90′. Se il Coronavirus fa strage del calcio minore (resterà Cr7 nelle tv degli ipermercati)

La strada lunga tra la fermata del bus e lo stadio, costellata di bancarelle: sciarpette, magliette, bandieroni, Cipster, Caffé Borghetti e bagnarole piene di ghiaccio e birra. Scesi dall’8 eravamo prima in due. Poi ci trovavamo in cinque, in sette. Il bagarino che ci provava ma tu il biglietto, stavolta (come mille altre) già ce l’hai: tanto la curva costa poco, con qualche rinuncia in più ce la fai.

Il sapore acre dei fumogeni che secca la gola e fa male agli occhi, ma tu tieni duro: devi reggere alta, altissima, la bandiera del gruppo. Quel pezzo di stoffa deve rimanere lì, ne va dell’onore di tutti: la scenografia non si completerà da sola e basta che sbagli uno per mandare a mare il lavoro di migliaia di tifosi, amici, fratelli per 90 minuti (talvolta oltre).

I cori, la voce scende sempre. Dopo, però: prima s’alza come mai. Le canzoni più belle diventano simboli che solo chi ha vissuto può capire. Nemmeno i cantanti ne sanno niente: nemmeno Ligabue, stranito, che “Urlando contro il Cielo” se la ritrovò, in quello stadio prestato a suo concerto, intonata quale inno di guerra e passione, con le parole (ovviamente) tutte cambiate.  Neanche Max Pezzali potrà mai capire perché “La Dura legge del Gol” faccia scendere lacrimoni grossi così.

Migliaia e migliaia di corpi ammassati sugli spalti. Sudore e pioggia. Tu per chi tifi in Seria A? Per nessuno, il mio cuore batte per la squadra della mia città e chissenefrega degli squadroni. Ma hai visto che gol ha fatto Del Piero? Meglio Breda al 76esimo.

Tu per chi tifi in Serie A? Per quella squadra che tu snobbavi e di cui ora ti dichiari innamorato da tempo immemore, ma ricordo benissimo quando mi sfottevi che perdevo soldi e salute appresso a quei quattro pellegrini: hai visto Ballack?

C’è sempre un po’ di sindrome del veterano nel cuore di chi lotta. Di chi ci stava, in mezzo a una fiumana di gente di ogni tipo: quello con la Fred Perry e quello con le scarpe della Naic (sic), quello con il Porsche Cayenne comprato ipotecando la casa di mammà e quello con la Pandarella indomita, che c’aveva più trasferte di un tir internazionale. Il tipo che andava in curva per farsi le canne, quello che ci andava per cantare, l’altro che sfuggiva alla braciola della suocera. Quelli che le parabole le raccontava Gesù. E comunque, se proprio in trasferta non si può andare, c’è il bar dietro l’angolo con gli altri cinquanta scalmanati di sempre: prezzo d’ingresso, 2mila lire, consumazione obbligatoria.

Il calcio non è più quello. Oggi è adorazione perpetua dell’idolo unico. In taluni contesti apre uguale a quella nouvelle vague di cartoni animati ideati, sceneggiati e costruiti col fine unico di vendere pupazzetti o mazzi di strane carte ai bambini.

Dalla crisi, i grandi club, usciranno. Con le ossa rotte, ma ce la faranno. Gli stadi potranno anche restar vuoti, tanto c’è la tv o lo streaming: giocare è burocrazia federale, tifare è atto di militanza social-liquida.

È in provincia che perderemo tanto. Un patrimonio culturale prima ancora che sportivo: storie che si perderanno nelle partite doppie dei libroni portati in tribunale. Ancora una volta, di nuovo. E vecchi stadi in centro che, presto o tardi, saranno riconvertiti a centri commerciali. Dove un maxischermo imporrà la visione delle prodezze globali di Cristiano Ronaldo a coloro che, in rigido distanziamento sociale e con nel cuore il ricordo di quando la vita era più facile e iniziava alla fermata del bus, attenderanno le mogli in fila davanti ai negozi.

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Giovanni Vasso

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