Libri. “Storia e tradizione degli europei” di Venner: poeti e guerrieri a difesa dell’identità

Dominique Venner

Un nuovo volume essenziale per la conoscenza del pensiero politico e culturale del pensatore francese, icona degli identitari. Curato e tradotto per la prima volta in italiano grazie all’infaticabile opera divulgativa di Gaetano Marabello, Storia e tradizione degli europei con sottotitolo 30.000 anni d’identità  di Dominique Venner (volume con copertina disegnata dall’artista Carlo Fusca) è un testo prezioso per più d’una ragione. Innanzitutto, per lo stile superbo dove la chiarezza espositiva si sposa alla profondità e alla piacevolezza della lettura. C’è poi da considerare la genesi e l’intento dell’opera: come dichiara lo stesso autore, quest’opera nasce «da una sofferenza superata, da un’antichissima meditazione e da una volontà.»  Qual è la sofferenza cui allude lo storico francese? È presto detto: è quella generata dal vivere in un mondo dominato dal caos e dal nichilismo, da uno “sconvolgimento spirituale” che è figlio dell’oblio della nostra tradizione e della nostra storia e del fatto che gli Europei non solo non “comandano” più a casa loro, ma «sono vittime della spirale incontrollabile della dominazione tecnica e della logica puramente economica che hanno generato.» Sennonché questa sofferenza può essere superata grazie ad una meditazione, filosofica e storica insieme, sulla storia europea e sulla risposta che si dà a queste domande: che cosa ne è stato della nostra tradizione? È possibile restare se stessi a dispetto della confusione circostante? È possibile una rinascita dell’Europa?  Il testo si snoda, dunque, lungo il mobile crinale che separa la storia e la filosofia, dove si incontrano e si confondono due esigenze, o per dirla col filosofo spagnolo Ortega y Gasset, due curiosità: «la curiosità per l’eterno e l’immutabile che è la filosofia e la curiosità per il variabile e il contingente che è la storia» (Che cos’è la filosofia?). Il filo che tiene insieme le storie e le tradizioni diverse che compongono la millenaria cultura europea e che dà, per così dire, un’anima all’Europa, una fisionomia inconfondibile con altre culture e civiltà è, secondo lo storico francese, la Tradizione europea. E qui giova subito richiamare la definizione che egli fin dall’inizio della sua opera dà, con grande precisione e con una lieve nota lirica, della tradizione: «Ogni popolo è portatore d’una tradizione, d’un regno interiore, d’un mormorio dei tempi antichi e del futuro. La tradizione è ciò che persevera e attraversa il tempo, ciò che resta d’immutabile e che sempre può rinascere a dispetto dei contorni mobili, dei segni di riflusso e di declino. Risposta naturale al nichilismo, la tradizione non postula il ritorno ad un passato morto (…) È quel che dà un significato alla vita, e l’orienta. Porta in sé la coscienza del superiore e dell’inferiore, dello spirituale e del materiale (…) All’opposto del materialismo, la tradizione non spiega il superiore dall’inferiore, l’etica dall’eredità, la politica dall’interesse, l’amore dalla sessualità. Eppure l’eredità ha la sua parte nell’etica o nella cultura, l’interesse nella politica e la sessualità nell’amore. Solamente, la tradizione gerarchizza.» 

Storia e tradizione degli europei di Dominique Venner

 

 

