Giornale di Bordo. Verso l’Eurogruppo: la Merkel come Clemeanceau (e Di Maio alla Salandra)?

Angela Merkel

Giornale di Bordo è il diario digitale di Enrico Nistri

Verso l’eurogruppo: la Merkel come Clemenceau (e Di Maio come Salandra)?

Aspettiamo tutti con ansia l’eurogruppo di martedì prossimo, da cui potrebbe dipendere il futuro economico dell’Italia, e non dell’Italia soltanto. Ovviamente non posso fare a meno di tifare per i nostri rappresentanti, mi piacciano o no: right or wrong, my country. E penso che mai come ora ci sia bisogno del tifo di tutti. Purtroppo, l’isolamento internazionale dell’Italia mi ricorda per molti aspetti quello del 1919, alla conferenza di pace di Parigi. Certo, la situazione è del tutto diversa. Allora eravamo appena usciti da un conflitto sanguinoso ma vittorioso, oggi siamo appena entrati in una guerra dall’esito incerto.

Quello che accomuna le due situazioni è l’inadeguatezza della nostra classe politica. A Parigi mandammo un Salandra, che secondo le malignità di Luigi Barzini Senior quando alzava la cornetta del telefono domandava: “Con qui parle?”. E mandammo anche un Vittorio Emanuele Orlando, che quando non vedeva accolte le sue richieste se la cavava piangendo (e il caustico Clemenceau, che soffriva di prostata, commentò, come ha ricordato Gianni Marocco su questo sito: “Ah, si je pouvais pisser comme Monsieur Orlando pleure”). L’inglese di Conte è senz’altro migliore di quello di Salandra (su quello di Di Maio non scommetterei, anche se dice coronavirus), ma il rischio dell’isolamento internazionale in una congiuntura drammatica come questa potrebbe comunque costarci molto caro: anche se pare che non soffra di prostata, la Merkel è pericolosa quanto Clemenceau.

Sinite parvulos…

Uno dei rari motivi di consolazione che mi aveva offerto l’emergenza Coronavirus era stato, in seguito alla chiusura delle scuole, il ritorno dei bambini nei giardini pubblici. Non succedeva da tempo, di vedere i ragazzini giocare liberamente, affrancati dalla schiavitù del tempo pieno, dei corsi di nuoto, di yoga, di calcio, di danza cui li condannano l’ambizione dei genitori e quell’horror vacui  per cui ogni angolo della giornata dev’essere riempito di attività.  

Da tempo questo non è più possibile. I provvedimenti del governo vietano ai bambini non solo di giocare all’aperto, a meno che le case in cui abitano dispongano di un giardino o di una terrazza, ma anche di fare due passi fuori. Paradossalmente, sono più tutelati i cani, cui la legge garantisce alcune uscite per ovvi motivi igienici. Qui a Firenze, Nardella, che tra l’altro è padre di famiglia, aveva cercato di attenuare il divieto, ma è dovuto tornare subito indietro e oggi solo un genitore per volta può portare a spasso i figli, ma a piedi, non in bicicletta, e solo nelle adiacenze dell’abitazione.

Certo, il divieto ha una spiegazione logica: è difficile far mantenere ai bambini quando giocano una distanza di sicurezza. Solo pochi sport, come il tennis o il golf, o in certi casi l’atletica non prevedono il contatto diretto. In più si potrebbe invocare Kant con la sua massima sull’universalità dell’imperativo categorico, che c’impone di agire soltanto “secondo quella massima che vorremmo divenisse legge universale”. In termini pratici, è vero che non rischiamo di contagiare nessuno né di esserne contagiati entrando con i figli (o camminando, o andando in bicicletta) in un parco vuoto, ma se tutti si comportassero come noi il parco non sarebbe più vuoto e il rischio di contagio ci sarebbe. 

