Il caso. Se la politica dimentica l’emergenza morti bianche e precarietà sul lavoro

Morti bianche in una foto Cisl

Al tempo dell’epidemia mediatica da Coronavirus c’è un’emergenza lampante ma invisibile: i morti e gli infortuni sul lavoro e per raggiungere i posti di lavoro. È un’emergenza tragicamente e orrendamente concreta e sottaciuta, che miete vittime tra chi esce di casa e non torna più per sempre. Con la metà dell’energia che ha reso schizofrenici i media per il virus si potrebbe almeno dimezzare la velocità di questa strage, veicolare fondi e facilitare politiche strutturali, creare una protezione contro la violenza del lavoro precario che porta a morire a 75 anni mentre cerchi di sopravvivere perché la tua vita, e quella dei tuoi cari, agonizza.

Il primo bollettino INAIL del 2020 sugli infortuni e i decessi sul lavoro è inquietante: 52 persone hanno perso la vita in incidenti con esito mortale solo a gennaio, otto in più rispetto alle 44 registrate nel primo mese del 2019 (+18,2%).
Sono aumentate soprattutto le denunce di incidenti mortali avvenuti in itinere (da 13 a 19) mentre quelle per infortuni in occasione di lavoro sono passati da 31 a 33.
Calano invece gli infortuni sul lavoro: 46.483, meno 1.400 casi. Ma è solo gennaio. Se il 2019 è stato l’anno più traumatico da dieci con 1089 morti, il 2020 rischia di essere anche peggiore.

Dalle morti bianche alla precarietà, altro tema fuori dall’agone dei media e della politica

Giovedì 24 ottobre 2003, con l’entrata in vigore della legge Biagi, il mercato del lavoro italiano (già peraltro profondamente segnato) riceveva il colpo di grazia
La legge Biagi nasceva con il nobile intento di fungere da motore propulsore dell’occupazione italiana. Non solo gli stage (rigorosamente non retribuiti) ma le varie forme flessibili di contratti di lavoro avrebbero dovuto rappresentare la porta stretta -claustrofobica- per il mondo del lavoro. Di fatto si sono tramutate in un impasse che ha paralizzato quella e le nostre generazioni a venire, bloccate tra forme incerte di lavoro, non-lavoro e in molti casi rasenti lo sfruttamento legalizzato. Anziché costituire una fase transitoria, il tempo determinato nelle sue fantasiose declinazioni (job on call, apprendistato, co.co.co) é divenuta la prassi di un’Italia che stava affondando e con essa capitano e mozzi. La morte del contratto di lavoro a tempo indeterminato ha rappresentato una frattura nel mercato di lavoro: da un lato gli insiders, quelli del posto fisso, delle tutele e della pensione sicura, dall’altro gli outsiders, lavoratori allo sbaraglio dal presente incerto e dal futuro fosco. Una guerra tra poveri é quella che si combatte sul territorio italiano, tra chi difende con i denti i propri diritti (sacrosanti) di lavoratore e chi forse egoisticamente chiede un’equa distribuzione togliendone lí e dandone a chi diritti non ha.
Con il nuovo millennio e l’era del precariato, il mondo del lavoro sembrava ormai segnato e se mai si fosse sentita la necessità di un’ulteriore riforma, la strada più ovvia sembrava più che una folle corsa con conseguente schianto, un’ammissione di colpa e una cauta retromarcia. Nessuno avrebbe mai immaginato- tra i tanti scenari ipotizzabili-un aumento della precarietà della condizione lavorativa, un precariato al quadrato per dirla in termini matematici.
E dunque, ecco l’ennesima riforma del mercato del lavoro: il Jobs Act renziano, il cui nome riecheggia l’altrettanto celebre Jobs Act proposto dal democratico d’oltreoceano Obama. Peccato che tra i due -Jobs acts-vi sia un abisso.
Le motivazioni sottese sono le stesse, incrementare l’occupazione, ma mentre Obama pose l’accento sull’employment, Renzi pensò bene di rendere il lavoro ancora piú flessibile, come piace all’Europa e alle multinazionali. E come?