Vanno sottolineati in questa nozione di tradizione due punti: primo, il contrario della tradizione non è tanto la “modernità” quanto il nichilismo; secondo, l’amore per la propria tradizione fonda il rispetto delle tradizioni altrui, nessuna è superiore o inferiore ad un’altra, ed anzi tutte le tradizioni sono accomunate dal rigetto della credenza illusoria nel Progresso: «se i Sioux o i Cheyenne di un tempo non avevano inventato la ferrovia, possedevano per contro una saggezza che comandava loro di non saccheggiare la natura e di non massacrare i bisonti.» L’essenza del nichilismo è da vedersi in quell’inversione dei valori che già aveva intuito Nietzsche con la sua formula “Dio è morto”, nella scomparsa del sacro nella natura e nella vita quotidiana, nella sparizione «del significato che gerarchizza i valori della vita, mettendo quel che è superiore al di sopra di quello che è inferiore.» E qui va richiamato il complessivo giudizio di Venner sul Cristianesimo: «Concentrando tutto il sacro in un solo Dio esteriore alla creazione, perseguitando gli antichi culti reputati idolatri, il Cristianesimo fece dell’antica Europa una tabula rasa (…) Preparata dalla desacralizzazione cristiana della natura, veniva aperta la strada alla ragione calcolatrice, alla volontà di potenza delle scienze e della tecnica, alla religione del Progresso, sostituto profano della Provvidenza.» Ciò nonostante, lo stesso Venner riconosce nel Cristianesimo «una parte molto reale della tradizione europea, sapendo che essa non ne è la fonte», dal momento che «non si può ignorare che la Chiesa si fece erede della tradizione romana fin nella sua lingua – il latino – e nelle sue istituzioni (…) Per un sorprendente paradosso, dopo essere stato il nemico dichiarato dell’Impero romano sino alla fine del IV secolo, il Cristianesimo giunse a sposarlo e a impregnarsi del suo ordo aeternum da quando Costantino e i suoi eredi ne ebbero fatto la religione di Stato.» Notiamo, en passant, che la nozione di tradizione proposta da Venner è rigorosamente storica e dinamica e si discosta da quella  “astorica” ed ermetica di Guenon ed Evola (al quale ultimo però riconosce la straordinaria coerenza tra pensiero ed azione), secondo cui sarebbe esistita un’unica tradizione comune a tutti i popoli e a tutti i tempi: «agli occhi di questi ultimi, il mondo della storia, dopo tre o quattromila anni, non sarebbe che una regressione, un’involuzione fatale, negatrice del mondo che essi chiamano “la Tradizione”, quello di un’età dell’oro ispirato alla cosmologia vedica e da quella di Esiodo. Bisogna riconoscere che l’antimaterialismo di questa scuola è stimolante. In compenso il sincretismo è equivoco, al punto d’aver condotto alcuni suoi adepti, e non dei minori, a convertirsi all’islam. Peraltro, la sua critica della modernità  non è sfociata che in una constatazione d’impotenza.» Al contrario, non si può storicamente che partire dalla pluralità dei popoli e delle culture: «L’esperienza concludente del nichilismo insegna a contrario che essere uomo è essere di qualche parte, appartenere a un lignaggio, a una tradizione, parlare e pensare in una lingua anteriore a ogni memoria, che si riceve a propria insaputa e che forma la percezione in modo definitivo. (…) Per ogni uomo non snaturato, il centro del mondo è il suo paese, ovverosia un territorio, un popolo, una storia, una cultura e rappresentazioni a nessun’altra comparabili o riducibili.» D’accordo con Ortega y Gasset che criticava «le facili utopie di umanità e di astratti legami fra i popoli» (Una interpretazione della storia universale), contro l’utopismo, proprio della cultura progressista e di “sinistra”, e contro l’umanitarismo, che è l’altra faccia del nichilismo, quella bonaria e ingannevole, Venner osserva che «quelli che parlano dell’uomo come se non esistesse che un  solo tipo, identico in tutte le razze e in tutti i popoli, confondono le funzioni naturali comuni a tutti gli uomini – nutrirsi, riprodursi – e le creazioni particolari dello spirito o della sensibilità le quali non appartengono che a un popolo, a una tradizione, a una cultura. Se la sessualità bruta o il sapere libresco sono universali, il mondo del  senso – l’amore, l’arte, la spiritualità – è locale.» 

L’identità europea lo storico francese la rintraccia nel comune ceppo linguistico e in quell’organizzazione sociale di tipo feudale, «fondamento di libertà che hanno sempre opposto le città europee ai dispotismi orientali», di «quei popoli fratelli [che] si sono mantenuti sul posto per millenni, riproducendo la medesima cultura artistica, riflesso a sua volta di una certa anima collettiva, di un’identica visione del mondo, di uno stesso rapporto con la natura, di una medesima coscienza religiosa.» Venner dedica pagine appassionate e suggestive ai poemi fondativi dell’identità europea, l’Iliade e l’Odissea, al senso tragico del destino degli eroi omerici, che si ritroverà similmente nelle saghe nordiche e nelle leggende dei cavalieri del ciclo arturiano, alla Teogonia di Esiodo, alla storia di Roma e dell’impero carolingio, al senso della misura e dell’armonia che fu della filosofia di Eraclito, di Platone, di Epitteto, alla straordinaria fioritura artistica e sociale dell’XI secolo della nostra era, al mito del Graal. 

