Storia. Arriva il Bicentenario della nascita di Re Vittorio Emanuele II

La tomba di Vittorio Emanuele II al Pantheon

Quando ero un bambinetto, a metà degli anni ’50, mio nonno mi portava spesso a fare passeggiate sui viali d’ippocastani e platani, oltre la stazione di Porta Nuova. Viali ancora non invasi da auto parcheggiate, né da escrementi canini, dove camminare era un vero piacere. E dai tetti sporgeva quell’uomo di bronzo, con enormi baffi e sciabola, che pure lui sembrava passeggiare, su di essi, data l’altezza dal suolo. Era il gran monumento a Vittorio Emanuele II di Savoia, primo Re d’Italia, che sembrava proteggerci (o controllarci) dalla sua immobilità serafica, sacrale. All’incrocio tra corso Vittorio Emanuele II, ovviamente, e corso Galileo Ferraris. La monarchia non c’era più, spazzata via dalla guerra perduta, ma Torino pullulava di monumenti, corsi, piazze, gallerie, ponti dedicati al ‘Padre della Patria’, ai suoi familiari e discendenti. Presto mi resi conto, viaggiando con i miei genitori – preoccupati di farmi conoscere precocemente ‘la nostra Italia’- che così era praticamente in tutte le città. Che in Roma un’enorme torta bianca di marmi e bronzi, ‘Il Vittoriano’, ne tramandava, più di ogni altro monumento, la memoria (mirando a quella ‘costruzione della tradizione’ ovunque attiva tra 8 e ’900). 

Vittorio Emanuele II di Savoia, Re d’Italia, 1861-1878

Più tardi appresi, altresì, che quel ‘Padre della Patria’ aveva avuto un’origine un po’ maliziosa, di cortigiani pettegoli, ed alludeva, più che ad eroiche gesta sul campo dell’onore, al suo irrefrenabile desiderio erotico, pare essendo egli virilmente “superdotato”, al gran numero di figli illegittimi avuti, realtà che peraltro il sovrano non si preoccupava affatto di celare… 

Non aveva neppure una Corte classica, preferendo dai 35 anni – rimasto vedovo della affettuosa, pia e sottomessa consorte Maria Adelaide d’Asburgo, sua cugina, che gli aveva dato in 13 anni di matrimonio ben otto pargoli, dei quali 5 sopravvissuti – vivere come un borghese con la maîtresse-en-titre, Rosa Vercellana, la Bela Rosin, poi sua moglie morganatica (1869), che secondo quanto scrisse a Londra il Ministro Residente di Gran Bretagna, James Hudson, era “figlia di un ufficiale di bassa estrazione, un donnone grande e grosso che parla in dialetto piemontese, che è il più orribile gergo che esista nella cristianità ed anche al di fuori di essa!” Ed il diplomatico inglese non era maldisposto. Anzi, esagerando un po’, nel febbraio 1853, ragguagliava il conte di Clarendon, capo del Foreign Office che 

 ‘Il benessere del popolo piemontese è un fatto notevole. Un sovrano senza guardia salvo quella offerta dalla lealtà del suo popolo; un popolo con appena una polizia preventiva; industrie ovunque; sicurezza di vita e di proprietà; le entrare dello Stato in aumento; un governo a larga maggioranza parlamentare; pieno impiego dei lavoratori ed alte paghe; sintomi di prosperità, di soddisfazione, di progresso nazionale; la legge rispettata e le prigioni vuote’.

La mia scuola elementare, la Rayneri di Corso Marconi, in San Salvario, ovviamente pubblica, non poteva essere più deamicisiana, e non solo perchè costruita negli anni del libro Cuore (1889), per i consunti banchi di legno, per il bidello in uniforme che veniva quotidianamente con un bottiglione a riempire i calamai d’inchiostro, ma per l’atmosfera di rigorosa disciplina ed ordine, per lo spirito patriottico che maestre e maestri trasmettevano, nonostante tutto quel che era successo poco prima della nostra nascita, per l’interclassismo degli alunni. Un anno, forse in Terza, il maestro, sempre con le mezzemaniche a protezione della giacca, mi chiamò e mi concesse l’onore di leggere ai compagni, al lato della cattedra, un pagina proprio di Cuore, ‘I Funerali di Vittorio Emanuele’, ambientata nel 1882:

