Libri. “La terra di ‘dove'” di Daniele Giancane: una rilettura poetica della nostalgia

Daniele Giancane
Daniele Giancane

Sono due i protagonisti di questo poemetto di Daniele Giancane, La terra di “dove” (edizioni La matrice, pp. 55, € 8), edito da poco in occasione dei suoi 50 anni trascorsi con la poesia (il suo primo volume di versi uscì, come ci ricorda egli stesso nella nota introduttiva, nell’autunno del 1969): il comandante e la nebbia. Il comandante, diremmo di primo acchito, è lo stesso poeta che s’interroga sul futuro e cerca di comprendere quale possa essere. Ma, a ben vedere, è lo stesso lettore che viene via via coinvolto dal testo e invitato a formulare una propria ipotesi, a darci la sua visione del mondo che sarà. E la nebbia che l’avvolge non è altro che lo stesso futuro con le sue tante possibili facce. Il testo che è suddiviso in cinque scene, che ben si prestano alla recita teatrale, ci presenta cinque diverse possibili visioni del futuro prossimo venturo, nient’affatto peregrine o inverosimili, perché partono da tendenze più o meno in atto nel mondo, che ognuno di noi può riscontrare o intravedere.  La prima visione è quella di un mondo omologato, globalizzato, dove non c’è più posto per le nazioni, per i confini, per le identità, perché “la storia è una macina / che travolge ogni cosa, / che muta e manda in mille pezzi / le accumulate certezze. / Che sbriciola e nel contempo edifica, / lungo l’inesauribile / movimento del tempo.” E la nazione è diventata solo un bel sogno, di cui provare nostalgia. La seconda è quella di una terra desolata, distrutta da una catastrofe ecologica, dove i “radi sopravvissuti tornarono nelle caverne”,  a causa dell’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria “pregna di anidride carbonica / per i gas erogati senza pietà / dalle mille e mille industrie / che dovevano dare prosperità al mondo / e invece dettero morte e malattie”. Gli uomini non seppero custodire le risorse e le ricchezze della terra contro la quale condussero un’insensata guerra. La terza visione è quella che nella letteratura fantascientifica viene definita distopia, una sorta di utopia negativa, non desiderabile. La scena si muove tra 1984 di Orwell, Il mondo nuovo di Huxley e Fahrenheit 451 di Bradbury. E’ un mondo perfetto e mite, “dove umani come robot / compiono il lavoro quotidiano / e parlano tra loro  / con frasi preconfezionate”, dove la censura regna sovrana per il bene di tutti e il prezzo della felicità è la perdita della libertà. La quarta e la quinta visione sono forse meno probabili, ma non per questo puramente fantasiose. La quarta è quella di un mondo a compartimenti stagni, dove si pratica l’apartheid, dove ciascuno è chiuso territorialmente nel proprio luogo e ogni razza è separata dall’altra: “Sarà il ritorno all’inizio dei tempi / il destino del mondo?” La quinta visione è il matriarcato, dove “il presidente del mondo è una donna altera, /  una tigre bionda e inflessibile” (ahinoi, maschietti! ha le fattezze della Merkel, non di Sharon Stone!) e dove “gli uomini hanno ottenuto dopo tante battaglie e marce / e sit-in interminabili / le quote azzurre”. Le cinque visioni ci lasciano l’amaro in bocca e si chiudono con un sipario dove il poeta si rivolge direttamente al lettore “allucinato viandante del XXI secolo”, invitandolo a dire cosa lui intravede nel futuro. Il poemetto vuol essere in definitiva un invito alla riflessione, ad una maggiore consapevolezza, a coltivare la propria libertà interiore. E a non dare nulla per scontato, perché, come osserva il filosofo spagnolo Ortega y Gasset, “la vita è insieme fatalità e libertà, è essere liberi all’interno di una fatalità data”.  

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Sandro Marano

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