L’intervista. Prati, direttore Certosa di Pavia: “Arte e immagine tra mito e manipolazione”

La primavera di Botticelli

È in uscita il lavoro di Giacomo Maria Prati, già funzionario amministrativo del Ministero dei Beni culturali e Direttore amministrativo della Pinacoteca di Brera, attualmente Direttore del Museo della Certosa di Pavia. Un’opera divisa in due tomi, intitolata “Mitogonìa – Epos e Icona”, appena pubblicata da Aga Editrice. Ne consigliamo la lettura perché è molto interessante e ricca di spunti. Partiamo col dire che  “Mitogonìa” è stata scritta per contribuire a far crescere la capacità interpretativa in chi ama l’arte, l’immagine e gli immaginari, i miti, la cultura e la narrazione in genere. Questo per dare un aiuto ad analizzare il pensiero e i più livelli di significato che sono quasi sempre presenti nelle narrazioni politiche e sociali e nelle opere estetiche più importanti. Possiamo definirlo un nuovo e antico modo di interpretare. Possiamo azzardare le definizioni di “iconologia attiva”, anagogia isomorfica, “lettura immersiva”. Che sia Leonardo o le Sirene o Sandokan o Star Wars poco importa: importa se impari a capire “stando dentro l’opera”, cogliendone le essenze che vi sono, volute o inconsapevoli che siano. Sentiamo cosa ha da dirci uno dei massimi esperti del panorama artistico lombardo e italiano. Buona lettura! 

A quest’ultimo lavoro hai dato un titolo impegnativo: “Mitogonia. Epos e Icona”. Dunque, l’intendere l’arte come un qualcosa che non sia solo esteriore e attuale ma, qualcosa che comprende la mito-poësis, la sublimazione poetica del mito nell’arte, i simboli e anche i simulacri del mondo artistico moderno?

“Certo. L’arte è un processo performativo non riducibile alla razionalità e al contesto storico-culturale. E’ un opera sempre di linguaggio, di trasfigurazione, di riformulazione continua di dinamiche archetipiche e di codici ancestrali. Anzi più la tecnologia rende tutto iper-artificiale più i processi mitopoietici diventano intensi e importanti. L’anima non può fare a meno del rito e della visione. Mai. Tanto più quanto non la trova nel sociale e nel vissuto religioso e nel modello dominante di cultura di massa”.

In uno stralcio del saggio hai scritto: «l’arte è arte se si rivela capace di racconto, di fabula e la fabula è per sua natura cosmofanica, ordinatrice e rivelatrice di un’idea di mondo». Spiegaci un po’ quello che vuoi intendere. Perché, qui ci addentriamo nei meandri “dell’istante”, precisamente nella sua funzione teo-cosmo-fanica che nulla ha a che vedere con una frazione temporale. Tra l’altro, erroneamente, ritenuta essere misurabile: l’arte ha solo un prezzo ma non più un valore.

“La dissoluzione analitica dell’arte inizia con la rivoluzione industriale che spazza via le antiche aristocrazie religiose e di sangue e al loro posto distrugge l’idea di una committenza organica e omogenea per lasciare spazio ad un nuovo tiranno anonimo: il Mercato, con le sue mode e le sue effimere passioni. Allora nasce la figura ambigua del “critico”, che deve spiegare l’arte a chi non sa più proporre una visione del mondo, mediando fra artisti e mercanti. La differenza tra mito e mercato la si vede bene nella differenza fra l’Impressionismo a Parigi, che genera una nuova mitologia esistenziale e l’Impressionismo a Londra che è di alta e simile qualità ma non produce alcuna atmosfera o ambiente umano e spirituale, riducendosi a un fatto effimero e puramente mercantile e funzionale ai gusti dei salotti privati borghesi. Identico oggi il codice convenzionale: è spacciata per arte a livello di massa quello che le elites mercantili programmano come arte mentre la vera arte che unisce tecnica a spirito resiste ma in ambiti di nicchia, in enclavi colte sempre più rade. Per sapere raccontare ci vuole tempo, educazione, sensibilità, esercizio. Se si impoverisce la nostra capacità ermeneutica si impoverisce anche il nostro gusto. Se non si vive una visione del mondo non la si può rappresentare. Fra la vera arte e la massa c’è oggi il terzo incomodo dei padroni del medium comunicativo, che rigettano ogni proiezione di profondità e reale compartecipazione”.

