RitrattiDi#Calcio. Ciro Immobile e la fenomenologia del post-attaccante

Ciro Immobile, attaccante della Lazio e della Nazionale

Se Giorgio Chinaglia era l’attaccante pirata, il Long John: pistola e bottiglia, e il grido di battaglia della curva; Ciro Immobile è l’attaccante evasivo, disinvolto, senza ideologia né Gomorra, potremmo dire un post-attaccante per come è andato oltre il contesto che l’ha partorito, che balla con la moglie e commenta le partite con la madre – che lo  chiama “Seccatiello”, convinta come tutte le mamme meridionali che sia troppo secco e che non mangi –, e continua a riconoscere il primato paterno su come si segna: «Tutti i segreti che conosco dell’area di rigore me li ha insegnati lui». Un familista. Mai patetico. Uno da salotto e cucina. Invece, Chinaglia era da strada, la puzza della strada se la portava in porta col pallone. Immobile no, pur avendo camminato sugli scogli di Torre Annunziata, e passato giornate sui treni sgangherati campani per arrivare a Sorrento, conserva un altro odore, è uno da sapone di Marsiglia, non ha cupezze né vendette, dribbla senza pesi, e anche ora che, dall’alto dei suoi 122 gol, superato Chinaglia, accarezza l’ombra di quelli segnati da Silvio Piola (159) con la Lazio: si libera del peso con una scrollata di spalle. È fatto così. Appartiene a una generazione che non porta pesi: né in campo né fuori. Ricorda Valentino Rossi. Risposta, sorriso, e andare. Partita alle spalle, allenamento, altra partita, in mezzo almeno tre gol. Un po’ lazzaro e guascone in area di rigore, tutto divano e coccole fuori. Servirebbe un Rino Gaetano per cantare le sue contraddizioni e i suoi giri, alcuni a vuoto. Immobile, oltre ad appartenere agli ulissidi napoletani che non riescono a tornare a casa – come Vincenzo Montella, Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara che lo portò alla Juventus – è anche un calciatore dato più volte come inceppato, perduto, sì, finito, al quale gli si era ristretta la porta, consumato dalla nostalgia come e più di un brasiliano, almeno a stare alle sue dichiarazioni su Germania e Spagna quando giocava con Borussia Dortmund e Siviglia; e, invece, ogni volta risorto, con i gol. Ora viaggia a una media superiore a quella del Gonzalo Higuain dei trentasei gol in campionato – che con la maglia del Napoli tolse il record a Nordahl – per la precisione: alla ventesima giornata ne ha tre di più dell’argentino. Ma Immobile non è uno da campo stretto come Higuain, no, gli servono spazi, è uno da maglie larghe, più bufalo che locomotiva, a Dortmund – dove lo rimpiangono e dove gli avevano dato del brocco – si aspettavano un nuovo Lewandowski, invece arrivò questo napoletano con la nostalgia per casa e il bisogno negli occhi e sul campo dell’orizzonte ampio, e non funzionò. Al contrario, con Ventura, l’altro, quello del Torino (dove aveva Cerci a passargliela), e ora con Simone  Inzaghi, che lo fanno correre nelle praterie delle ripartenze o contropiedi corti creati dai loro catenacci alti: ci sguazzava e ci sguazza, perché è il dominus delle palle sporche, dei contrasti, delle spallate, da cingolato prima scava e poi scappa, e ruba, ruba tantissimi palloni, oltre ad arpionarne tanti altri sui cross e/o passaggi di Milinković-Savić, e soprattutto di Luis Alberto che, giustamente, pretende una macchina da lui, e ora persino Lazzari comincia a servirlo come si deve, e lui fa quel che sa e deve: segna. E prima di segnare: corre, corre, corre tantissimo fino a consumarsi – è sempre tra i primi della Lazio – quasi che dovesse uscire dal cognome che porta per meritarsi l’area di rigore e i conseguenti gol, non è uno statico, anzi, è uno che negli spazi stretti o con un altro attaccante troppo vicino va in tilt e si consuma in errori; gli servono prospettive, scambi veloci, ma non troppo ravvicinati, e poi la lotta, perché ama proteggere il pallone, è proprio un fatto personale: deve tenerlo e portarlo, e se proprio serve scambiarlo poi lo rivuole con foga, per tirare, tanto che se lo perde commette fallo senza indugi, avendo un concetto da proprietario terriero. Ma poi sorride, perché la proprietà non è che un furto tra bambini, almeno sul campo. Rimane un pezzo unico, una strana specie d’attaccante, che mette insieme molti altri del passato – da Baiano a Vieri, da  Hübner a Klose – una sorta di Frankenstein col sorriso, che segna e non vuole responsabilità. È uno di quei cannibali – da gol – buoni, che i difensori fanno fatica ad odiare e picchiare, perché ha l’aria da giusto, anche se Mancini storce il naso. (da Il Mattino)

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Marco Ciriello

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