Cultura. L’itinerario di Concetto Marchesi (tra Psi, Rsi e Pci) nel saggio di Canfora

Il sovversivo di Luciano Canfora

“Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Nikita Kruscev.”

C’è tutto di Concetto Marchesi, e anche un po’ di Luciano Canfora, nelle parole con cui il grande storico della letteratura latina, nonché deputato alla Costituente e parlamentare del Pci, commentò le rivelazioni di Kruscev all’ottavo congresso del partito comunista, strappando le ovazioni di una platea ancora legata al mito di Stalin. Radicali sino alla faziosità in politica, ma ricercatori rigorosi, capaci forse di dialogare meglio con gli antichi che con i moderni, l’ex rettore dell’università di Padova scomparso nel 1957 e il filologo dell’ateneo di Bari non potevano non incontrarsi. Era già accaduto quasi un quarto di secolo fa, quando Canfora aveva pubblicato La sentenza, il saggio dedicato all’assassinio di Giovanni Gentile di cui Marchesi è stato ritenuto il mandante morale per un articolo comparso sulla stampa clandestina comunista in cui si scagliava contro il presidente dell’Accademia d’Italia (ma il finale, che suonava come un’autentica condanna a morte per il filosofo, era stato aggiunto senza autorizzazione da Girolamo Li Causi).  Accade anche in questo autunno, con la pubblicazione di Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza), ponderoso e poderoso studio non tanto sulla vita dello studioso, di cui rende conto meglio l’ormai classico volume di Ezio Franceschini Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto, quanto sul suo rapporto con la politica.

Nelle quasi mille pagine di questo saggio l’autore ripercorre forse più con l’analitica acribia del filologo che con la potenza sintetica dello storico l’itinerario umano del “sovversivo” Marchesi, dagli articoli incendiari dell’adolescenza all’ingresso nel Psi e poi nel Partito comunista d’Italia, dal rapporto sofferto ma non privo di compromessi col fascismo al ruolo di intellettuale organico, ma non privo di margini di autonomia, nel Pci di Togliatti. Con lo stesso puntiglio con cui ha dimostrato l’inautenticità del papiro di Artemidoro, Canfora demistifica il “papiro di Togliatti” costruito dalla macchina propagandistica comunista intorno al grande storico della letteratura latina. Marchesi non proveniva da una famiglia proletaria, ma da un sia pur decaduto casato della nobiltà siciliana; sposò una ragazza di ottima famiglia, nei cui confronti tenne spesso un comportamento oggi inconcepibile (la minacciava con una pistola carica se lasciava strillare la figlia) e che sarebbe morta in manicomio. Si iscrisse nel 1895 al Psi, ma ne uscì nel 1911 con una lettera aperta al “Corriere della Sera” denunciandone l’opposizione alla guerra di Libia, in cui un ufficiale di Marina suo parente acquisito era stato ferito. Tornò alla politica attiva dopo la rivoluzione sovietica, aderendo in seguito al partito comunista, e pubblicò sotto pseudonimo articoli gonfi d’intransigenza.

Con l’avvento del regime prese una seconda laurea in giurisprudenza per dedicarsi all’avvocatura in caso di destituzione dalla cattedra e in un primo tempo evitò di farsi coinvolgere nella retorica celebrativa della romanità tipica del Ventennio. In occasione del bimillenario della nascita del poeta pubblicò su “Pegaso” un provocatorio articolo sull’“anima fenicia” di Virgilio, “poeta dei vinti”, ma nel 1931 giurò fedeltà al regime. Fu in buona compagnia: anche il futuro presidente della Repubblica Luigi Einaudi fece come lui, per tacere dei cattolici che giurarono con riserva, escamotage etico-giuridico che avrebbe fatto morire di fame molte belve nel Colosseo. Il problema semmai è un altro: Marchesi prestò giuramento dietro suggerimento del partito, obbedendo a quella strategia dell’“entrismo” teorizzata poi nel famoso (o famigerato) appello “ai fratelli in camicia nera”, o si trattò di una semplice forma di “nicodemismo”, per usare un termine caro a Delio Cantimori e al suo interprete Giovanni Miccoli? Il problema è aperto.

Senza dubbio, negli anni Trenta lo stesso partito comunista d’Italia dovette prendere atto della forza e del consenso del regime e convincersi che la migliore forma di antifascismo consistesse nell’infiltrarsi nei sindacati ufficiali, ma anche nei Guf e nelle loro riviste, come il padovano “Bo”, dove Eugenio Curiel ebbe un ruolo di spicco. Resta il fatto che, a livello di scelte individuali, è difficile cogliere il sottile crinale fra entrismo e opportunismo verificando, caso per caso, quanto la coesistenza critica col regime costituisse uno strumento di lotta clandestina o un semplice alibi. Stupisce comunque – e Canfora non manca di riconoscerlo – la partecipazione di Concetto Marchesi a un’iniziativa come la celebrazione dei “Grandi Umbri” (incluso un Tacito che in realtà non è nato a Terni), promossa dal Ministero della cultura popolare nel 1942, proprio quando il consenso al regime cominciava a incrinarsi. Col consueto rigore, Canfora smonta la vulgata secondo cui Marchesi avrebbe pronunciato un discorso celebrativo di Tacito suscettibile di un’interpretazione in chiave antifascista, facendo notare come la prolusione gli valse i calorosi complimenti di Cornelio Di Marzio, personaggio non secondario dell’organizzazione culturale di regime cui, non senza qualche prevedibile contestazione, la sua Castellafiume ha dedicato pochi anni fa una via.