Guido Maria Prati

Il modo in cui osservi l’arte si avvicina allo sguardo velato, dando la precedenza ad un metodo semiotico e cercando di ricostruire il senso di ciò che è l’arte?

“Il mio approccio cerca una ricostruzione ermeneutica fondata su pochi principi base: l’importanza della struttura, del corpo (un’opera di poesia o letteratura, come un quadro sono corpi, corpi narrativi) delle dinamiche archetipiche, dei linguaggi, specie quelli simbolici, delle visioni spirituali e ideali. Che sia Leonardo o Sandokan, Star Wars o un film d’autore non conta. Pur nella perdita di un linguaggio e di una koinè comune certi principi e certe forme profonde sono rimaste vive e operanti. A noi coglierle, captarle ed evidenziarle in modo da condividerle. Altrimenti è come navigare in un mare senza luce e senza timone”.

Prendendo in prestito un altro stralcio: «Mitogonia indica ricostruzione di un tessuto connettivo, rigenerazione di una “mitologia del futuro e dal futuro” al contrario l’Astratto post-moderno, culto del disincarnato e dell’effimero, divinizza non l’Epos ma il frammento, l’evasione, l’intrattenimento dell’attimo atomizzato». Se ti dico che trovo alquanto pericolosa questa “mitologia del futuro e dal futuro” che nulla c’entra con la mitogonia, in questo caso le radici del mito nell’arte?

“Tutto è arte e tutto è racconto se c’è profondità di vita e profondità spirituale. La “mia” via di penetrazione conoscitiva possiamo sintetizzarla in molti modi, anche neologistici: lettura immersiva, ritorno dell’anagogìa, iconologia attiva, importanza dei tempi narrativi, adesione isomorfica. In parole più semplici: leggere il presente come antico e l’antico come presente e restare “dentro l’opera”, dentro il “corpo narrativo” finchè non esauriamo le sue possibilità semantiche e di lettura. Solo dopo “uscire” per illustrare nessi, relazioni, confronti. Oggi si fugge subito nel confronto superficiale, perdendo le unicità dei fatti che osserviamo. Ma è il fatto stesso, il racconto e l’opera stessa che ci danno i modi per spiegarla, che ci iniziano alla loro comprensione. La conoscenza è amplesso, non stupro. Ogni corpo ha più livelli di lettura. Molteplici ma non infiniti. Come insegna Aristotele non esistono corpi infiniti”.

Nietzsche in un ritratto con mattoncini Lego

D’altronde, non si tratta di ri-progettare la condizione umana che dà vita all’arte, pensando a degli uomini e ad un’arte aumentata, in un futuro che ricorda solo una lettura abbastanza superficiale del celebre “Così parlò Zarathustra” di Nietzsche. Insomma, in questo lavoro dici altro. Parli anche del mito ideologico tramite la manipolazione artificiale dell’emersione spontanea e vitale del moderno dell’arte in provetta, no?

“Certo. L’arte e l’immagine sono sia vie e mitologie sperimentali-esistenziali che, oggi, strumenti di condizionamento e manipolazione di massa. Studiare i sotto-traccia degli immaginari e dei linguaggi visivi serve anche a non subire passivamente i mondi rappresentativi in cui si muoviamo ma reagire attivamente ad essi. Come diceva Carmelo Bene occorre essere sia creativi che critici. Un critico non creativo è sterile come pure un creativo che non sia critico. Lo Zarathustra resta oggi un esempio molto significativo di desiderio di una nuova mitologia, di una proiezione di senso che riprenda l’epos, l’ascesi, che assuma il conflitto”.

