Libri. “Lo chiamavano Jack Pitone” di Max Gobbo: ecco Bukowski redivivo

Charles Hank Bukowski è stato, senza ombra di dubbio, uno degli scrittori statunitensi, seppur di origini tedesche, di maggior spessore della seconda metà del secolo XX. La sua penna graffiante ha trascritto, in pagine memorabili, la crisi esistenziale serpeggiante nelle società capitaliste, nel momento in cui l’intellettualmente corretto celebrava i fasti, in realtà fuochi fatui, del consumismo e dell’affermarsi, in ogni ambito della vita umana, della dismisura. Non è stato solo un letterato, ma un diagnosta ante litteram dello stato di crisi (così ben descritto da Bauman e Bordoni), del quale   siamo, ancora oggi, gli «abitatori». Il suo nome sta tornando prepotentemente d’attualità grazie all’ultima fatica scrittoria di Max Gobbo, Lo chiamavano Jack Pitone, edito di recente da Homo Scrivens (pp. 154, euro 14,00). L’autore si è, negli anni scorsi, fatto notare per alcuni testi di letteratura fantastica e per la collaborazione a diverse riviste. Crediamo che, con quest’ultimo libro, abbia messo in mostra, oltre che un’originale creatività, una non comune capacità affabulatoria. Il libro in questione è, peraltro, accompagnato da una postfazione di Roberto Alfatti Appetiti.

   Protagonista della narrazione è Harry Cinaschi, alter ego per antonomasia di Bukowski e, come quest’ultimo, scrittore maledetto, cantore dei bassifondi, frequentatore seriale di bar, bettole e, soprattutto, prostitute. Naturalmente, la storia è ambientata a Los Angeles, città-regione nella quale l’in-solitudine degli uomini si tocca con mano. Luogo in cui non si è mai realmente soli, si è sempre con qualcuno, ma senza poter comunicare realmente, in profondità: gli incontri tra gli uomini hanno tratto epidermico. I personaggi di Gobbo vivono come monadi ruotanti attorno a se stesse, pur essendo, leibnizianamente, finestre sul mondo. Cinaschi è, innanzitutto, uno scrittore in crisi. Non riesce a corrispondere alle richieste del proprio agente che vorrebbe, a breve giro, un suo nuovo romanzo: un editore di fama lo avrebbe pubblicato senza problemi. Cerca, pertanto, ispirazione nella bottiglia. Nell’incipit del libro, a causa di una sonora sbornia, inciampa e cade sul pavimento della cucina.

   Ripresosi, intravede di fronte a sé le figure di Sarah, sua compagna, e quella del dott. Fieldman, psicoanalista ebreo e vicino di casa: «che mi fissava da dietro i suoi occhialetti rotondi» (p. 9). Allo strizza cervelli, racconta un’esperienza vissuta poco prima: nella bottiglia che stava scolando aveva creduto di vedere Cristo, impassibile e indicante il cielo con l’indice della mano destra. Il commento dello psicologo è significativo: «Lei è un ateo cosciente, ma anche un credente inconscio» (p. 11). Infatti, nella società liquida, nella quale nessuno più si pone il problema della verità, né tanto meno quello dell’esistenza di Dio, il sacro non può che tornare a manifestarsi  inconsciamente. Del resto, il tema del misticismo alcoolico ha avuto un antecedente letterario di spessore. Si pensi a, La leggenda del Santo bevitore di Joseph Roth e alla mirabolanti avventure vissute dal protagonista in una Parigi onirica, intravista tra i fumi dell’alcool.

   Mirabolanti, anzi, per certi tratti, esilaranti, sono le avventure di Cinaschi. A giovani scrittori esordienti, che gli chiedono lumi sulle ragioni del successo letterario, risponde, seduto in amabile conversazione in bar di periferia frequentati da alcoolisti, finocchi (troppi) e puttane (sempre troppo poche), che un racconto, per essere accattivante, deve essere una storia di sesso. Naturalmente, la capacità di coinvolgimento del lettore è proporzionale all’esperienza che lo scrittore ha acquisito sul campo. Lasciato solo per qualche tempo da Sarah, allontanatasi per accudire la madre malata, il nostro conduce vita errabonda nella «giungla d’asfalto» nella quale vive, a contatto con gli «animali» che la popolano. E ad essi, considerati gli ultimi dalle logiche discriminatorie del produttivismo imperante, Cinaschi dà voce, convinto con il De André della memorabile, Via del Campo, che: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». Un giorno, «imbottigliato» (è proprio il caso di dirlo) in automobile nel traffico, con l’amico Bob e due gemelle procaci, Milly e Molly, viene affiancato da un camionista, che riconoscendo Cinaschi, gli chiede del protagonista di un suo racconto porno, Jack: questi aveva un «affare» talmente lungo da doverselo arrotolare attorno alla gamba. Avendo lo scrittore risposto che si trattava di un personaggio di fantasia, creato di sana pianta, il camionista chiosò: «non è vero, tu ti sei ispirato a me» (p. 49).

      L’episodio più esilarante ha, al proprio centro, la «morte» di Bill, avvenuta a casa di Bob, per i postumi di un festino a base di sesso e alcool. Cinaschi si reca, in piena notte, a casa dell’amico e, insieme a lui, per evitare problemi con la polizia, carica, con ogni precauzione, il «cadavere» in macchina per depositarlo nel suo appartamento. Lo prendono sulle spalle, entrano in silenzio nell’androne, raggiungono l’appartamento di Bill e lo infilano nel letto: mentre stavano per lasciare la stanza, un peto devastante, in termini sonori ed olfattivi, fa loro repentinamente prendere coscienza che l’uomo era vivo, ma ubriaco perso. Dello stesso tono l’incontro con Geremia, pappone e poeta, accompagnato dalla sua donna, Maria, attraente peripatetica. Cinaschi propone a Geremia di partecipare ad un reading di poesia, che si sarebbe tenuto in una lussuosa villa. L’intellettualismo d’accatto di un gruppo di poeti argentini, sostenitori della morte della poesia e esaltati dalla critica radical-chic, è messo in ridicolo dalla narrazione di Gobbo. La bara, che i poeti avevano presso di sé per celebrare degnamente la fine del poetare, si scoperchia improvvisamente, determinando lo sconcerto degli astanti, e da essa esce il redivivo, ancora una volta, Bill, ubriaco come una spugna.

   Come Bukowski, il Cinaschi di Gobbo, non può essere considerato, sic et simpliciter, un esponente della beat generation. In molte pagine del volume, il protagonista critica l’atteggiamento profetico-riformatore assunto dagli autori beat. Egli ha contezza che il progresso è un’idea costruita per ingannare le masse intorno al senso della vita. Egli è, a tutti gli effetti, un escluso, un ribelle. Cerca di salvare se stesso, creando storie atte a frenare, sia pure momentaneamente, la tendenza entropica consustanziale ad ogni esistenza. Ecco, il merito maggiore di Gobbo, va individuato nella sua capacità di riproporre sulla pagina, in modo mirabile, la prosa sincopata di Bukowski: essa è la trascrizione dell’eterna, dionisiaca, metamorfosi del mondo e degli uomini.    

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Giovanni Sessa

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