Cultura (di P. Isotta). Con Elio Boncompagni la musica perde uno degli ultimi grandi direttori

 Ancora negli ultimi giorni di settembre festeggiavamo sul mio terrazzo il grande successo che aveva riscosso a Sofia il 20. Aveva diretto il Boris Godunov di Musorgskij in forma di concerto in memoria di Nicolai Ghiaurov; e l’avevano invitato a tornare per dirigere un’Opera. Lui pensava al Don Carlos di Verdi nell’edizione autentica in cinque atti e in francese. Sull’aereo (i soliti filtri sporchi dell’aria condizionata) aveva contratto una fatale polmonite. Ha resistito a lungo, troppo. Ma l’8 novembre non ce l’ha fatta. Era, e per me è, Elio Boncompagni, uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi. A maggio aveva compiuto 86 anni. Domenica farà un mese che non c’è più. Forte com’era, di corpo e di testa, era pieno di progetti e in perfetta attività. Nella primavera del 2021 avrebbe dovuto dirigere a Liegi, al Théâtre Royal de Wallonie, una delle cose alle quali teneva di più. L’edizione definitiva in italiano di quello che Donizetti considerava il suo capolavoro, il Don Sebastiano. Il Maestro l’aveva composto in francese con Balletti, ma non ne era soddisfatto; lo riscrisse su testo dell’esule mazziniano Giovanni Ruffini, ma riuscì a dirigerlo una volta sola a Vienna ritradotto in tedesco (!). Boncompagni aveva ricostruito l’edizione italiana. In Italia nessuno se n’era fottuto. Bisognava si trovasse un gran signore colto come il soprintendente di Liegi, Stefano Mazzonis, per mettere in cartellone una novità così ardita. E se dico novità non scherzo. Ora mi domando se, nei Campi Elisî, quale dei due stia consolando l’altro, Elio o Gaetano. Per fortuna li raggiunge Rossini dicendo loro: vanitas vanitatum, et omnia vanitas!

Boncompagni non era uno di quelli “della vecchia scuola” che tante volte giustamente rimpiangiamo, pur essendo stato assistente di Tullio Serafin, uno dei caposaldi di tale tendenza. Negli ultimi anni della di lei vita ne aveva mantenuto la vecchia figlia in miseria.  Da lui e da altri (Santini, de Fabritiis, Votto,  Gardelli), aveva appreso le astuzie e le “tradizioni” (quelle da rispettare e quelle da respingere) di tale “vecchia scuola”. Ma era un direttore modernissimo. Per la concezione rigorosa del rispetto del testo e per un’idea dei rapporti di tempo: specie nel repertorio sinfonico, tra le varie parti di un movimento di una Sinfonia e tra tutti i movimenti fra di loro. Anche in questo mi ha insegnato moltissimo, come mi ha aiutato fondamentalmente a capire il processo compositivo di Verdi.

Nel ricordarlo parto proprio dal Don Carlos, una delle sue bandiere. L’ultima volta l’ha diretto a Zagabria due anni fa.  È di certo l’Opera più complessa di Verdi, forse il suo capolavoro: quella che gli ha causato più fatica e più disperazione. Il sommo compositore non è mai riuscito in vita ad ascoltarla intera. Oggi ce ne sono quattro versioni. Fino al 1974 se ne conoscevano due: una in quattro atti e una in cinque. Ambedue in italiano: l’autentica è in francese. Quella in quattro atti proviene dalla, ripeto, disperazione del Maestro, il quale, vedendo l’Opera continuamente amputata, decise di tagliarsela da sé, ed eliminò l’intero primo atto. È la versione corrente, e i direttori d’orchestra che l’adottano dovrebbero vergognarsene. Poi, a quasi vent’anni dalla prima esecuzione (1867), l’Autore ripristinò parzialmente il primo atto. Solo nel 1973 il musicologo americano Andrew Porter trovò nelle cantine dell’Opéra le parti mancanti del primo atto, tagliate alla “prima” perché l’ultimo omnibus partiva a mezzanotte e gli abbonati dovevano ritirarsi. Questa versione, oggi pubblicata da Ursula Günther, venne diretta per la prima volta da Boncompagni nel 1974 al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, del quale era direttore artistico. Lo è stato anche al San Carlo di Napoli, a Stoccolma, a Vienna (Volksoper e poi Staatsoper), e ad Acquisgrana, dove fondò l’orchestra sinfonica. Da lì tornò alla natia Firenze, per assistere la mamma quasi centenaria, una maestra elementare asciutta e lucida, di poche parole, che ricordo con commozione.