‘Quattro anni sono, in questo giorno, a quest’ora, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, morto dopo ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in sette Stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato solo, indipendente e libero; dopo un regno di ventinove anni, ch’egli aveva fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei pericoli, con la saggezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni parte d’Italia, preceduto da una legione di generali e da una folla di ministri e di prìncipi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d’un popolo, giungeva dinanzi al tempio augusto dove l’aspettava la tomba. In questo momento dodici corazzieri levavano il feretro dal carro. In questo momento l’Italia dava l’ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu un momento grande e solenne. Lo sguardo, l’anima di tutti trepidava tra il feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell’esercito d’Italia, portate da ottanta uffiziali, schierati sul suo passaggio; poiché l’Italia era là, in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifizi, i nostri più tremendi dolori. Il feretro, portato dai corazzieri, passò, e allora si chinarono tutte insieme, in atto di saluto, le bandiere dei nuovi reggimenti, le vecchie bandiere lacere di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Novara, di Crimea, di Palestro, di San Martino, di Castelfidardo, ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa, e quello strepito sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme: – Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l’Italia. – Dopo di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e re Vittorio entrò nella gloria immortale della tomba’. (https://it.wikisource.org/wiki/Cuore_(1889).

Probabilmente, verso la fine, la voce mi si spezzò per l’emozione, il viso rosso, la commozione suscitata da quel torrente di retorica che contagiava i compagni… 

Lo stemma reale sabaudo

Re Vittorio amava la caccia, il biliardo e la buona tavola più che non la guerra. Dove la popolana alta, formosa, con i capelli scuri e lo sguardo intenso non aveva rivali.  Ancora oggi son conosciuti a Torino gli agnolotti, i tajarin e la bagna cauda alla Bela Rosin; che gli rimarrà accanto fino alla morte, nel ripudio della detestata, anche dal re, aristocrazia. Nel 1878 le venne vietato dai ministri di assistere all’agonia del cinquantasettenne sovrano e poi non potè partecipare ai suoi funerali. Quando morì, nel 1885, le venne altresì negato il diritto di riposare accanto al marito, non essendo mai stata regina. In aperta sfida al Governo ed alla Corte, i due loro figli, Vittoria ed Emanuele Guerrieri, conti di Mirafiori e Fontanafredda, fecero costruire a Torino una copia in scala ridotta del Pantheon, poi soprannominata il “Mausoleo della Bela Rosin” nel cimitero di Mirafiori, tuttora esistente.

Poco colto, di gusti plebei, la figura tozza, priva di fascino, Vittorio Emanuele scriveva male in italiano e poco meglio in francese, ma non era affatto uno sciocco, uno sprovveduto, un monarca che si facesse manipolare. Capiva i mutamenti socio-culturali, coglieva ‘l’intelligenza dei tempi’, era dotato di fine olfatto. Politicamente, anzi, egli era abilissimo, anteponendo sempre gli interessi dello Stato alle sue simpatie personali. Tra gli altri detestava particolarmente, ricambiato, il suo Capo di Governo, Camillo di Cavour! Cresciuto nell’assolutismo, Vittorio Emanuele non poteva simpatizzare con quanto limitava l’autorità sovrana. Egli avversava i democratici rivoluzionari e repubblicani, naturalmente, ma nel suo approccio pragmatico alla politica, appoggiò il liberalismo moderato di Cavour e d’Azeglio, non solo conservando lo Statuto nel 1849, dopo Novara e l’abdicazione del padre Carlo Alberto (l’“Italo Amleto” di Carducci), ma anzi permettendo che la “Monarchia Costituzionale” diventasse, da quasi subito, una “Monarchia Parlamentare”. 

Nel Discorso da Ancona dell’8 ottobre 1860, “Ai Popoli dell’Italia Meridionale”, alla vigilia di Teano, Vittorio Emanuele espliciterà e riassumerà il senso della sua politica e della sua azione, certo condizionata dal pensiero massonico dominante, ma con una dose di robusto realismo, poi troppo spesso assente nelle successive pagine della nostra tormentata storia:

‘Nella attuale condizione di cose non sarebbe moderazione, non sarebbe senno, ma fiacchezza ed imprudenza il non assumere con mano ferma la direzione del moto nazionale, del quale sono responsabile dinanzi all’Europa. Ho fatto entrare i miei soldati nelle Marche e nell’Umbria disperdendo quella accozzaglia di gente di ogni paese e di ogni lingua, che qui si era raccolta, nuova e strana forma di intervento straniero, e la peggiore di tutte. Io ho proclamato l’Italia degli Italiani, e non permetterò mai che l’Italia diventi il nido di sette cosmopolite che vi si raccolgono a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale. In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle Monarchie. In Italia so che io chiudo l’era delle rivoluzioni!’

