L’Altra Storia. Corsi e ricorsi del “disavanzo di bilancio”: il deficit italiano nel 1866

Inizia con questo articolo la collaborazione con Barbadillo lo storico Gaetano Maranello, traduttore in italiano delle opere di Dominique Venner

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Non avendo oggi gran voglia di lavorare, mi limiterò a proporre di seguito un brano – peraltro illuminante anche per il disgraziato presente – circa la situazione italiana ad appena tre anni dalla fatidica proclamazione del 17 marzo 1861. L’ho tratto da un testo che, se mai ebbe fama, è ormai del tutto negletto. Esso s’intitolava “Della presente mediocrità politica” e venne pubblicato nel 1866 a Firenze coi tipi di M. Cellini. Ne era autore un tal Fabio Uccelli, liberale toscano. Il che può sembrar strano, perché il titolo del volume fa pensare più ad ultra dei transitati regimi preunitari che ad un aderente alla fazione che aveva trionfato. In verità, egli lo scrisse a caldo, dopo esser stato “trombato” per due volte alle elezioni politiche e una volta a quelle comunali di Firenze. Comunque, vista la fonte non sospettabile di nostalgismo, c’è da meravigliarsi non poco di certe sue riflessioni critiche, che ci portano a comprendere (forse) il motivo dei ripetuti smacchi elettorali riportati dal Nostro. Al testo, semplificato nei termini divenuti desueti, sarà soltanto aggiunto in corsivo e tra parentesi qualche utile chiarimento minimo. (Gaetano Marabello)

“Dopo tre anni di questa baldoria, gli ospiti del palazzo Carignano (sede del Parlamento a Torino), che avevano preso alla lettera il vecchio proverbio chi più spende meno spende, si crederono obbligati a far qualche modificazione nel loro disegno finanziario e a domandare alla pubblica prosperità, tanto decantata, un lieve tributo per sopperire ad un microscopico disavanzo di 300 milioni, che si ripresentava ogni anno con una sfacciataggine e con una caparbietà da fare onore a qualsivoglia ostinata mogliera di Piccardia (regione della Francia settentrionale) (le donne di quella provincia hanno fama di esser più che altrove tenaci nei loro propositi). Non starò a ripetere come venisse accolta la maligna insinuazione: il paese, che si reputava ricco, si disse abbindolato e i legislatori vennero ipso facto accusati di furto e di concussione. Trovato insufficiente il primo tributo si passò ad un secondo, da un secondo a un terzo, da un terzo ad un quarto e via discorrendo (pare la cura Monti!), sempre con le stesse escandescenze da parte dei ricconi tassati e sempre con le stesse accuse di truffa e di peculato avventate (lanciate) contro gl’investigatori di questi impolitici balzelli. Sono già tre anni che si disse chiusa l’era degl’imprestiti (prestiti), e intanto ve n’è uno ancora in sottoscrizione. Ogni quindici mesi noi battiamo regolarmente alla porta del barone James Rotschild (è il banchiere francese J. Mayer Rothschild, nominato barone dall’imperatore austriaco Francesco I), via Lafitte n° 17, primo piano (si tratta del Castello Lafite Rothschild), e siamo accolti con la cordiale diffidenza di colui che vuole legittimare un aumento di sconto di commissione, tanto il debitore gli sembra male in gambe ed estenuato. Se ripetiamo ancora una volta la stessa visita, la portinaia ci dirà che il barone non è in casa, che sta cacciando con quattro o cinque imperatori (all’epoca, tra i più noti, c’erano ancora in sella gli Asburgo e i Romanov, a parte Napoleone III e la regina Vittoria) nel magnifico parco di Ferrières (una proprietà del barone, a 35 km. da Parigi) e che non si sa quando possa tornare.

 Più di due miliardi d’imprestiti (quelli che, dopo l’unificazione, confluiranno nel Gran Libro del debito pubblico) sono stati divorati dal ’59 in poi. Con la ragione degl’interessi che raddoppiano e triplicano il bilancio ordinario e con le maggiori difficoltà che dovranno necessariamente incontrarsi ad ogni nuova emissione di cartelle, fra quindici anni il nostro debito sarà vistoso quanto l’inglese e, fra venticinque, 2000 milioni basteranno appena a soddisfare le cedole semestrali. Il tempo non é tanto lontano che molti di noi non possano veder effettuata una così gigantesca e rovinosa profezia. 

