Storia. 75 anni fa la fine di Mussolini: un mistero tuttora irrisolto

Un triste Mussolini liberato al Gran Sasso il 12.9.1943 dai paracadutisti tedeschi durante l’Operazione Quercia

Centinaia, migliaia di libri, saggi, documentari, film, interviste, articoli, siti web, sono stati presentati in questi 75 anni trascorsi dalla morte del duce, il 28 aprile 1945, a Giulino di Mezzegra, sui suoi misteri. E non sembrano essere giunti alla fine, sia per la costante attualità di certe dolorose pagine della nostra storia nazionale, breve, ma tormentata, sia perchè al riguardo esiste (anche) un mondo editoriale d’area, giornalistico, pubblicistico – che non ha sempre il rigore di un De Felice – talora autoreferenziale, ‘dietrologo’, non più reducista o nostalgico, dove l’ ‘Oro di Dongo’ vi ha spesso una parte centrale. Nessuna certezza è stata raggiunta. Ormai non ci sono neppure più sopravvissuti; le memorie orali, di seconda e terza mano, valgono quel che valgono, le fonti scritte autorevoli alcuni si sono premurati di farle sparire con meticolosità degna di miglior causa. Poi le ricostruzioni fantasiose, i piccoli protagonismi, la voluttà della testimonianza, le prospettive di pur leciti introiti d’autore…

Le varie versioni della fine del Duce

La questione della fine di Mussolini ha cozzato, soprattutto, con due spuntoni rocciosi. Il primo, la versione ufficiale, redatta e dogmatizzata dal Partito Comunista Italiano, la quale ha perduto col tempo quasi ogni autorevolezza. Quella che identificava in Walter Audisio (1909-’73) – alias ‘Colonnello Valerio’, l’alessandrino ‘insignificante ragioniere della Borsalino’, coadiuvato da Michele Moretti (1908-’95) – il responsabile materiale della morte di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, con il mitra francese Mas 38, 7,65 lungo. E, il secondo, la marea di successive versioni alternative, da Luigi Longo – vice comandante di Cadorna, con Parri, del Corpo Volontari della Libertà – ad Aldo Lampredi, agente del Comintern, al conte Max Salvadori Paleotti, ufficiale dell’Esercito britannico, a partigiani poi fatti espatriare, che via via sono emerse contro la narrazione costruita a tavolino, provenendo, comunque, in ultima analisi, da ambienti vicini alle Botteghe Oscure. Solo desiderio d’ingarbugliare la matassa? Proteggere il vero esecutore da eventuali, ancorchè improbabili, tardive rappresaglie?
Molte ricostruzioni si sono rivelate deboli, zeppe di ipotesi non corroborate da prove. Vale, comunque, la pena di ricordare l’eccellente e documentato Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, di Giorgio Pisanò, del 1996, per l’editore Il Saggiatore di Milano. Giovanissimo volontario nella Xª Flottiglia MAS, Pisanò (1924-1997) nell’aprile 1945 era in Valtellina come tenente della XXXVIII Brigata Nera di Pistoia. Poi fu incarcerato; tra i fondatori del MSI. Senatore e direttore del Candido di Guareschi, autore di una eccellente Storia della guerra civile in Italia, 1943-1945, Milano, 1965-1966 (assai utilizzata dal compianto Giampaolo Pansa per Il sangue dei vinti e seguiti); Il capitano ‘Neri’ e la morte del Duce. Una tragedia avvolta nel mistero, Como, il Silicio, 2019, di Roberto Festorazzi. Storico e giornalista, investigatore di segreti e controversie del fascismo, autore di molti libri. Ha dato recentemente alle stampe quella che pare (finora) essere l’ultima opera sul tema, esposto al ricorrente rischio di convertirsi in una Pulp Fiction.
Come ha scritto su “Il Giornale” Matteo Sacchi, il 8 febbraio scorso:

“Il libro è revisionista anche rispetto alle tesi che lo stesso Festorazzi ha sostenuto per anni. Festorazzi ha a lungo sostenuto che nonostante quanto affermato dalla vulgata a fucilare Mussolini e Claretta Petacci fosse stato il partigiano comunista comasco Michele Moretti (1908-1995). Dopo aver attentamente studiato gli archivi conservati dalla famiglia del capitano ‘Neri’, al secolo Luigi Canali (1912-1945) è invece giunto alla conclusione che sia stato quest’ultimo a sparare la raffica finale verso il dittatore e la sua amante”.