Al modo di considerare la donna nella tradizione europea è poi dedicato un lungo e intrigante capitolo. Qualche pagina prima lo storico francese aveva scritto: «L’amore e i sogni delle fanciulle non ci allontanano dalla storia e dalla sua interpretazione. Niente è rivelatore della natura di un popolo più del suo modo di concepire l’amore. Se la funzione puramente fisica della sessualità non conosce frontiera, l’amore, invece, è inseparabile dalla cultura e quindi dall’anima dei popoli. L’immagine della donna in terra islamica o cinese non è quella che svelano la leggenda della bella Elena, quella d’Andromaca e di Penelope, quella di Brunilde e di Ginevra». Dopo aver sostenuto che l’essenza della femminilità non può ridursi a una rivendicazione egalitaria riguardo agli uomini e dopo aver, tra l’altro, tratteggiato il delicato ritratto di due donne del XVII secolo francese, Caterina de La Guette e la marchesa de La Fayette, Venner traccia una sorta di metafisica del sesso, rivendicando la polarità fondamentale del maschile e del femminile, la loro essenziale complementarità e differenza. Se la maschilità si esprime nell’azione e nel combattimento, la femminilità di contro si rivela soprattutto nell’intimità dei rapporti personali e nell’amore. Ma «donde giungono il mistero e la potente fascinazione dell’eros? Donde giunge la vibrazione che porta un uomo e una donna verso l’altra fino all’estasi?» si chiede lo storico francese. Non c’è altra via che nell’essere pienamente donna o pienamente uomo. E conclude: «l’armonia tra un uomo e una donna, lo stato di fusione a cui essi giungono, passano attraverso la scoperta preliminare di un’intima complicità spirituale senza la quale la voluttà si spegne inesorabilmente. E ciò non venne mai espresso in Occidente con saggezza e forza maggiori che nell’immaginario cortese del XII secolo, nato dall’amore e dalla spada, dal meraviglioso celtico e da un certo qual misticismo cristiano che correggeva il paganesimo dei sensi e delle mentalità.»

Di grande rilievo sono infine le riflessioni che Venner dedica al nichilismo e al saccheggio della natura nel X capitolo. Incurante delle catastrofi e della distruzione della natura selvatica, che l’arroganza della tecnica e l’economia di mercato propiziano, l’europeo d’oggi è «l’uomo del nichilismo, vuoto di contenuto, posseduto dallo spirito del mercato e dell’Umanità universale», incapace di padroneggiare la complessità del vivente, vittima d’un’immigrazione massiccia e d’un sentimento di colpevolezza nonché della propria inclinazione compassionevole, che l’umanitarismo alimenta accortamente. L’umanitarismo, ovvero la “religione dell’Umanità”, «ha i suoi dogmi e il suo braccio secolare, l’esercito americano, i suoi ausiliari europei e i tribunali internazionali o nazionali.» E «nulla sembra possa limitare la spirale folle del nichilismo applicato alla tecnica», nemmeno le catastrofi e gli avvertimenti dei saggi. Con fine ironia Venner chiosa che per questo «si può far affidamento sul Dottor Faust.» A tal proposito Venner richiama il mito di Artemide e di Atteone. Quest’ultimo andando a caccia scoprì Artemide nuda presso una fonte. La dea per punirlo lo trasformò in cervo e i suoi cani, non riconoscendolo, si avventarono su di lui e lo divorarono. «Il pudore e la verginità di Artemide sono un’allegoria dei divieti che proteggono la natura. La vendetta della dea silvarum è quella dell’ordine del mondo messo in pericolo da una pulsione eccessiva, l’hybris, la dismisura (…) La sorte di Atteone rammenta opportunamente che l’uomo non è il padrone della terra.» 

Come scrive Manlio Triggiani nella postfazione, «Venner ripropone un’Europa tradizionale… Richiama più una visione del mondo che le idee politiche. Per lo storico francese al centro dell’identità da recuperare e della visione del mondo da riaffermare c’è il “sentire europeo” da risvegliare.» E questo sentire trova conforto e fondamento in una visione della storia che respinge il determinismo sia quello del materialismo storico di Marx sia quello dei cicli storici immaginati da Spengler. Accettando la lezione di Machiavelli e di Pareto, e in parte di Vico, lo storico francese dà il giusto rilievo al fattore volontà, alla libertà dell’uomo di decidere del proprio destino. L’avvenire è il dominio dell’imprevisto. Per dirla con Bergson e con Ortega y Gasset la vita, che è storia, ossia inquietudine e cambiamento, è una “fatalità modificabile”. «Il nostro mondo – conclude Venner – non sarà salvato da ciechi sapientoni o da disincantati eruditi. Sarà salvato da poeti e combattenti, (…) dai guardiani posti alle frontiere del regno e del tempo.» Ed allora, «come nel racconto della bella addormentata nel bosco, la memoria assopita si risveglierà. Si risveglierà sotto l’ardore del nostro amore.».

*Storia e tradizione degli europei con sottotitolo 30.000 anni d’identità di Dominique Venner (L’arco e la corte, pp. 335, € 18)

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Sandro Marano

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