugno, proprio su di una proposta di politica estera, il governo Orlando si dimetteva; Sonnino ed altri due membri della delegazione italiana si fermarono a Parigi per firmare il Trattato di Versailles (28 giugno 1919). Il 10 settembre 1919, il nuovo Presidente del consiglio, Francesco Saverio Nitti, sottoscrisse il trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli orientali.

Due giorni dopo – il 12 settembre 1919 – una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti, guidata da Gabriele D’Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendone l’annessione all’Italia. Solo dopo la caduta del governo Nitti, per il quinto ed ultimo suo governo, Giovanni Giolitti riuscì a sbloccare la situazione. Giolitti, con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, raggiunse un accordo con gli jugoslavi: l’Italia acquisiva quasi per intero il litorale già austriaco, comprendente le città di Gorizia e Trieste col loro circondario, nonché la quasi totalità dell’Istria e le isole quarnerine di Cherso e Lussino. Della Dalmazia promessa col Patto di Londra all’Italia andarono la città di Zara, le isole di Làgosta e Cazza e l’arcipelago di Pelagosa. Il resto della regione fu assegnato al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Fiume veniva costituita in ‘Stato Libero di Fiume’, ma D’Annunzio non riconobbe validità al Trattato di Rapallo, giungendo a dichiarare una simbolica guerra all’Italia: il poeta/comandante e le formazioni volontarie vennero costretti, dopo 500 giorni, ad abbandonare la città a seguito dell’intervento del Regio Esercito, il cosiddetto ‘Natale di Sangue’, a fine dicembre del 1920. Si contarono varie vittime, fra cui ventidue legionari, diciassette soldati italiani e cinque civili.

(Cfr. M. Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2009; https://it.wikipedia.org/wiki/Conferenza_di_pace_di_Parigi_(1919); A. Scottà, La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919-1920), Roma, Rubettino, 2003; G. Salvago Raggi, Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico dell’Italia liberale, Firenze, Le Lettere, 2011; E. Goldstein, Gli accordi di pace dopo la Grande guerra, Bologna, Il Mulino, 2005; https://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Versailles; Giordano Bruno Guerri, Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Milano, Mondadori, 2019; Eric Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1780, Torino, Einaudi, 1991; https://losojosdehipatia.com.es/cultura/historia/los-origenes-del-imperialismo-norteamericano/Los orígenes del imperialismo norteamericano; M. Serra, D’Annunzio le magnifique, Paris, Grasset, 2018; http://www.valgame.eu/trincee/files/stranieri.htm).

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Gianni Marocco

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