Ciò brevemente ricordato – e pure il successivo assassinio di ‘Neri’ e di ‘Gianna’ da parte dei loro compagni partigiani, chissà una sorta d’anticipazione di Jack Ruby e Lee Oswald, Dallas, Texas, 1963 – un dubbio, a mio avviso più rilevante, dovrebbe forse ‘tormentare’ ancora la coscienza dei veri storici. Perché, tra le tanti morti possibili, o fra le varie possibilità di salvarsi, almeno temporaneamente, Benito Mussolini, Capo della Repubblica Sociale per 600 giorni, scelse proprio la peggiore? È chiaro che se avesse voluto, egli poteva salvarsi. Quanto meno ad aprile 1945. Ciò ripugnava naturalmente alla sua coscienza, responsabile della salvezza dei collaboratori e delle loro famiglie, ed è ben comprensibile. Il capo non scappa! La realtà è che poi non riuscì a salvare nessuno, anzi qualcuno (come il pilota Calistri) fu assassinato proprio perché ‘trovato’ nel suo gruppo di fuggiaschi… Forse lui e Claretta furono seviziati, violentati, soffocati, fucilati morti.
Poteva volare in Spagna (su quell’aereo già pronto, che servì invece alla famiglia Petacci), pochi giorni prima del 25 aprile. Verosimilmente Franco, in nome della Realpolitik, l’avrebbe consegnato agli Alleati, ma almeno egli avrebbe potuto difendersi in una sorta di processo. E chissà che l’intervento di Pio XII non gli avrebbe in extremis salvato la vita. In alternativa, il 26 aprile ’45, poteva entrare in Svizzera da Chiasso, forzando il posto di blocco. Come e più della Spagna sarebbe poi stato consegnato da Berna agli Alleati, ma non a chi voleva una sua morte frettolosa (Servizi inglesi, comunisti, socialisti pertiniani e lombardiani, azionisti). Tuttavia, è dubbio che in quei giorni gli americani cercassero sul serio di sottrarre il duce agli inglesi, come talora ipotizzato (da Vanni Teodorani, marito della figlia di Arnaldo, Rosina, nel suo Diario).
Mussolini sarebbe potuto rimanere a Gargnano ed il generale Wolff di sicuro l’avrebbe condotto in Germania. Come poi l’ufficiale tedesco dichiarò, con cognizione di causa e sulla base d’istruzioni in tal senso di Berlino. Karl Friedrich Wolff (Darmstadt, 1900 – Rosenheim, 1984) è stato ufficiale durante la prima guerra mondiale e successivamente raggiunse il grado di SS-Obergruppenführer e di generale delle Waffen-SS. Nel luglio del 1943 fu inviato da Himmler in Italia in qualità di Governatore Militare e di Comandante supremo delle SS e della Polizia nella zona controllata dalla Wehrmacht. Wolff affermerà che se il duce non avesse lasciato Villa Feltrinelli sarebbe stato accompagnato in Germania. Una soluzione che gli venne certo prospettata dal generale e rifiutata, quando egli decise, invece, di raggiungere Milano. Non era una gran prospettiva, per la verità, quella di essere sottoposto ad un giudizio ‘propagandistico’ in Germania dagli Alleati, a giorni sicuri vincitori. Sarebbe forse finito con un cappio al collo a Norimberga. O sarebbe stato consegnato alla Giustizia della vinta Italia (nonostante la pantomima della cobelligeranza), cioè alla parte che aveva per referenti i Togliatti, Parri, Lombardi, Valiani, Basso, Saragat ecc. a sinistra, molti post-badogliani e ‘sepolcri imbiancati’ a destra. De Gasperi se ne sarebbe pilatescamente lavato le mani. Gli esilî sono riservati ai re, non ai dittatori caduti…

