Giornale di Bordo. Le mascherine di Palazzo Chigi e lo stile differente di Pinuccio Tatarella

Giuseppe Tatarella

Ma Tatarella non volle un Pinuccio Hospital

Question time alla Camera (ma è così difficile parlare in italiano?) con la risposta del governo alle interrogazioni delle opposizioni sul massiccio acquisto di materiale sanitario (mascherine, gel igienizzate, guanti e bombole di ossigeno, ma anche frigoriferi e defribillatori)  compiuto dalla presidenza del Consiglio nel febbraio scorso. Qualcuno parla, magari con una certa enfasi, di un Giuseppi Hospital. 

Il dibattito parlamentare segue i consueti scontati rituali, con il ministro per i Rapporti con il Parlamento che in assenza del primo ministro sciorina una lunga serie di dati e giustifica l’acquisto con l’esigenza di proteggere il personale degli uffici, anche in ossequio a una direttiva del ministero della Funzione pubblica.

Che il governo sia stato sollecito nel proteggere i propri dipendenti, oltre naturalmente ai suoi membri, è un fatto senz’altro apprezzabile; peccato solo che, come ha fatto notare nella replica il deputato Giovanni Donzelli, soltanto dopo 25 giorni sarebbe stato emanato il bando Consip per l’acquisto per gli ospedali di guanti, mascherine e altre forniture rese necessarie dall’emergenza Coronavirus. La salute dei grattacarte di Palazzo Chigi è venuta insomma prima di quella dei sanitari impegnati nella lotta contro il virus. Una lotta non indolore, se si considera che, secondo i dati di ieri, sono 121 i medici vittime della pandemia, per tacere degli infermieri e degli altri operatori della sanità.

Che una classe politica tenga a tutelare se stessa e la propria salute è un fatto naturale, che può trovare giustificazione nell’esigenza di non far sì che la pandemia decapiti i vertici del Paese. Vorrei ricordare però che vi sono stati politici che non hanno preteso privilegi di nessun genere, anche quando la loro salute era pesantemente compromessa. Uno di loro si chiamava Giuseppe Tatarella. Era stato ministro, vicepresidente del Consiglio, era il vero padre di Alleanza Nazionale, che infatti cominciò a declinare dopo la sua scomparsa. Aveva da tempo bisogno di un trapianto al fegato, ma volle aspettare il suo turno, che arrivò troppo tardi. Il suo cuore ormai stanco non resse e “Pinuccio” morì sotto i ferri. Il chirurgo che l’operò, Mauro Salizzoni, ex comunista passato a Rifondazione e poi ai Comunisti italiani di Cossutta, ne parlo con rispetto e una punta d’ammirazione, in un’intervista a “Repubblica”: “Nella sua posizione avrebbe potuto chiedere un trattamento di favore. E invece, mai una pressione, mai una telefonata, neppure dall’assessore alla Sanità che pur è di An. Anzi, il paziente ripeteva in continuazione, ‘mi raccomando dottore, quando mi tocca, mi tocca…’”.

Gli toccò l’8 febbraio 1999. Forse sarebbe morto lo stesso qualche mese o qualche anno prima; però morì bene. 

Il gioco del Tetris

Al Tetris non si torna

Dotta disputa fra medici e giuristi sulla liceità di controllare, coniugando geolocalizzazione dei cellulari e “caricamento” dei dati sanitari, il rispetto della quarantena da parte dei cittadini e anche, con un’apposita applicazione, di consentirci di verificare se chi sta camminando vicino a noi è portatore di contagio. I difensori del diritto alla riservatezza individuano in questa pratica, già diffusa nei paesi orientali, una minaccia; i medici scorgono invece in essa un prezioso strumento per prevenire contagi e anche per poter avviare con minori patemi d’animo la “fase due”. Nel dibattito affiorano varie posizioni intermedie, come quella di chi accetta il monitoraggio elettronico, ma a patto che tutti i dati vengano cancellati passata l’emergenza, o quella di chi constata rassegnato: “Tanto, i nostri dati sono già monitorati e utilizzati dalle multinazionali del web!”

Personalmente, credo che quanto proposto dal partito dei medici e dei ricercatori per l’emergenza Coronavirus non sia altro che la logica conclusione di un processo cominciato con gli esordi dell’informatica. Informatica, infatti, altro non significa che raccolta seriale di informazioni, anche personali, una raccolta alla quale è di fatto impossibile porre dei limiti. Ricordo la mia ribellione all’imposizione del codice fiscale, non perché io sia un evasore, ma semplicemente in quanto scorgevo in esso uno strumento di controllo suscettibile di un’imprevedibile catena di sviluppi. Forse è per questo rifiuto psicologico che non sono ancora riuscito a impararlo, mentre ancora ricordo a memoria la targa delle prime automobili comprate da mio padre, una seicento verdolina e una millecento beige.

Il boom dei primi personal computer coincise con l’anno 1984. Per l’appunto Nineteen Eighty-Four è anche il titolo del famoso romanzo di Orwell, per cui furono in molti a paventare nella diffusione dell’informatica lo strumento per un capillare controllo dei comportamenti e delle coscienze. Poi, il computer assunse il carattere rassicurante di evoluta macchina da scrivere, di munifico dispensatore di videogiochi con cui ingannare le ore trascorse in ufficio,  strizzando l’occhio alla componente ludico-infantile presente in ciascuno di noi. Il Tetris – inventato in Unione Sovietica proprio nel 1984 – è stata l’ultima grande realizzazione del socialismo reale. Dopo ancora, fu la volta delle icone, degli emoticon, del cazzeggio istituzionalizzato su face book. E il grande fratello orwelliano divenne per i più soltanto un reality.

In realtà, e fuori dal reality, l’informatica si è rivelata uno straordinario strumento per raccogliere gratis e con la nostra balorda connivenza informazioni di tutti i generi sulle nostre opinioni politiche, sui nostri consumi, sul nostro orientamento sessuale, sui nostri gusti gastronomici e sui nostri spostamenti. È tornata al suo significato etimologico di scienza delle informazioni. Quello che alle varie Ovra e Ghepeù era riuscito solo a caro prezzo, corrompendo o ricattando fior di scrittori, intellettuali, scienziati, ciascuno di noi lo regala ogni giorno accendendo un cellulare o un computer.

Per questo temo che l’opposizione alla geolocalizzazione e al trattamento dei dati sia una pur nobile battaglia di retroguardia: abbiamo già svenduto il nostro diritto alla riservatezza a chi ci vuole vendere libri, viaggi, saponette, fidanzate; come potremo rifiutarlo a chi promette di regalarci la sicurezza dal contagio? L’unica cosa che dovremmo pretendere è la rinuncia all’ipocrisia: a emergenza pandemia finita, i dati non saranno cancellati. Nel mondo dell’informatica molto si crea, ma nulla si distrugge. Anzi, si distrugge una sola cosa: quel poco che resta della nostra libertà.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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