Focus. Le sardine versione disperata della sinistra populista

Sardine

L’atteggiamento ideologico che «sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi» è la definizione che il vocabolario Treccani fornisce della voce “populismo”. 

Non sorprende dunque che il manifesto radical-pesciarolo o sardino-chic diffuso via facebook veda le sardine autoproclamarsi, per l’appunto, “popolo”. E lo fanno definendosi un insieme «di persone normali, di tutte le età […] amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto». La fiera dell’ovvio, insomma, più che una «bella e festosa delega politica e di gruppo» come l’ha definita, invece, niente di meno che Giuliano Ferrara nell’endorsement apparso il 20 novembre su Il Foglio e poi più volte reiterato nei giorni seguenti.

Non sorprendono nemmeno la banalità diffusa del suddetto manifesto, la superficialità mostrata dai giovani leader nelle tempestive ospitate televisive e l’approssimazione spicciola dei contenuti che gli abili riempitori di piazze stanno veicolando. 

Ciò che colpisce e rattrista, invece, è il consueto ricorso – tipico del movimentismo di sinistra – ad una spasmodica ricerca di un nemico (ieri Berlusconi, oggi Salvini se limitiamo l’analisi alla Seconda Repubblica) e la conseguente autoproclamazione per diritto divino a rappresentare la melior pars della società civile. 

E’ questa la solita sinistra – è bene ricordare – che in tempi non sospetti ha «incorporato negli anfratti più reconditi» alcuni elementi di populismo e che quando ha parlato di «popolo» lo ha fatto nella presunzione e nella pretesa che il popolo si incarnasse in lei (Cfr. P. Tripodi, I popoli del populismo, in S. Bianchi, La sinistra populista, Roma, Castelvecchi, 1995, pp. 65-67).

Tutto ciò è una prassi ormai consolidata che si registra soprattutto nei momenti in cui la sinistra italiana, avendo compiuto consapevolmente scelte politiche impopolari che la allontanano dalla “base”, ricorre a esperimenti di partecipazione fintamente spontanea. 

Il ricorso alla Piazza, bella piazza, per dirla con Claudio Lolli, necessita – oggi come ieri – di un nemico pubblico grazie al quale attruppare i soliti noti e spacciarli per nuovi. Finora il compito era stato affidato a inguaribili livorosi più o meno conosciuti nei propri ambienti: Vittorio Agnoletto e Luca Casarini (no-global), Antonio Di Pietro (Mani Pulite), Nanni Moretti e Sergio Cofferati (girotondini), Paul Ginsborg (marcia dei professori) e la lista potrebbe allungarsi annoiando i più volenterosi lettori. Popoli prima viola e poi arancioni che l’intellighenzia di sinistra ha cavalcato in periodi, proprio come questo, di autoreferenzialità politica e istituzionale.

Lo schema è sempre lo stesso. E Marc Lazar – che già in passato aveva prestato attenzione al tema – vede tale tentazione populista espressa da «una rappresentazione idealizzata di un popolo sfruttato ma unito, laborioso e collettivamente produttivo, profondamente giusto e buono, virtuoso e invincibile», dalla percezione della società che ne è la premessa e nella designazione dei nemici che ne consegue, come un elemento ricorrente nella cultura politica della sinistra (Cfr., Populisme et communisme: le cas français, in P.A. Taguieff, Le retour du populisme. Un défi pour les démocraties européennes, Parigi, Universalis, 2004, pp. 84-87).

Una sinistra, insomma, che finisce per proporsi in schieramenti veicolati come “trasversali” ma che, in realtà, sono oltranzisti e settari, ai quali gli avversari non sembrano legittimi concorrenti nella gara democratica per il potere, ma nemici da distruggere per sempre e con qualsiasi mezzo. Da qui l’inevitabile recupero di vecchie e anacronistiche divisioni frontali o l’astrusa creazione di nuove. 

Mattia Santori, uno dei leader delle Sardine in Emilia Romagna

Non a caso, proprio nelle ultime ore, su facebook è stato veicolato l’acronimo della parola S.A.R.D.I.N.A.: Valori, Solidarietà, Accoglienza, Rispetto, Diritti, Inclusione, Non violenza, Antifascismo. Poteva mancare tale richiamo? Il rilancio, cioè, della “simpatica” usanza di etichettare come “fascista” chiunque non si schieri a sinistra per emarginarlo e aumentare l’esangue consistenza della minaccia? 

Ma non è “solo” questo il punto: le sardine si propongono in primis di arginare il populismo. Ma è proprio questo il mare in cui si agitano. Ed è un mare mosso, molto mosso perché «il populismo di sinistra, appare solo come una forma degradata dell’ideologia dei partiti di sinistra» (Cfr., I. Diamanti, M. Lazar, Popolocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2018) che incorpora unilateralmente il «concetto di “gente” e della retorica che le è legata» (Cfr., M. Tarchi, Italia populista, Bologna, Il Mulino, 2015).

E l’unica P maiuscola che le sardine stanno scrivendo è, appunto, quella del Populismo. Il loro.

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Roberto Bonuglia

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