I veri grandi direttori, quasi sempre italiani, da Martucci a Toscanini a Marinuzzi, dirigono con la stessa penetrazione la musica italiana, quella tedesca, quella francese, quella russa, quella boema: il repertorio sinfonico e quello lirico. Solo chi intende Verdi riesce a intendere Wagner; non sempre è vero l’inverso. Karajan è stata una delle eccezioni.

E qui mi pongo un interrogativo, e lo pongo alla recentissima Grande Ufficiale rag. Rosanna Purchia, soprintendente del teatro San Carlo di Napoli. Boncompagni venne spedito al San Carlo dal Ministero negli anni del terremoto, e riuscì a salvare il teatro. Fece cose memorabili: La Nona Sinfonia di Beethoven, la Tetralogia di Wagner, l’Aida, la Tosca (parce sepulto!) il Trovatore con tournée in Germania: persino l’Operetta, come solo i grandi sanno fare, Orfeo all’Inferno di Offenbach. L’orchestra, i macchinisti, i tecnici luci, lo adoravano. Rag. Purchia, Lei ha respinto il Don Sebastiano che Boncompagni desiderava moltissimo dirigere al San Carlo, del quale Donizetti era stato direttore artistico prima di trasferirsi a Parigi. Abitava in via Nardones, a pochi passi dal Teatro. Gliel’ha mai detto qualcuno? In dieci anni ha invitato il direttore una volta, per un concerto sinfonico. Poi l’ha trattato come un postulante. Grande Uff. Purchia, Lei non scrive un comunicato di ricordo e cordoglio? Lei non dedica a Boncompagni una recita in memoriam?  Sarebbe così cortese da rispondermi in via ufficiale, su queste pagine?

Ripeto, sul podio pareva un ragazzo: per la sobrietà efficace del gesto, l’instancabilità, la sconfinata conoscenza del repertorio lirico e sinfonico. Ma nel nostro paese, rientrato da Acquisgrana, trovò una specie di muro. Pur avendo diretto esecuzioni memorabili, a Firenze, tredici anni fa (La leggenda di Santa Elisabetta di Liszt: dove trova un altro Maestro che la mette in piedi?), a  Milano, a Catania, a Cagliari, a Napoli, a Bucarest, i soprintendenti lo vedevano per lo più come un nemico. Alcuni consideravano una missione affidatagli da Dio stroncare la carriera di “quel vecchio rimbambito”, come mi disse, e come disse a un mio conoscente, un grande regista (ne farò il nome se del caso), uno di loro, l’ex soprintendente del Maggio Musicale Fiorentino Cristiano Chiarot. Non si è mai capito perché. Sono convinto che se non è arrivato alla data del Don Sebastiano sia anche per il crepacuore causatogli dall’odio in patria, che l’angosciava, che egli non riusciva a comprendere e che l’ha fiaccato. Ragazzini che dirigono a orecchio invece di un Maestro?  La vita è questa. Ricordiamolo nelle meravigliose esecuzioni, nella simpatia, nella bontà, persino nell’ingenua fiducia verso la vita che, nonostante tutto, non aveva perduta.

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*Da Libero Quotidiano del 8.12.2019

Paolo Isotta*

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