Cultura. Eugenio De Andrade voce libera della poesia portoghese del XX secolo

Eugenio De Andrade

«In verità, egli nega dove altri affermano, svela quello che altri nascondono, osa amare quello che altri non sono nemmeno capaci di immaginare. (…) questo essere assetato di essere, che è il poeta, ha la nostalgia dell’unità, e quel che cerca è una riconciliazione, una suprema armonia fra luce ed ombra, presenza ed assenza, pienezza e carenza. (…) È contro l’assenza dell’uomo nell’uomo che la parola del poeta insorge. (…) La sua ribellione è in nome di questa fedeltà. Fedeltà all’uomo e alla sua lucida speranza di esserlo interamente; fedeltà alla terra in cui immerge le radici più fonde». Così scrive della sua poetica Eugenio De Andrade, una delle grandi voci della poesia portoghese del XX secolo. Nato il 19 gennaio 1923 a Pòvoa da Atalaia, un piccolo paese contadino dell’interno, studia a Lisbona dove inizia a interessarsi di letteratura, e poi si trasferisce a Oporto dove rimarrà fino alla sua morte il 13 giugno 2005. La sua biografia è piuttosto scarna, priva di grandi avvenimenti, lavora per trentacinque anni nei servizi ispettivi del Ministero della Salute, rifiutando ogni avanzamento di carriera per dedicarsi con più libertà alla poesia e alla letteratura. La sua prima raccolta poetica è As Mãos e os frutos (Le mani e i frutti) del 1948, cui seguiranno una ventina di libri di poesia, due di prosa, un libro per l’infanzia, varie traduzioni. Di carattere schivo, riservato, amante della classicità greca e della dimensione mediterranea, da lui sentita in modo quasi carnale, tese ad una poesia che univa al rigore formale, allo scavo sulla parola, alla rarefazione espressiva, la semplicità e l’immediatezza. Ne I frutti (tratta da Ostinato rigore del 1964) Eugenio de Andrade spiega in soli tre versi come dev’essere, per lui, la poesia:

«Così io vorrei la poesia:
fremente di luce, aspra di terra,
rumoreggiante di acque e di vento.»

Gli elementi naturali, i luoghi dell’infanzia, le origini contadine si colgono nell’essenzialità dei suoi versi, come in questa “È un posto nel sud” tratta dalla raccolta Bianco nel bianco del 1984:

«È un posto nel sud, un posto dove
la calce
si solleva a sfidare lo sguardo.
Dove hai vissuto. Dove a volte nei sogni
ancora vivi. Il nome impregnato d’acqua
trasuda nella tua bocca.
Sui sentieri delle capre scendevi
alla spiaggia, il mare sferzava
quelle scogliere, quelle sillabe.
Gli occhi si perdevano annegando
nel chiarore
del tramonto o dell’alba.
Era la perfezione.»

Si diceva della mediterraneità che affiora nei suoi versi e dell’amore per la classicità greca. Ecco alcuni versi tratti dalla poesia Arianna, che fa parte della raccolta Oscuro dominio del 1971, dove il richiamo al mito classico diventa un pretesto per un raffinato gioco intellettuale e per parlare del presente:

«Ora parlerò degli occhi di Arianna.
Parlerò dei tuoi occhi, visto che di Arianna
forse si ha memoria
solo fra le gambe di Teseo.
Di Arianna o no, gli occhi sono azzurri.
Azzurri di un azzurro molto fragile,
come se nel fare il colore un bambino
avesse calcolato male l’acqua.
(…)
Ora parlerò degli occhi greci di Arianna,
che non sono di Arianna, né sono greci,
di questi occhi che se fossero musica
sarebbero la musica di acqua degli oboi,
parlerò appena degli occhi del mio amore,
di questi occhi di un azzurro così azzurro
che sono proprio l’azzurro degli occhi di Arianna.»

Anche il mito di Roma esercita sul poeta una grande suggestione come nei soli cinque versi della poesia Roma (tratta da Escrita da terra del 1974):

«Era d’estate alla fine del pomeriggio,
come Adriano o Virgilio o Marco Aurelio
entravo a Roma per la via Appia
e per Antinoo e tutto l’amore della terra
giuro che ho visto la luce farsi pietra.»

Lo spirito mediterraneo (così caro al francese Camus e allo spagnolo Ortega y Gasset) è dovunque presente nei suoi versi. Proponiamo al lettore due liriche, Passeio Alegre e Rumori dell’estate, tratti rispettivamente da Rente a dizer (Vicino a dire) del 1992 e da Pequeno formato (Piccolo formato) del 1997:

«Sono arrivate tardi alla mia vita
le palme. A Marrakech ne vidi una
che Ulisse avrebbe comparato
a Nausicaa, ma solo
nel giardino del Passeio Alegre
ho cominciato ad amarle. Sono alte
come i marinai di Omero.
Davanti al mare sfidano i venti
venuti dall’est e dal sud,
dall’est e dall’ovest,
per piegarle alla cintura.
Invulnerabili – così nude.»