Mussolini realista e rassegnato

Alla fine dei suoi giorni, Mussolini ondeggia tra rassegnazione e realismo (sa, sente, dice agli intimi che sarà giustiziato) ed ingenui, chimerici sogni di avere ancora un futuro politico, a sinistra, con una parte di vecchi compagni socialisti. Nel recarsi a Milano, dove il fascismo era nato, il 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro, egli si mise in trappola. Alla pari di un topo che sa che il formaggio gli sarà fatale, ma non sa resistere al suo richiamo. Mussolini si ricordava della buona accoglienza ricevuta nel dicembre del ’44, quando tenne il discorso al Teatro Lirico. Pensava sul serio che i milanesi, con gli Alleati alle porte, l’avrebbero seguito? E dove, poi? Istinto di autodistruzione, accettazione del fallimento, alternato a momenti di vitalità, a speranze? Cambi d’umore improvvisi, contraddizioni, una sorta di sdoppiamento della sua personalità, come vari suoi collaboratori, ad esempio Galeazzo Ciano nel 1940, avevano già notato?
Poteva egli accettare l’ospitalità garantitagli dal cardinale Ildefonso Schuster dopo il colloquio all’Arcivescovado di Milano, il 25 aprile, quando scoprì di essere stato giocato da Wolff, prima di essere consegnato come prigioniero di guerra agli Alleati. Il C.L.N. (o il C.L.N.A.I.) non voleva il suo processo, come poi affermò pure il generale Raffaele Cadorna, perché c’erano troppe “verità imbarazzanti” sapute dal duce, puntiglioso raccoglitore di dossier, e che i politici che si preparavano a governare l’Italia (ex fascisti compresi) preferivano non fossero rivelate. Faceva comodo morto. Sandro Pertini si vantò poi di aver fatto fallire quella possibilità, asserendo che
Mussolini sarebbe stato subito ‘giudicato’ da un Tribunale del Popolo (e quindi giustiziato). Ma il membro del Comitato Militare Insurrezionale – uno smargiasso poco autorevole e carismatico, come disse Lombardi ‘cuore di leone, cervello di gallina’, prima dell’abile operazione mediatica durante la sua Presidenza, oltre trenta anni dopo – non disponeva di forze sufficienti per impedire l’esecuzione del progetto, se il duce fosse rimasto con un consistente nucleo di guardie del corpo.
La morte va affrontata in piedi, aveva insegnato San Benedetto, ed un personaggio come Mussolini non si spaventava alla prospettiva di un’espiazione in prigione od in esilio, com’era toccato persino a Napoleone. Del resto nella grande borsa che portò con sé fino alla sua cattura c’erano le “carte” che avrebbero potuto, a suo parere (ma è arduo crederlo), garantirgli la salvezza e l’assoluzione in un ipotetico processo. O, almeno, la blanda condanna dei posteri, della storia, nella cornice di quell’immane tragedia che fu la Seconda Guerra Mondiale. Che lui, Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, non aveva scatenato nel ’39. Pure aveva, nel suo piccolo, contribuito al suo scoppio, con una politica estera erratica, di dichiarazioni aggressive, mosse imprudenti, avventurosa. Visse lunghe lacerazioni, ma nel giugno ’40 cedette e scelse l’opzione bellica, confidando in una rapida conclusione del conflitto: decisione disastrosa. Il tutto aggravato dal suo ruolo nella R.S.I. – carente di legittimità – di Gauleiter per la parte d’Italia occupata dall’ alleato-occupante tradito, offeso. Al di là delle sue buone intenzioni dell’inizio, dopo la liberazione dal Gran Sasso: non solo riscattare l’onore ferito della patria, la resa dell’8 Settembre, ma essere utile ai molti connazionali internati in Germania, mitigare il rigore ‘teutonico’ di un’occupazione militare sui civili ecc. Nello sconforto, Mussolini ammetterà poi di guidare “un pugno di liberti mandati a controllare una massa di schiavi”. Non aveva voluto la ‘guerra civile’.
Poteva, in alternativa, trincerarsi nei locali della Prefettura milanese di Corso Monforte, ben difesa, e da lì trattare la resa con gli Alleati. O poteva seguire il consiglio del Maresciallo Rodolfo Graziani, Ministro della Guerra, o di Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, di consegnarsi con loro, adeguatamente protetti, alle Forze angloamericane. Siccome sino al 26 aprile Milano sarebbe rimasta saldamente in pugno al Governo fascista, con migliaia di uomini armati, ancora piuttosto decisi, essendo conosciuti i domicilî degli esponenti della Resistenza, egli avrebbe addirittura potuto farli catturare e tenerli come ostaggi durante la trattativa. Tale proposta venne, però, da lui immediatamente rigettata.
