Cultura (di P. Isotta). I viaggi di Wolfgang Amadeus Mozart in Italia

Mozart

Pochi artisti hanno avuto un’infanzia infelice quanto Mozart. Molti l’hanno avuta triste: Bach, con un fratello tiranno e forse invidioso, Beethoven, con un padre alcoolizzato. Ma basta contemplare il folle giro di viaggi ai quali il bambino venne sottoposto per tutt’Europa per rendersene conto. Già dalla stanchezza fisica, che avrebbe ucciso un elefante e che minò sin da allora la sua salute. Leopold, il padre, si atteggiava a educatore severo e probo, a buon cattolico. Forse non aveva capito che quel bambino era uno dei più grandi genî della musica mai vissuti. Glielo dovette spiegare, molti anni dopo, Haydn, dalla sua altezza. Per Leopold il figlio era un fenomeno dotato di qualità istintive quali nessuno aveva; la composizione, e ancor più l’improvvisazione, vi rientravano. Esibire il fenomeno, farne oggetto di meraviglia e forse di divertimento, cavarne denaro e regali: quelle tabacchiere, magari riempite di talleri, con le quali i regnanti o i nobili sovente compensavano gli artisti.

Ma non era stato ancora in Italia fino ai quattordici anni. Di veri genî della musica aveva conosciuto solo a Londra Johann Christian Bach e il napoletano Jommelli, di stanza a Stoccarda, che l’ammirò moltissimo. Mozart era di carattere piuttosto maligno e invidioso, e quando a Napoli ascoltò uno degli ultimi capolavori del Maestro di Aversa, l’Armida, ebbe subito a commentare che si trattava di vecchiume. Jommelli appartiene alla seconda generazione dei fondatori dello Stile Classico, quella che lo rinsalda e stabilisce per sempre: la prima pure parte da Napoli, con Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti, Pergolesi e Leo. Il viaggio in Italia era nel Settecento e ancora nell’Ottocento il culmine del Grand Tour europeo quasi obbligatorio per il gentiluomo che volesse essere un uomo colto.  Per Mozart i tre viaggi, che idealmente, superando come un arco gl’intervalli, sono uno, sono altra cosa. Interiormente, sono un ritorno alla fonte di quello stile del quale egli è uno dei sommi esponenti: e ancora non lo sapeva. Dall’esterno, un’occasione di perfezionamento e insieme di riconoscimenti in quella che, nonostante tutto, veniva considerata la patria e la fonte della musica.

Il primo ingresso nella penisola fu idilliaco. L’approdo fu a Rovereto, nel dicembre del 1769. A Mantova la famiglia potette contemplare, appena compiuta, un’opera di un genio pari a quello di Wolfgang (o Theophilus, come amava farsi chiamare): il Teatro Scientifico di Antonio Galli Bibiena, deciso rinnovamento rispetto a quel modello barocco tanto imitato dagli architetti italiani o italianizzanti al servizio dei piccoli regnanti tedeschi. Era stato appena inaugurato, e Theophilus vi si esibì il 16 gennaio. Discesa verso Roma e, come ho detto, approdo a Napoli; a Roma ascoltò la musica sacra tardo-barocca che si eseguiva nelle basiliche, quella sì un vecchiume (trascrisse a memoria il Miserere di Gregorio Allegri), e il Pontefice lo decorò cavaliere dello Speron d’Oro: onde talvolta lo vediamo firmarsi con un von prima del cognome.

La famiglia risale presso il Nord. In una villa presso Bologna, della famiglia Pallavicini, viene concepito il primo prodigio compositivo di Mozart quale autore drammatico: il Mitridate Rè di Ponto, su testo di Parini, che trionfò subito dopo a Milano. Non so se il padre, se egli stesso, si rendessero conto del livello del capolavoro. Mozart pare lasciarsi alle spalle tutto quel che si era prodotto: nel 1770 Paisiello doveva dare ancora il meglio, Gluck era nel pieno dell’attività. Dei Recitativi d’una potenza drammatica inaudita, con aderenza alla parola poetica italiana, delle Arie ove l’espressione del pathos giunge ai confini. Si può riascoltare quanto si vuole (purché non eseguito dagli insulsi “barocchisti”), e la forza drammatica è sempre la stessa. Paisiello l’avrebbe conosciuto a Torino e rivisto a Vienna, diventandone amico: ecco un altro dei genî capace di influenzarlo.

La stazione bolognese è significativa sotto un altro profilo. Pur non avendo l’età, Wolfgang venne candidato a membro dell’Accademia Filarmonica dopo aver preso lezioni dal più grande contrappuntista vivente, il francescano Giovan Battista Martini. La prova d’esame consisteva nello scrivere un’Antifona su di una melodia liturgica, Quaerite primum regnum Dei. Il santo sacerdote prese di soppiatto il compito del ragazzo prima di esibirlo alla commissione e corresse di suo pugno alcuni errori di contrappunto.

L’anno successivo, dall’agosto al dicembre, il secondo viaggio.  In ottobre si eseguì a Milano la “Serenata” Ascanio in Alba, sempre su versi di Giuseppe Parini. La “Serenata”, o “Festa teatrale”, è una composizione semidrammatica, che poteva essere eseguita in forma di concerto o semiscenica: per occasioni solenni come questa, le nozze dell’arciduca Ferdinando. In questa il pathos si alterna a una delicatezza lirica rara.

Subito dopo il ritorno, le cose incominciarono a peggiorare. Salisburgo era un piccolo principato retto da un arcivescovo. Morto il tollerante Sigismund von Schrattenbach, gli subentra Hyeronimus von Colloredo. Questi volle riportare il giovane Maestro allo stato e ai doveri di salariato; inoltre non lo poteva soffrire. Così il terzo viaggio fu anche l’ultimo: ma produsse a Milano il Lucio Silla, rappresentato il 26 dicembre. Questo è il capolavoro d’un musicista maturo, che si apre con un tombeau ispirato a quello dell’Orfeo e Euridice di Gluck e persino superiore. A brani di straordinaria forza drammatica se ne alternano altri con Arie lunghissime ove il virtuosismo vocale è inserito nella forma di Sonata. Siamo in pieno Stile Classico.

Il Lucio Silla è anteriore di nove anni all’Idomeneo, uno dei capolavori del teatro musicale di tutti i tempi (Monaco, 1781); ma già ne pone le premesse. Sebbene la completa formazione di Mozart si terminasse con il soggiorno viennese, l’arco in tre campate dei viaggi in Italia è l’espansione d’una personalità che da alcuni tratti ancor adolescenziali passa alla maturità di artista sommo. Tutto questo a Salisburgo non avrebbe potuto nemmeno concepirlo. Si comprende come non potesse restare un salariato. Resistette a Salisburgo altri cinque anni; poi, pur cercando un posto alla Corte di Vienna, che non ottenne mai, tra un viaggio e l’altro incominciò un’esistenza da libero professionista, tra le prime del mondo classico-romantico.  Quando quella morte inscritta nel suo patrimonio genetico lo raggiunse a trentacinque anni la sua fama diventava universale: era chiamato L’Orfeo tedesco.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 11.1.2020

Paolo Isotta*

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