Carmelo Bene

Hai una idea molto precisa sulla nascita dell’arte «quale rito comunitario tanto eidetico quando grammaticale». Quali sono secondo te le valenze ontologiche ed ermeneutiche dell’arte oggi che vanno al di là delle tendenze artistiche e delle abitudini di consumo del post-moderno?

Quello che ho cercato di sintetizzare con il mio neologismo “mitogonìa”, cioè una nuova sintesi di desiderio di racconto alto, profondo, solenne, neosacrale, con il senso dell’impegno, della scelta, del sacrificio, della lotta, della sfida. L’”agonìa” indica in greco non un morire lento e sofferente ma al contrario del senso comune in italiano veicola il senso del combattimento, della psicomachìa, dell’intensità assunta dall’attimo decisivo (kairòs) in una durata non programmabile (aiòn). La simultaneità dei tempi, la verticalità contestuale dei livelli, il riavvicinarsi di fisico e spirituale, una nuova proiezione integrale verso un futuro di cui il presente sia già gravido. Non è il tempo oggi degli “integrati” ma degli “apocalittici”. A cosa o con cosa oggi si può essere integrati? 

Non posso non chiederti dell’annosa questione del Post-Tempo. Spiega al lettore cosa intendi e quali sono secondo il tuo punto di vista, la sua capacità di raccontare, di de-lirare, di intrattenere fino alla morte». 

L’arte di massa migliore oggi, penso a Francesco Vezzoli ad esempio, resta su logori moduli pop e industriali in cui i processi profondi vengono giocati e manipolati negli stretti limiti del frammento, dell’iconismo fine a se stesso, della parodia futile, del gioco insensato. Questo “giocare” appare ora al suo epilogo, avendo quasi del tutto esaurito ogni capacità proiettiva e attrattiva. E’ come un’ironia che non trova più i suoi presupposti di logos, per cui non fa più ridere né riesce più ad alludere ad alcunchè. Una schiuma che si avvolge su se stessa ora produce tedio, noia, nausea. Siamo vicinissimi ad un punto di saturazione, esistenziale e linguistico prima ancora che estetico ed artistico. Il de-lirare non ha più esso stesso senso se il solco di origine non viene più ricordato. Non c’è più follia se non c’è più norma. Né è riconoscibile un a-peiron se non si rintraccia più alcun “peiron”, cioè alcuna delimitazione. Questo grave rischio lo avevano denunciato già i Situazionisti: vivere dentro “rappresentazioni di rappresentazioni” uccide la vita. 

Uno dei problemi maggiore è la destrutturazione anche nell’arte, dei tre tempi storici, passato, presente e futuro, idealizzandoli a piacimento e senza più saperne riconoscere le specifiche distintive?

Oggi il sistema comunicativo mercantilistico di massa ci costringe in un “non tempo” di indefinito intrattenimento che toglie vigore e senso ad ogni forma di arte. In primo luogo perché non esiste più una “forma” ma solo un medium tecnico di condivisione. 

In ultimo, quale sarà l’argomento del tuo prossimo lavoro? Hai scandagliato l’arte in lungo e in largo. Ritieni che ci sia ancora molto da dire e su cosa in particolare?

Siamo agli inizi. L’umanità è ancora giovane. Se la scienza ancora non conosce molte cose sul comportamento dell’acqua, la sostanza chimica più semplice al mondo, pensa quando poco è stato realmente studiato delle opere umane. Se studi solo la tecnica e lo stile nei suoi confronti è come se pretendessi di conoscere un corpo accarezzandone solo la pelle.

*“Mitogonìa – Epos e Icona”, di Giacomo Maria Prati (Aga Editrice, 01/01/2020. Ppgg.672, euro 50,00)

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Francesco Marotta

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