Calcio. E’ Antonio Conte (e non l’Inter) che può far paura alla Juventus

Antonio Conte

Come annunciato da tutti i meteo calcistici: l’uragano Antonio Conte è arrivato sul campionato italiano, frapponendosi tra il potere della Juventus e l’ambizione del Napoli. Quelle che fino alla prima di campionato erano paure indotte dal passato: ora sono realtà, perché la sua Inter – ancora da registrare e con aggiunte in arrivo – è apparsa già a livello delle altre due, travolgendo il calcio del Lecce. Una squadra intensa, come intenso è il linguaggio di Conte, uno che fa i chilometri nei pressi della panchina, urla, salta, sbraita, smanaccia e scuote quelli che stanno per entrare e che alla fine della partita arriva sfinito come se avesse giocato, perché il suo calcio è questo: totale connessione tra sé e la squadra, in una congiunzione psico-energetica che porta al logorio, in alcuni casi all’autocombustione dopo un campionato (vedi Chelsea). Il fatto che abbia anche contato quanti chilometri percorre in ogni partita – dice 6-7 – serve a dare la misura dell’ossessione sulla fascia, della pressione che subiscono i suoi calciatori e gli avversari, è come avere in campo un dodicesimo uomo che sa cosa fare e pretende che venga fatto, e lo urla con una teatralità e una contagiosità che non sono ignorabili, portando la sua energia dove va il pallone, contro il Lecce forse posseduti dal suo spirito anche Ranocchia e Asamoah sono apparsi vivi e combattenti, come non si erano mai visti. Il contismo è ormai metodo che funziona – sotto e oltre le Alpi – e pare avviato a mettersi in pratica al meglio anche a Milano. Mentre la Juventus si stravolgeva e il Napoli si rinforzava, Conte con strategia militare ha passato l’estate – con il prezioso aiuto di quel Beppe Marotta avvocato del diavolo che già fu suo sodale alla Juve – a ricostruire una squadra dilaniata da liti, fazioni e schizofrenia; si è presentato con le idee chiare, la mappa del percorso da compiere e la lista degli uomini che potevano fare l’impresa, mostrando un piglio kubrickiano – un misto di dolce dittatorialità e industriosità da passato milanese pur senza nessuna appartenenza – che tanto aveva spaventato Sergio Ramos, al punto di spingerlo a mettersi di traverso nell’arrivo di Conte al Real Madrid, su spiata di Diego Costa vessato e ridotto al ritorno in patria dal contismo; piglio che si traduce nell’essere l’insopportabile sergente di “Full metal Jacket” incrociato con l’umanesimo salentino. Innesto che lo porta ad essere un po’ Gene Hackman de “Gli spietati” – scandendo tempi e azioni – e un po’ Kevin Costner de “L’uomo dei sogni” quando comincia a immaginare l’impresa, poi la differenza è che il dolore da lenire è il suo (sulla Juventus, e sul fatto che vuole rivincere la Champions come da calciatore). Con lui l’Inter-nazionale ha un blocco italiano – uno dei punti di forza alla Juve dell’ortodossia contiana  – che pare sarà rinfoltito nelle prossime mosse di mercato a cominciare da Biraghi (e ovviamente dallo straniero Alexis Sanchez), ma intanto ieri hanno giocato D’Ambrosio, Candreva – rimesso al mondo e al gol –, Sensi – che ha impressionato per gioco macinato e volontà –, Barella, Gagliardini e Politano. Quasi a dire a tutti: mai perdere il senso d’appartenenza. Il resto è Lukaku, e non è poco, perché Conte s’è messo con lui sulla bilancia, investendosi e investendolo di un peso che le braccia del belga possono sopportare, tanto che ieri dopo il gol si sono aperte tipo Cristo di Rio ad abbracciare e trascinare i compagni verso la panchina, in una specie di tutti a casa da lui, da quello che c’ha creato e che probabilmente ci porterà lontano. Lukaku è apparso subito non un pilastro d’area ma un spendattaccante, uno che si spende fuori e tra le linee, mostrando di avere il fisico e la volontà per essere il centro delle ripartenze e anche il finalizzatore d’agguato. Tanto che persino Wanda Nara dopo il terzo gol ha pensato: è finito tutto, senza nemmeno il bisogno di decifrare le parole di chiusura totale che arrivavano da Beppe Marotta in perfetta sintesi contiana: copri e riparti; il resto è strategia – perdente – e melina – inutile –, perché Conte non è Spalletti, non dedica tempo alle discussioni né a mediare, è arrivato e ha detto che un calciatore come Mauro Icardi non gli serviva, e il gioco della parte (Wanda) appartiene al passato, con Lautaro Martínez in perfetta intesa con Lukaku, Sanchez in arrivo, e Icardi riposto nel suo limbo d’inesprimibilità tra un cantiere e una promessa, una rivendicazione e una preghiera, un diniego e una lite. Ciao bello, ciao. Perduto alle aree di rigore, come pochi altri, mentre anela la Juventus e ulula la sua appartenenza. L’aggressività contiana non contempla calciatori così, sarebbero d’intralcio nella corsa su Juventus e Napoli, in un arricchimento del campionato, dopo anni di noia. Ed è innegabile che entrambe lo temano questo uragano, che torna dopo cinque anni ad allenare un club italiano, con una carriera da calciatore che è leccese-juventina, e una carriera da allenatore che è molto diversa: spesa tra piccole (Siena, Arezzo, Bari e Atalanta) e grandi (Juventus e Chelsea), con un passaggio in nazionale e una premier tra le mostrine. Conte vorrebbe essere Bearzot, è dalla sua Italia82 che ha tratto molto del carattere, gli piace il concetto di drappello chiuso e combattente che genera il meglio quando è inaspettato, traendo la forza maggiore dagli elementi minori, è questo il fuoco del contismo. Ha bisogno della trincea, se non c’è la crea, e della fedeltà assoluta, dell’ubbidienza indiscussa, per generare aggressione delle linee e degli spazi, privilegiando il lancio e il contropiede rispetto alla trama di passaggi. È un immediato, che lavora intensamente e senza tregua per arrivare a quella immediatezza che l’altra sera ha subito conquistato San Siro e gli interisti, il più bel rovesciamento di campo degli ultimi anni, una ripartenza sentimentale: l’ex giocatore della Juventus vincitrice della Champions, e l’ex allenatore che l’ha riportata alla vittoria, diventa l’uomo che più fa paura, conquistando rapidamente il cuore degli interisti, invertendo non solo le paure juventine ma anche le preferenze, in questo caso il Napoli e la sua eventuale vittoria dello scudetto – come da promessa ancelottiana – diventano condizione accettabile piuttosto dell’annichilimento costruito in casa, generato e poi espulso, che fa un giro largo e poi come gli amori di Antonello Venditti torna, ma dalla parte più avversa e a fare più male. [uscito su IL MATTINO]

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Marco Ciriello

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