Nutro il sospetto, però, che dietro l’accanimento nei confronti di famigliole festanti al mare o sui prati o di chi si ostina a correre per viali solitari, vi sia una concezione quasi “quaresimale” della norma giuridica. Che qualcuno faccia sport o si diverta approfittando di una vacanza forzata, mentre per colpa del Coronavirus si muore, è considerato disdicevole, per cui lo si vieta, così come in guerra si proibivano le feste danzanti (ma allora si voleva prevenire anche il rischio che un imboscato corteggiasse con successo la fidanzata di un soldato al fronte). Con questo metro, però, si dovrebbero condannare anche i dieci giovani del Decamerone che invece di piangere i morti della peste nera si godevano gli agi della villeggiatura nel contado, raccontandosi novelle oltre tutto boccaccesche.

Un esperto di diritto penale potrebbe spiegare meglio di me che in certi ordinamenti giuridici le norme sono volte a reprimere anche i comportamenti ritenuti disdicevoli, in altri, più pragmatici, solo quelli considerati nocivi alla collettività, prescindendo da considerazioni etiche. La distinzione però non è facile, specialmente quando si ha a che fare con un popolo come il nostro poco incline al rispetto della legge, in cui il cattivo esempio può avere un effetto trainante.

Uno dei rari motivi di consolazione che mi aveva offerto l’emergenza Coronavirus era stato, in seguito alla chiusura delle scuole, il ritorno dei bambini nei giardini pubblici. Non succedeva da tempo, di vedere i ragazzini giocare liberamente, affrancati dalla schiavitù del tempo pieno, dei corsi di nuoto, di yoga, di calcio, di danza cui li condannano l’ambizione dei genitori e quell’horror vacui  per cui ogni angolo della giornata dev’essere riempito di attività.  

Da tempo questo non è più possibile. I provvedimenti del governo vietano ai bambini non solo di giocare all’aperto, a meno che le case in cui abitano dispongano di un giardino o di una terrazza, ma anche di fare due passi fuori. Paradossalmente, sono più tutelati i cani, cui la legge garantisce alcune uscite per ovvi motivi igienici. Qui a Firenze, Nardella, che tra l’altro è padre di famiglia, aveva cercato di attenuare il divieto, ma è dovuto tornare subito indietro e oggi solo un genitore per volta può portare a spasso i figli, ma a piedi, non in bicicletta, e solo nelle adiacenze dell’abitazione.

Certo, il divieto ha una spiegazione logica: è difficile far mantenere ai bambini quando giocano una distanza di sicurezza. Solo pochi sport, come il tennis o il golf, o in certi casi l’atletica non prevedono il contatto diretto. In più si potrebbe invocare Kant con la sua massima sull’universalità dell’imperativo categorico, che c’impone di agire soltanto “secondo quella massima che vorremmo divenisse legge universale”. In termini pratici, è vero che non rischiamo di contagiare nessuno né di esserne contagiati entrando con i figli (o camminando, o andando in bicicletta) in un parco vuoto, ma se tutti si comportassero come noi il parco non sarebbe più vuoto e il rischio di contagio ci sarebbe. 

Nutro il sospetto, però, che dietro l’accanimento nei confronti di famigliole festanti al mare o sui prati o di chi si ostina a correre per viali solitari, vi sia una concezione quasi “quaresimale” della norma giuridica. Che qualcuno faccia sport o si diverta approfittando di una vacanza forzata, mentre per colpa del Coronavirus si muore, è considerato disdicevole, per cui lo si vieta, così come in guerra si proibivano le feste danzanti (ma allora si voleva prevenire anche il rischio che un imboscato corteggiasse con successo la fidanzata di un soldato al fronte). Con questo metro, però, si dovrebbero condannare anche i dieci giovani del Decamerone che invece di piangere i morti della peste nera si godevano gli agi della villeggiatura nel contado, raccontandosi novelle oltre tutto boccaccesche.

Un esperto di diritto penale potrebbe spiegare meglio di me che in certi ordinamenti giuridici le norme sono volte a reprimere anche i comportamenti ritenuti disdicevoli, in altri, più pragmatici, solo quelli considerati nocivi alla collettività, prescindendo da considerazioni etiche. La distinzione però non è facile, specialmente quando si ha a che fare con un popolo come il nostro poco incline al rispetto della legge, in cui il cattivo esempio può avere un effetto trainante.

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Enrico Nistri

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