Sul “Re Galantuomo”, le sue scelte militari e di politica estera, sulla laicità e senso dello Stato, sulle umane debolezze, ma sul suo ruolo fondamentale quale artefice dell’Unità Nazionale, checchè se ne pensi ora di essa, esiste una vasta bibliografia. Si consulti, per cominciare:  it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Emanuele_II_di_Savoia. Seguono alcuni cenni, impressionistici. 

Torino, Monumento a Vittorio Emanuele II, Pietro Costa, 1899

Vittorio Emanuele era il primogenito di Carlo Alberto, appartenente al ramo cadetto dei Savoia-Carignano, e di Maria Teresa di Asburgo-Toscana. Ramo iniziato con Tommaso Francesco di Savoia, figlio quintogenito di Carlo Emanuele I di Savoia, che nel 1620 gli conferì il titolo di “principe di Carignano”. Molto sangue tedesco, abbastanza francese, scarso l’italiano. Nacque il 14 marzo 1820 a Torino nel Palazzo dei Principi di Carignano, eretto nel ’600 dal Guarini, e trascorse i primi anni di vita a Firenze. Carlo Alberto, di simpatie liberali, fu coinvolto nei moti del 1821, che portarono all’abdicazione di Vittorio Emanuele I. Il nuovo re Carlo Felice, che non amava Carlo Alberto – che tuttavia era l’unico erede, rimasto senza maschi il ramo promogenito – gli ordinò di trasferirsi in Toscana, Granducato retto dal nonno materno di Vittorio, Ferdinando III. Fisicamente ben diverso dal padre, assai alto, si diffuse precocemente la “leggenda” della sua origine popolana: la sostituzione del vero primogenito, che sarebbe morto, ancora in fasce, in un incendio a causa del quale morì la nutrice, con un bimbo il cui padre si diceva fosse un macellaio, Tanaca, che aveva denunciato in quegli stessi giorni la scomparsa di un figlio e che, in seguito, sarebbe divenuto improvvisamente ricco. Leggenda alla quale gli storici seri non prestarono mai fede.

Dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di re Carlo Alberto, maturò l’immagine del giovane re Vittorio Emanuele II animato da sentimenti patriottici e per la difesa delle libertà costituzionali, che si era opposto, nel colloquio di Vignale (24.3.1849), con fermezza, alle richieste del vecchio Maresciallo Radetzky di abolire lo Statuto Albertino. Il 29 marzo 1849 il nuovo Re si presentò davanti al Parlamento per pronunciare il giuramento di fedeltà ed il giorno successivo lo sciolse, indicendo nuove elezioni. I 30.000 elettori che si recarono alle urne il 15 luglio espressero un parlamento che si rifiutò di approvare la pace che il Re aveva già firmato con l’Austria. Vittorio Emanuele, dopo aver promulgato il Proclama di Moncalieri, con cui si invitava il popolo a scegliere rappresentanti consci della tragica ora dello Stato, sciolse nuovamente il Parlamento. Il nuovo Parlamento risultò così composto per due terzi da moderati favorevoli al governo di Massimo d’Azeglio. Il 9 gennaio 1850 il trattato di pace con l’Austria venne, infine, ratificato.

Secondo Denis Mack Smith, Radetzky a Vignale non tentò affatto di costringere i piemontesi a rinunciare allo statuto. Se questi ottennero condizioni di pace abbastanza buone, ciò fu dovuto soprattutto alla necessità per gli austriaci di essere generosi per non gettare Vittorio Emanuele tra le braccia della Francia o dei rivoluzionari. Gli austriaci volevano un Piemonte amico per ottenere una pace durevole nella penisola italiana e farsene un alleato contro la Francia. Essi avevano soprattutto bisogno di appoggiare il re contro i radicali nel Parlamento di Torino. 

‘Senza la fiducia del nuovo re e la tutela della sua dignità nessuna situazione nel Piemonte può offrirci una garanzia qualsiasi di tranquillità del Paese per il prossimo avvenire’ scrisse il vecchio Maresciallo a Vienna. La nuova regina di Sardegna era figlia dell’arciduca Ranieri d’Asburgo, Vicerè del Lombardo-Veneto per molti anni, e per molti anni Radetsky era vissuto con lui nell’amata Milano. La moglie dell’arciduca Ranieri era sorella di Carlo Alberto e zia, quindi, di Vittorio Emanuele II… C’era allora tra sovrani, quasi tutti parenti tra di loro, una indulgenza naturale. Che verrà meno più tardi, per maggior sciagura e dolore dei popoli.