«Le cicale cantano
come d’inverno
arde la legna.
Un rumore puerile
e dolce di api
aggiunge la sete.
Quando il sole avvista
i fianchi del mare
si spoglia di corsa,
e danza danza danza.»

Non c’è alcuno iato nel poeta portoghese tra corpo e anima, tra uomo e mondo, tra interno ed esterno. Prendiamo ad esempio la lirica Sull’orlo del mare, tratta da A domani del 1956, dove la linea del viso si confonde col pensiero, col desiderio, col mare e col vento:



«Sull’orlo del mare,
nel rumore del vento,
dove è stata la linea
pura del tuo viso
o solo pensiero
(e abita, segreto,
intenso, solare,
tutto il mio desiderio)
lì coglierò
la rosa e la palma.
Dove la pietra è fiore,
dove il corpo è anima.»

L’eros, la solare sensualità, la palpitante e tangibile bellezza dei corpi, il desiderio travolgente sono cantati da de Andrade con versi di grande forza evocativa. Scrive la poetessa brasiliana Vera Lùcia de Oliveira, tracciando un profilo del poeta portoghese: «Poeta dell’amore, è stato definito più volte. Ed effettivamente l’Eros occupa una parte importante nella sua opera, un Eros spontaneo e solare. (…) Nella sua poesia il corpo, limpido ed apollineo, diventa quasi un’anima carnale: si cancella il dualismo caratteristico della nostra cultura cattolico-occidentale». Qua di seguito riportiamo Eros (da Mar de Setembro del 1961), alcuni versi da Ascolto il silenzio (da Ostinato rigore del 1964) e da Corpo abitato (da Oscuro dominio del 1971), “Tu sei dove lo sguardo comincia” (da Matera solar del 1980) e Corpo (da L’altro nome della terra del1988):



«Mai l’estate aveva indugiato
così sulle labbra
e sull’acqua
come potevamo morire,
così vicini
e nudi e innocenti?»

«Ascolto il silenzio: in aprile
i giorni sono
fragili, impazienti e amari;
i passi
minuti dei tuoi sedici anni
si perdono per le strade, ritornano
con resti di sole e pioggia
sulle scarpe,
invadono il mio dominio di sabbie
spente,
e tutto inizia ad essere uccello
o labbra, e vuole volare.
(…)
Un solo rumore di sangue
giovane:
sedici lune alte,
selvagge, innocenti e allegre,
ferocemente intenerite;
sedici puledri
bianchi sulla collina sopra le acque.
(…)
Ascolto un rumore: è solo silenzio.»

«Corpo su un orizzonte di acqua,
corpo aperto
alla lenta ubriachezza delle dita, corpo difeso
dal fulgore delle mele,
arreso di collina in collina,
corpo amorosamente inumidito
dal sole docile della lingua.
Corpo dal gusto di erba rasa
di segreto giardino,
corpo dove entro in casa,
corpo dove mi stendo
per suggere il silenzio,
sentire
il rumore delle spighe,
respirare
la dolcezza scurissima delle selve.
(…)»

«Tu sei dove lo sguardo comincia
a dolere, riconosco il pigro
rumore d’agosto, il carminio del mare.
Parlami delle cicale, di questo stile
di sabbia, i piedi scalzi,
il granello dell’aria.»

«Il mare – ogni volta che tocco
un corpo è il mare che sento
onda a onda
contro il palmo della mano.
Vespro è ora
così vicino che non posso più
perdermi in quella infaticabile
ondulazione.»


Terminiamo questa breve rassegna con una poesia dedicata alla madre morta, dove nella magnifica architettura del componimento gli elementi naturali (la pioggia, gli ulivi) si legano inestricabilmente alla tenerezza del ricordo:

«La pioggia, ancora la pioggia sugli ulivi.
Non so perché sia tornata oggi pomeriggio
se mia madre se ne è già andata via,
non viene più sulla veranda a vederla cadere,
non alza più gli occhi dal cucito
per chiedere: Senti?
Sento, mamma, è ancora la pioggia,
la pioggia sopra il tuo viso.»

NB: Tutte le poesie, salvo “È un posto nel sud”, sono tratte dall’antologia “Dal mare o da altra stella” (Bulzoni editore, 2006) tradotte e curate da Federico Bertolazzi

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Sandro Marano

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