Con la partenza del duce, Milano venne di fatto consegnata alla Resistenza che, fino a quel momento, militarmente contava poco. Con le armi c’erano stati quasi solo i terroristi comunisti dei G.A.P., quelli che nell’oscurità sparavano alle spalle e scappavano in bicicletta. Molte armi erano comunque state negli ultimi giorni consegnate loro dagli Alleati per agevolarne l’avanzata. La Resistenza non abbreviò la fine delle ostilità, in ogni caso, neppure di due giorni. Semmai apprestò il ‘bagno di sangue’. Checchè ne abbiano poi straparlato e scritto i ‘resistenti’. Così fu la resa. Una resa, quella di Wolff e sottoposti, dalle modalità poco comprensibili, conseguita all’insaputa di Mussolini e addirittura trattata con un avversario che in quel momento in Como e dintorni, e per tutta la strada fino alla Valtellina, non aveva alcuna seria consistenza militare.
I delegati del C.L.N. di Como rappresentavano in quel momento solo sé stessi, non avevano divisioni e neppure grossi contingenti armati con i quali imporre le loro condizioni. Al massimo, potevano contare su di una cinquantina di seguaci clandestini in città, che divennero circa 700 il 27 aprile, a capitolazione dei fascisti annunciata, e opportunisti dell’ultimo momento con la fascia tricolore al braccio. Avevano dalla loro soltanto la forza del tempo che li avvicinava alla inevitabile ‘vittoria finale’ con l’arrivo degli Alleati. Ma Wolff ed i suoi pensavano al ‘dopo’, come in effetti successe, e la sfangarono… Anche per quello il generale aveva fatto liberare Ferruccio Parri da San Vittore, nei primi giorni di marzo 1945, assieme ad Antonio Usmiani, e condurre in Svizzera da Allen Dulles (Capo dell’Ufficio OSS), come prova di buona volontà, nell’ambito dell’Operazione Sunrise. Possibile che quella liberazione non facesse sospettare di nulla Mussolini? Confidava ciecamente nel senso dell’onore germanico? Nessuno lo informava sull’andamento reale delle operazioni militari? Gli bastava rivedere bozze e articoli di giornali?
Egli avrebbe potuto tentare, qualora lo avesse deciso sul serio, con disposizioni chiare, l’ultima difesa nel “Ridotto Alpino Repubblicano” della Valtellina, come suggerito dal Segretario del PFR, Alessandro Pavolini, che pensò pure di trasferirvi le ceneri di Dante, come massima espressione simbolica dell’italianità! Far apprestare dei veri piani al riguardo. Invece poco di concreto fu fatto. Sarebbe stato un modo degno di terminare un’avventura umana e politica che del tutto indegna non fu, pur con tutti i suoi errori, per quanto possano sostenere i detrattori. Pur se è difficile immaginare una ultima difesa con incomplete, superficiali fortificazioni e scarse provviste, con mogli, figli, amanti, nipoti al seguito o poco distanti. Prevalse l’anima del giornalista, forse del vecchio rivoluzionario costantemente in fuga o, addirittura, dell’anziano precoce, ormai avulso dalla realtà.
Il duce poteva, in ogni caso, raggiungere la Valtellina con gli uomini delle “Brigate Nere” e di altri corpi militari di sicura fede fascista. Per quello avevano obbedito l’ordine di concentrarsi a Como. Si trattava di migliaia di militi in arrivo, disposti a (quasi) tutto. Poi arrendersi lì agli Alleati, magari dopo una resistenza simbolica, per evitare un inutile spargimento di sangue, come fece Pio IX a Roma nel 1870. Invece, l’amato duce li ‘tradì’, non per calcolo, ma lasciandoli senza istruzioni, abbandonandoli, cercando una impossibile salvezza, forse illuso da qualcuno (Claretta e/o Marcello Petacci?) che gli aveva prospettato un’operazione di Servizi Segreti. Fu Claretta una confidente dell’Intelligence britannica, come poi sostenuto dal figlio di Marcello, Ferdinando, residente negli Stati Uniti? In pratica, le carte del duce, o una parte di esse (il famoso carteggio con Churchill?) in cambio del libero passaggio in Svizzera, in un posto di frontiera poco custodito. Mah! Come non pensare che l’unico scopo dei Servizi di Londra (qualunque ‘dialogo’ fosse intervenuto tra i due leaders, sull’occupazione di parte della Francia, sull’eventuale ‘sganciamento’ dal Reich ecc.) fosse ora quello di farlo tacere subito, e per sempre, assegnando il compito ai soliti sciacalli comunisti? Un’ingenuità colossale, un imperdonabile errore.