La collaborazione con Biggini

Un momento cruciale, com’è noto, dell’itinerario politico di Marchesi è costituito dagli anni della Repubblica Sociale. A differenza degli altri rettori nominati dal governo Badoglio, egli rimase al suo posto anche dopo l’otto settembre. Su tale scelta influì molto la stima nutrita nei confronti di Carlo Alberto Biggini, ministro dell’Educazione Nazionale durante la Rsi e enfant prodige della cultura fascista, tanto stimato da Mussolini quanto inviso agli estremisti della Rsi, che non gli perdonavano il rifiuto di sottoporre i docenti al giuramento. Marchesi, suscitando scandalo nel Pci, in cui era rientrato dopo essere stato a lungo “in sonno”, collaborò con lui e pronunciò l’undici novembre del 1943 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, in presenza dello stesso ministro, un discorso che, facendo leva su parole d’ordine chiave della Rsi, come lavoro e socialità, fu commentato con toni entusiastici dalla stampa di Salò. È molto probabile che al ralliement fra Biggini e Canfora abbia contribuito anche l’influenza di Novello Papafava dei Carraresi, un cattolico liberale (fu presidente della Rai nei primi anni ’60), grande proprietario immobiliare, antifascista intransigente dopo una partecipazione all’impresa fiumana interrotta per dissidi con d’Annunzio. Il conte Papafava era tra l’altro “padrone di casa” di entrambi, in quanto proprietario del Bo, il palazzo dell’ateneo di Padova dove aveva sede il ministero dell’Educazione nazionale della Rsi. Come rivelò a chi scrive più di vent’anni fa il figlio Francesco, titolare di un’impresa editoriale a Firenze e consigliere provinciale eletto nelle liste del Pds come indipendente, quando Mussolini annunciò la costituzione della Rsi Papafava ebbe in famiglia parole di apprezzamento per lui, sperando che in quel modo potesse sottrarre l’Italia alla vendetta tedesca. Le speranze furono comunque di breve durata: la scia di sangue seguita all’assassinio del federale di Ferrara e alle rappresaglie fasciste avrebbero lasciato il segno. E già il 1◦ dicembre 1943 Marchesi lanciava l’appello alla lotta armata ed entrava nella clandestinità, protetto per altro dal ministro Biggini, che arrivò a fargli corrispondere fino all’ultimo lo stipendio. 

Biggini, su cui resta sempre valido il bel saggio di Luciano Garibaldi Mussolini e il professore uscito per Mursia nel 1983, era un fascista convinto, ma non un fanatico mosso dall’odio. Si era reso conto che la partita era perduta e cercava il più di alleviare inutili sofferenze, anche rischiando di persona. E fa piacere che Canfora, autore non certo sospettabile di corrività nei confronti del fascismo, ne abbia riconosciuto i meriti. Proprio le pagine su Marchesi “rettore sui generis”, centrali per importanza nell’economia generale dell’opera, confermano che la storia non è tutta in bianco e nero, ma è spesso un grande chiaroscuro.

Agli anni della clandestinità e poi dell’asilo in Svizzera seguì per Marchesi quella che l’autore chiama l’apoteosi postbellica e poi la beatificazione post-mortem, sia pure incrinata da alcune voci dissenzienti, come quella di Ludovico Geymonat, che ne ricordò i compromessi col regime suscitando lo scandalo dei “compagni”. Ma, in realtà, non solo a proposito del rapporto Kruscev, Marchesi non rinunciò mai alla propria autonomia di pensiero: basti pensare alla difesa dell’insegnamento delle lingue classiche, contro l’antilatinismo di esponenti di spicco della sinistra, e al rifiuto di inscrivere nella Carta costituzionale i patti lateranensi, dettato, osserva l’autore, da lealtà massonica. In realtà, dalle intemperanze giovanili alla militanza comunista alle prese di posizione degli ultimi anni, Canfora, pur non sottacendo le opacità del suo rapporto col regime, riconosce a Marchesi un’intima coerenza: la coerenza di un aristocratico del pensiero che spera nel riscatto degli schiavi, ma è consapevole che i servi possono essere liberati solo se guidati da chi servo non è, e insegna loro a contarsi. Per questo,  parafrasando quanto il grande latinista dichiarò durante l’ottavo congresso del Pci, è difficile non pensare che, se Stalin ebbe la disgrazia di avere come accusatore Kruscev, a Marchesi è toccata la fortuna di avere per giudice un Luciano Canfora. Tutto sommato, non gli è andata male.

*Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano diLuciano Canfora (Laterza)

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Enrico Nistri

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