Per Charles De Butenval, Ministro di Francia a Torino, Vittorio Emanuele era un reazionario che si serviva dello Statuto per mantenere come sostenitori e alleati di sé e della sua dinastia gli inquieti emigrati italiani ed i liberali rifugiatisi a Torino dopo i fatti del 1848-49, dei quali egli si atteggiava a protettore per giustificare una futura guerra regia di conquista  (dispaccio del 16  ottobre 1852. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Emanuele_II_di_Savoia).

Torino, Palazzo Carignano

Una spiegazione del comportamento del re nell’armistizio di Vignale è attribuita a Massimo d’Azeglio, il quale avrebbe giudicato un ‘liberalismo malcerto’ quello del sovrano, che avrebbe affermato: ‘Meglio essere re in casa propria, sia pure con le limitazioni costituzionali che essere un protetto di Vienna’.  Una branca importante della storiografia afferma che Vittorio Emanuele, pur allora di sentimenti assolutisti, abbia mantenuto le istituzioni liberali per lungimiranza politica, capendone la grande importanza nell’amministrazione dello Stato. La riprova di ciò sta anche nella lunga collaborazione fra il Re ed il Presidente del Consiglio, Camillo Benso conte di Cavour, divisi fortemente su vari punti. Da tale ‘lungimiranza politica’ sarebbe derivato il termine “Re Galantuomo”. Cavour divenne, il 4 novembre 1852, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna. Malgrado l’indiscusso connubio politico, fra i due mai corse molta simpatia, anzi ci furono aspri confronti e Vittorio Emanuele a volte ne limitò le azioni. Si ricordava, forse, di quando un ancor giovane Cavour era stato segnalato come infido e capace di tradire, a seguito delle sue esternazioni repubblicane e rivoluzionarie durante il servizio militare.

Poi vennero le “Leggi Siccardi”, l’abolizione del Foro Ecclesiastico e l’inizio del duro conflitto con la Chiesa Romana, la Guerra di Crimea, il Congresso di Parigi del 1855, gli Accordi verbali segreti, stipulati fra l’imperatore Napoleone III ed il Cavour nella cittadina termale di Plombières, il 21 luglio 1858. Napoleone concedeva la creazione di un Regno dell’Alta Italia, mentre voleva sotto la sua influenza l’Italia centrale e meridionale, la cessione di Nizza e Savoia. Quindi, l’alleanza sardo-francese, il “Grido di dolore”, la II Guerra d’Indipendenza del 1859, le battaglie di Solferino e San Martino; i moti insurrezionali che scoppiarono un po’ ovunque in Italia, la fuga dei rispettivi sovrani; l’armistizio di Napoleone III con l’Austria, che Vittorio Emanuele II dovette sottoscrivere, mentre i plebisciti in Emilia, Romagna e Toscana confermavano l’annessione al Piemonte: il 1º ottobre papa Pio IX ruppe i rapporti diplomatici con Vittorio Emanuele II. La pace di Zurigo, firmata dal Regno di Sardegna l’11 novembre 1859, prevedeva il ritorno dei sovrani spodestati e la costruzione di una federazione, con a capo il Papa, che avrebbe compreso anche il Veneto austriaco. Tuttavia, di lì a pochi mesi si venivano a creare le condizioni per l’unificazione della Penisola. Altri plebisciti, la pattuita perdita dolorosa di Nizza e della Savoia, una città italiana e la regione culla della dinastia.

 Il Re Vittorio e Cavour inscenarono un teatrino per convincere le cancellerie europee della loro totale estraneità alla successiva “Spedizione dei Mille”, guidata da Garibaldi. Dura fu la protesta diplomatica, ma sappiamo come andarono le cose: l’incontro con Garibaldi a Teano il 26 ottobre 1860, soprattutto, dove veniva riconosciuta la sovranità di Vittorio Emanuele II su tutti i territori dell’ex Regno delle Due Sicilie; ed il conflitto con l’Europa ancorata al “Diritto Divino”. 

Infine, la proclamazione a Re d’Italia di Vittorio Emanuele il 17 marzo 1861: ‘Per Provvidenza divina, per voto della Nazione’; formula aspramente contestata dalla sinistra parlamentare, che avrebbe preferito vincolare il titolo regio alla sola volontà popolare. Vittorio Emanuele rimase ‘secondo non primo’, a sottolineare la continuità con il passato, vale a dire il carattere annessionistico nella formazione del nuovo Stato.