Immaginava di essere fucilato dai partigiani

Alcune volte, verso la fine, Mussolini aveva confidato ai suoi interlocutori che il suo destino era di essere fucilato dai partigiani. Pareva arrendersi fatalisticamente agli eventi. Allora perché poi provò, sia pur maldestramente, a salvarsi, coinvolgendo quelli che forse si sarebbero potuti salvare? Giacché accettó il 27 aprile, spinto da Pavolini, di salire sulla autoblindo della Brigata Nera di Lucca (un camion Lancia 3RO artigianalmente modificato ed armato), perché mai si lasciò convincere, quando la strada venne sbarrata da un pugno di partigiani, a Musso, a lasciare i suoi, tra proteste ed invocazioni, per salire, rassegnato, su di un camion di tedeschi in fuga, mal travestito da improbabile soldato della Wehrmacht? Lui che, ultimamente, detestava i tedeschi? Non ebbe il senso della inopportunità, per non dire ignominia, di quel penultimo atto? Tedeschi che, in cambio del libero passaggio, avvisarono i partigiani o forse già avevano concordato con loro la sua consegna. Mussolini non era assolutamente amato dai germanici in generale – tranne Hitler – che sempre avevano considerato una ‘manfrina’ il golpe monarchico del 25 luglio ’43 e che avrebbero, almeno Eugen Dolmann e le SS, preferito mettere a capo dell’Alta Italia l’AD della Fiat, Vittorio Valletta. L’astenia, senso del destino avverso, del tramonto ineluttabile, l’abulia già diagnosticata dal professor Cesare Frugoni?
Perché egli non cercò il sonno eterno con armi in pugno, una morte da ‘fascista’, o perché non si sparò, a quel punto, un colpo al cervello? Per ragioni religiose, giacché si era da qualche tempo riavvicinato alla fede? C’è da dubitarne… E non volle intuire quello che avrebbero fatto di lui e di Claretta (che in un romantico, quanto discutibile gesto di passione, volle condividere la fine dell’amato Ben) i partigiani che avevano proclamato la propria decisione di giustiziarlo alla svelta, senza processo e formalità? Non c’è, ovviamente, una risposta definitiva a tali quesiti – ai misteri e contraddizioni che ancora avvolgono la dinamica di molti fatti – oggetto da decenni di curiosità giornalistica o d’interpretazione storiografica.
Se Mussolini avesse veramente creduto nella missione di un’idea, nella ‘religione laica’ del fascismo, come tante volte proclamò, perché mai non volle dare alla sua fine un significato simbolico, alto e diverso? Pensava sul serio che i vecchi compagni socialisti avrebbero accettato un ‘indolore’ passaggio di consegne, garantendo la pelle a tutti, secondo le farneticazioni dei ‘pontieri’? ‘Pontieri’ – Bonfantini e Silvestri per i socialisti, Biggini, Montagna, Pisenti per la R.S.I., in specie – che avevano ‘dialogato’ per un paio di mesi sulla possibilità di pacifica ‘transizione’, e che probabilmente, da parte socialista, non erano altro che esponenti ‘strumentalizzati’, per imbonirlo con vaghe promesse, nessun impegno concreto e vanificarne ogni ipotesi di resistenza al vicino tracollo. In ogni caso, sopraffatti dai Basso, Pertini, Lombardi (e pure da Pietro Nenni, segretario del PSIUP, già amico di Benito, arrestato in Francia, e grazie all’intervento del duce consegnato dai tedeschi agli italiani, al Brennero, nell’aprile ’43), da una parte, e dai Pavolini, Mezzasoma, Farinacci, dall’altra. Il 25 aprile ’45 Mussolini non aveva piú nulla da lasciare in eredità, oltre a declamazioni paradossali, data l’ora, di aspiranti corifei sui ‘proletari in lotta, per la vita e per la morte, contro il capitalismo’ e ‘siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo’, come aveva scritto il giovane Enzo Pezzato, idealista direttore de “La Repubblica Fascista” il 22.IV.1945, pochi giorni prima d’essere assassinato dai partigiani e senza che il suo cadavere sia successivamente mai apparso.