Se la legge Biagi aveva facilitato l’assunzione-sfruttamento, ma rimaneva invariata l’annosa questione della tutela dei lavoratori, quella spina nel fianco che era l’articolo 18.
Bisognava dunque rivedere la disciplina dei licenziamenti, perché non vi é nulla di piú flexy di un lavoratore che può essere licenziato da un momento all’altro senza costi per l’impresa. Rispetto alla precarietà nel lavoro, ci si è spinti, infatti, molto oltre.
Il Jobs Act di Renzi,è stata una porcheria che non merita mezzi termini, ha liberalizzato infatti il controllo a distanza e il demansionamento.
Un lavoratore sottoposto alla spada di Damocle di infinite ripercussioni e ritorsioni non sarà mai libero di partecipare, rivendicare e lottare.

E qui arriviamo ad una riflessione più profonda: identità e lavoro sono legate l’una all’altro in maniera così forte che non può aversi la prima senza il secondo. Avere un ruolo attivo nella società (che si tratti di lavoro salariato o meno) é fonte di appagamento e soddisfazione, fondamentali per l’equilibrio psicofisico dell’individuo. In un mondo non necessariamente perfetto ma che funziona bene se c’é disoccupazione é solo volontaria. Una parte della popolazione se non può o non vuole fare un lavoro salariato non partecipa al mercato del lavoro, si mette da parte.

La crisi economica ha imposto l’urgenza di avere un reddito da lavoro per far fronte alle difficoltà crescenti. Diminuisce la percentuale di disoccupazione volontaria ed aumenta quella dei disoccupati loro malgrado. E se da un lato il bisogno di lavorare c’é ed é pressante, la ricerca di un impiego diventa sempre più difficile, infruttuosa e per questo demotivante. La mancanza di un lavoro non é solo un problema di ordine economico. Essa mina in profondità la percezione di sé, mette in crisi l’identità dell’individuo, porta ad uno stato di frustrazione e depressione che un molti casi conducono al suicidio. É inconcepibile l’esistenza senza un barlume di speranza, Speranza che, in un mondo di disoccupazione dilagante e di povertà crescente, viene sempre meno. Il precariato della condizione lavorativa che accompagna queste generazione (e le generazioni future con tutta probabilità) ha già dimostrato di avere conseguenze devastante sulla psiche e la sfera emotiva dei giovani e meno giovani, alla mercé del Capitale. Il precariato condanna gli individui ad un futuro incerto, senza punti di riferimento. E se il lavoro si riduce ad un barcamenarsi tra impieghi più o meno precari che danno il giusto che basta per sopravvivere, il lavoro non é più dignità né vita, é la non vita.

E a una vita di flessibilità forzata e incertezze la nostra generazione deve opporsi e saper replicare. La destra in cui crediamo non accettava e non deve oggi accettare l’etichetta reazionaria e capitalistica – come spesso ricordava Giorgio Almirante, immaginando una “nazione sociale” e condividendo con la Cisnal, storico sindacato di riferimento, la proposta partecipativa, fondata sulla cogestione delle aziende, mediante l’inserimento di rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di amministrazione delle imprese e votando nel 1985, in occasione del referendum sull’abrogazione della norma che comportava il taglio della scala mobilie, “SI”, schierandosi sul fronte capitanato dal Partito Comunista che quel referendum aveva promosso.

Smarrire queste coordinate, storiche e spirituali, significa perdere di vista non solo il senso di una generica appartenenza quanto soprattutto la visione strategica di certe scelte, riducendo tutto a mero pragmatismo: un errore imperdonabile per chi dichiara di riconoscersi in una tradizione sociale, ivi compresa quella della Dottrina cattolica, ed un bel regalo alla sinistra, che, sui temi del lavoro e della socialità, molto ha da farsi perdonare, avendo sbagliato tutto negli ultimi quarant’anni.

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Francesco Di Giuseppe

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