Medio Oriente (di G. Del Ninno). Quali interessi in campo nel conflitto Turchia-Kurdistan

Nella gran pentola a pressione del Medioriente stanno a sobbollire da decenni le radici velenose della storia, intrecciate con quelle non meno insidiose della geopolitica e dell’attualità. Con l’invasione della Siria da parte della Turchia, roventi spifferi di vapore hanno messo in allarme le cucine di tutte le cancellerie del pianeta, provocando però, almeno fino ad oggi, reazioni blande e formali (una volta di più, l’Unione Europea ha dimostrato di essere un’entità evanescente, incapace di assumere un atteggiamento deciso e soprattutto univoco).

 

Alle nostre latitudini, hanno fatto scalpore i gesti di alcuni calciatori turchi che, nei rispettivi club o nella rappresentativa nazionale, hanno manifestato la loro fedeltà alla patria e al regime di Erdogan, e queste immagini, unitamente a quelle trasmesse dalle tv di bambini curdi in fuga, hanno distolto per un po’ quell’esigua fetta di opinione pubblica che segue la politica dai mercanteggiamenti intergovernativi in sede di redazione della legge di bilancio (un zero virgola in più qua, uno in meno là, una tassa in più qua, una “rimodulata” – cioè sempre in più – là, e così via).

 

La verità è che in quel pentolone è difficile, aldilà dell’emotività scontata, orientarsi e assumere una presa di posizione lungimirante. Come accade fin dalla guerra fredda, dietro i due contendenti agiscono le due grandi potenze – USA e Russia – che continuano a combattersi per interposta nazione; ma stavolta lo scenario contiene inediti fattori di complicazione. La Turchia fa parte della NATO e dunque dovrebbe stare sotto l’ombrello americano, ma anche i Curdi, almeno fino a ieri, fino a quando i loro uomini e le loro donne hanno versato il sangue per sconfiggere lo Stato islamico, sono stati in qualche modo affiliati all’occidente laico e liberale, sia pure con l’appoggio fattivo degli uomini di Putin. L’intervento, per ora solo diplomatico, della Russia, sembra aver avuto come effetto l’affiancamento alle milizie curde dell’esercito regolare siriano del despota Assad – a proposito, ma lo dobbiamo considerare amico o nemico? – contro gli invasori turchi e gli irregolari anti-Assad. Ma gli americani soltanto ieri volevano abbattere il regime siriano, incuranti del fatto che fra i ribelli – ancora operanti al fianco dei turchi – erano attivi i miliziani dello Stato islamico… Un bel pasticcio, insomma, oltretutto sullo sfondo del secolare conflitto fra sunniti – la cui guida politica è contesa fra la Turchia e l’Arabia Saudita, con l’Egitto in seconda fila – e sciiti, sotto l’egida dell’Iran, potenza regionale spalleggiata dalla Russia putiniana. Si aggiunga che i medesimi contendenti si stanno affrontando da anni in fondo alla penisola arabica, nel disgraziato Yemen che conta i suoi morti a migliaia, senza troppo clamore dei media occidentali.

 

In un bel romanzo del 1999, “Una sfida nel Kurdistan”, Jean-Jacques Langendorf ambientava già in quelle terre – l’azione si svolge nel 1941 – una parte del “grande gioco” in atto fra le potenze dell’epoca, l’Asse e gli alleati anglo-americani; tanto per dire che la questione curda non è nata ieri.

 

E allora? Come se ne esce? Chi dobbiamo sostenere? Nella questione, vi sono alcuni punti fermi, che non è male ricordare. Quello curdo è il popolo più numeroso al quale viene negato il diritto ad avere uno Stato: non meno di 30 milioni di individui, sono sparpagliati principalmente in Turchia, Siria, Iraq, Iran; questa circostanza, sedimentata in decenni di storia, rende quanto mai difficoltosa una riunificazione sotto la medesima bandiera. Quale di questi Stati, infatti, sarebbe disposto a cedere porzioni di territorio, o anche solo a consentire la nascita di una comunque problematica entità confederale?

 

Certo, la posizione dei curdi in Iraq non è drammatica come quella dei connazionali in Turchia: grazie anche alla campagna vittoriosa contro Saddam Hussein, essi hanno occupato la zona intorno a Mosul, oltretutto ricca di petrolio, e nel quadro di una sufficiente autonomia, nessuno mortifica la loro cultura e la loro lingua (di cui è vietato l’uso, invece, in Turchia). Si aggiunga che l’aver lasciato il monopolio dell’irredentismo nei territori anatolici al PKK, formazione dichiaratamente comunista, ha fornito al regime di Erdogan un ulteriore pretesto per la sua politica di vigilanza e pressione su quella etnia.

 

Al riguardo, tuttavia, non si possono evitare talune considerazioni a proposito della NATO, alleanza difensiva euramericana, di cui è sempre più evidente il ruolo anacronistico. Quando la repubblica fondata da Ataturk era l’antemurale opposto all’impero sovietico, quell’organizzazione aveva la sua ragion d’essere; con la caduta del Muro e la mutata situazione geopolitica del pianeta, sarebbe gran tempo di rivederla, la NATO. Con l’accorpamento all’Occidente – in alcuni casi all’Unione Europea – di quasi tutti i paesi già parte integrante dell’impero sovietico, l’opzione militare appare sempre più improbabile, almeno sul “fronte” dell’est europeo. Quanto al Medio Oriente, nessuna minaccia, nessun progetto di espansione verso Ovest è mai stato formulato da nessuna di quelle potenze regionali. Di contro, minacce se non militari, quanto meno di invasione demografica, ci vengono dal continente africano, che appare schiacciato nella morsa fra organizzazioni malavitose decise a lucrare sui flussi migratori, multinazionali senza scrupoli che hanno ripreso la politica predatoria del peggior colonialismo, e le mire egemoniche della Cina.

 

Come si vede, ce n’è abbastanza per assegnare nuovi e più attuali compiti alla NATO, almeno nell’ambito della questione migratoria. Ma torniamo alla crisi turco-curda. Come se ne esce? E’ opportuno umiliare un soggetto importante come la Turchia, ad esempio con sanzioni che avrebbero ben altro effetto, su quella debole economia, rispetto a quelle decretate contro la Russia? Di pressioni militari contro il secondo più potente esercito della NATO, nemmeno a parlarne. Resta la via diplomatica, anche considerando il gran numero di eredi dell’impero ottomano che risiedono e lavorano soprattutto in Germania; ma contemperare le esigenze dei diversi contendenti, a partire dai due principali, non sarà facile. Sullo sfondo, la minaccia turca di scagliare sull’Europa la bomba umana dei tre milioni e mezzo di profughi stipati nei suoi campi di concentramento, e l’opposizione di alcuni importanti paesi dell’Unione all’ingresso nella stessa Unione della Turchia di Erdogan.

 

Certo, l’urgenza ora è quella di arrestare l’invasione, che ha già provocato troppe vittime innocenti; ma per farlo, occorre saper dosare maniere forti e lusinghe. E questo, possibilmente senza dimenticare che in quelle terre aspre sono nate l’epopea d’Europa, con l’Iliade, e le radici della nostra Roma, e laggiù greci, romani e bizantini hanno lasciato depositi di cultura che sono “nostri”, al pari delle origini del cristianesimo paolino. Il successivo passaggio ottomano non può cancellare quelle tracce, e una politica avveduta e lungimirante non può non tenerne conto.

 

 

 

 

Giuseppe Del Ninno

Giuseppe Del Ninno su Barbadillo.it

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