Lo stratagemma degl’imprestiti può riuscire proficuo, anzi necessario sui primi tempi, ma il persistere in questo sistema diventa alla fine un’insensatezza che non ha nome. Gl’imprestiti sono un’operazione bancaria, che si risolve da ultimo in un’imposta, la quale presto o tardi deve esser pagata, giacché gl’interessi pattuiti figurano sul bilancio ordinario in modo inesorabile e costante. Quando poi le condizioni dello Stato siano, come le nostre, meschine e scadenti, allora l’imposta si aggrava di quel tanto che rappresenta il minor prezzo, a cui fu fatta l’emissione per trovare compratori. Il consolidato, vale a dire la cessione di una certa quantità di rendita perpetua per un capitale che decresce sempre più in ragione di altre richieste fatte in precedenza, finirà coll’assorbire ogni provento dell’erario. Ma, siccome questo non è possibile, per logica necessità bisognerà ricorrere alla ricerca di nuove tasse, quando le vecchie siano insufficienti o non ancora abbastanza produttive. Non vi sono altri modi per colmare i disavanzi. Chi ne ha di migliori li suggerisca e poi si esaminerà se l’onorevole proponente si meriti una doccia fredda per sorpresa (all’improvviso) (modo efficacissimo tenuto nei più reputati manicomi) (però, tale da procurare di sicuro un colpo apoplettico a Basaglia!) ovvero il brevetto di ciarlatano per l’esercizio libero di questa ampollosa professione.

Gli espedienti finanziari dell’Italia sono stati finora da figlio di famiglia che crede sul serio ad una ricca successione. La maggior parte delle spese si sono stimate immensamente produttive, le economie impossibili, le tasse inapplicabili. Se invece di seguire questa falsa credenza si fosse invertito fino dal principio l’intero raziocinio, ci saremmo trovati in breve davanti uno stato di cose formulato in questo modo: tutte le tasse in via d’esercizio, le economie ridotte ai minimi termini ed ogni spesa, che non fosse dichiarata d’urgenza o di provata utilità, respinta senza riguardo. Il pareggio non avrebbe tardato a verificarsi e il nostro cinque per cento non si vergognerebbe di vedersi ora dileggiato dalla rendita differita di Spagna, dalle metalliche (rendite) viennesi e, che è più strano, dal consolidato romano che vive da più d’un lustro di elemosine e di pubblica commiserazione (carità).

E’ infatti una vergogna senza pari che una nazione di 22 milioni di abitanti, la quale dicesi civile e intelligente, vive nella pace da tanto tempo, paga i suoi impiegati come altrove non si pagano neppure i manuali e i palafrenieri (manovali e cocchieri) e che non conosce altro lusso che quello di un paio di gambe (che alluda alle donnine allegre di cabaret?) o di qualche gola salariata grandemente (foraggiata profumatamente) per gorgheggiare e per filar le note (sono gli scrittori prezzolati), si governi in materia economica con tanta leggerezza e con tanta irriflessione!

L’Austria, la Francia, la Spagna, l’America hanno dovuto ricorrere alla carta monetata, agli assegnati (titoli del tempo della Rivoluzione francese) ed anche alla bancarotta, perché o avevano guerreggiato per anni ed anni o perché avevano dovuto sostenere in casa lotte partigiane e micidiali, ma l’Italia non ha scusa che possa legittimare tanto strazio di finanze ,tale eccidio d’ogni legge di previdenza e di politica circospezione.. Non ci facciamo illusione: un altro ricorso al credito non assesta nulla, ma è l’agonia che si prolunga per qualche settimana in più e non altro. Inoltre i capitalisti stranieri conoscono troppo bene di che cosa si tratta e non largheggeranno con un popolo che fa medicare fuori di casa le sue piaghe e le sue magagne, come pure è troppo tempo che i valori italiani passeggiano in su ed in giù nelle borse di Parigi, di Londra e di Francoforte”. 

 Vale a dire, nulla di nuovo sotto il sole!

@barbadilloit

Gaetano Marabello

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