Per 20 anni, nell’Italia littoria, i socialisti erano finiti in carcere, al confino, costretti all’ esilio… Non avevano scordato. Credeva poi il duce, o solo faceva finta per compiacere alcuni gregari, alle ‘uova di drago’ della tardiva socializzazione (uno specchietto per allodole, anche secondo molti fascisti), destinate a non schiudersi mai? Mancarono decisione, polso fermo, audacia, visione militare del problema, autentica convinzione ideologica rivoluzionaria, unanimità di intenti, che avrebbero potuto indicare, ad istinto, la condotta da seguire per chiudere la ‘sua guerra’, la pagina del fascismo repubblicano. La R.S.I., con il capo assassinato, i ministri uccisi o in fuga, truppe e forze di sicurezza disperse, cesserà ufficialmente di esistere il 29 aprile ’45 con la Resa di Caserta, l’atto formale e conclusivo della Campagna d’Italia. Nel documento le Forze Armate germaniche erano associate a quelle della Repubblica Sociale in quanto, essendo considerato uno ‘Stato fantoccio’, non riconosciuto dagli Alleati, esso non era in grado di stipulare accordi diretti: il rappresentante tedesco era dotato, ad ogni buon fine, di una delega rilasciata dal Ministro della Guerra della R.S.I., Maresciallo Graziani.
Perché Mussolini ‘scelse’ una fine, quel 27 aprile 1945, pur con i molti dubbi che permangono tuttora sulle modalità dell’uccisione del giorno 28, con annesso, non imprevedibile vilipendio dei cadaveri in Piazzale Loreto – la turpe ‘macelleria messicana’, per dirla con Parri – che i più fanatici antifascisti sognavano? Fu certamente il contrario della ‘Bella Morte’, cantata e predicata, il contrario di salvare Claretta, i fedeli irriducibili, sé stesso, la sua superstite dignità di Capo di Stato e del fascismo. Ricordo alcune belle pagine di Giano Accame sul rapporto concettuale e simbolico del fascismo col trapasso in La morte dei fascisti (2010). Al duce mancò invece un adeguato commiato. Falso sarebbe sostenere per viltà, come pure han detto in molti. Probabilmente per l’usura psicofisica che giunge a consumare ogni volontà di controllare e guidare gli eventi. Il suo cadavere oltraggiato contribuì, essenzialmente, ad affermare la ‘nuova legittimità’ del PCI e socialcomunista: fu, cioè, un lavacro purificatore disposto da chi, in qualche modo, intendeva ‘succedergli’, non solo nella disponibilità del famigerato ‘Oro di Dongo’…

La prima pagina del quotidiano socialista Avanti!

Ed un’ autoassoluzione estetico-macabro-tragica che lasciava, coi ‘colpevoli’ appesi, l’illusione di credere, a chi lo volesse, che la Guerra non l’avevamo persa, ma bensì vinta: anche se era solo un patetico virtuosismo, un autoinganno funzionale, alla Esopo, più che consolatorio.
@barbadilloit

Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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