Poi il trasferimento della Capitale a Firenze, preceduto dai sanguinosi tumulti di Torino il 21 e 22 settembre 1864, la III Guerra d’Indipendenza, l’annessione del Veneto, Sedan ed il 20 settembre, la Presa di Roma, finalmente Capitale; la “Questione Romana” e tutti i problemi irrisolti (dal brigantaggio all’irredentismo, dalla questione meridionale al perdurante, diffuso analfabetismo) della giovane Nazione, sorta per il convincimento dell’intelligenza, un po’ per caso, molto per abilità diplomatica, anche spregiudicata (la contessa di Castiglione buttata tra le braccia dell’Imperatore dei Francesi), intuizione ed ardimento.

Il 9 gennaio 1878 Vittorio Emanuele II morì, forse per un attacco di malaria. Voleva essere sepolto a Superga col padre, la madre, la moglie defunta, i figli morti piccoli. Gli toccò invece il romano Pantheon con la sua simbolicità soverchiante. La commozione che investì il Regno fu unanime, sincera, ed i titoli dei giornali la espressero.  Il Piccolo di Napoli, giornale della sera, alla pari degli altri quotidiani, diede libera stura all’amplificazione retorica. Titolò: “È morto il più valoroso dei Maccabei, è morto il leone di Israele, è morto il Veltro dantesco, è morta la provvidenza della nostra casa. Piangete, o cento città d’Italia! Piangete a singhiozzo, o cittadini!”.

In tutto ciò, dando per scontate luci ed ombre, la figura di Vittorio Emanuele II, ieri esaltata per retorica, oggi oscurata da un malinteso “democraticismo di sinistra garibaldino e mazziniano” è rimasta accantonata, come si è da ultimo visto per i 150 anni dell’Unità, nel 2011. Finora nessuna importante iniziativa commemorativa per il II centenario della nascita del Re sembra  essere in  cantiere, neppure a livello locale, ad esclusione di quelle d’iniziativa monarchica. 

‘Vittorio Emanuele II, il primo re d’Italia di cui nessuno sembra ricordarsi’ ha titolato “La Stampa” giorni fa. Un ‘Comitato per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Vittorio Emanuele II’ si è, infatti, costituito sotto l’egida dell’Unione Monarchica Italiana. La Presidenza Onoraria del Comitato è stata assunta da S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia Aosta. Il predetto, lo scorso 6 gennaio, ha indirizzato al Prof. Aldo Alessandro Mola, Presidente della Consulta dei Senatori del Regno, un Messaggio che sottolinea: 

‘Questo 2020 sarà l’anno dedicato alla figura del mio avo Re Vittorio Emanuele II, che vedrà intellettuali, storici ed uomini politici sviscerare pro e contro del momento storico in cui visse ed in cui si concretizzò l’unità d’Italia. Spero che questo ricordo trovi spazio nelle scuole, sì da fornire alle nuove generazioni una visione storica completa, lontana dalla retorica per consentire di ritrovare il vero significato di unità nazionale che ci ha resi una Nazione libera, democratica, indipendente, cristiana’.     

(http://www.crocerealedisavoia.org/comunicato-del-6-gennaio-2020).

Il programma delle celebrazioni prevede: sabato 14 marzo, ore 17.00, presso le sale di Palazzo Chiablese (piazza San Giovanni 2, Torino), un convegno sul tema:

“14 marzo 1820 – 14 marzo 2020: i 200 del Padre della Patria. Vittorio Emanuele II, l’Italia in eredità.” Interverranno: l’On. Prof. Giuseppe Basini. il Prof. Eugenio Capozzi; l’Avv. Alessandro Sacchi; il Prof. Salvatore Sfrecola; il Prof. Andrea Ungari; l’On. Prof. Vittorio Sgarbi.  

Domenica 15 marzo, alle ore 11.00, deposizione di una corona di alloro al monumento a Vittorio Emanuele II. Alle ore 12.30, celebrazione di una Messa in memoria di Vittorio Emanuele II, presso la Chiesa di Santa Cristina in piazza San Carlo, a Torino.    

(http://www.torinoggi.it/2020/01/29/leggi-notizia/argomenti/eventi-11/articolo/anche-vittorio-sgarbi-nel-comitato-per-le-celebrazioni-del-bicentenario-della-nascita-di-vittorio-em.html).

 Altre benemerite iniziative saranno sicuramente avviate. Ma questa nostra Repubblica, sempre così timorosa di rendere omaggio al comune passato, intende tacere ancora una volta? Il Presidente Sergio Mattarella sarà a Torino, il 14 marzo, a nome di tutta la Nazione, per ricordare la nascita del suo massimo artefice, dell’anima del ‘moto nazionale’, del primo Capo di Stato dell’Italia? 

*già ambasciatore d’Italia in Paraguay e El Salvador

@barbadilloit

Gianni Marocco*

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