Giornale di Bordo. Il Coronavirus non è colpa dell’uomo faustiano

L’uomo faustiano in perenne lotta e crisi di identità

Ma evitiamo i processi all’uomo faustiano

Dal diluvio universale in poi, di fronte a ogni calamità tende a riaffacciarsi nell’uomo la tentazione d’interpretare la tragedia che minaccia il mondo come una punizione per le colpe dell’umanità. In passato a gestire il sentimento di colpa era la Chiesa, che deteneva, se è lecito esprimersi così, il monopolio del rimorso. Terremoti, guerre, epidemie sono stati anche occasione di grandi conversioni presso una parte del popolo cristiano, il che non esclude che presso un’altra parte di esso – come testimoniano tutte le grandi narrazioni di pestilenze, dal Boccaccio al Manzoni – abbiano suscitato reazioni di segno opposto.

Ancora oggi molti cattolici integralisti insistono su questa tradizionale visione delle calamità naturali se non come castigo divino, come strumento per ricondurre sulla retta via un’umanità corrotta. Ho sempre dubitato di questa interpretazione e mi conforta che a pensarla come me, povero peccatore, fosse un cattolico di profonda fede, Piero Bargellini, sindaco di Firenze durante l’Alluvione. A una vecchina convinta che Dio avesse allagato la città per punire i fiorentini dei loro peccati Bargellini obiettò che i cattivi non abitano solo al pian terreno.

In un mondo ormai secolarizzato si assiste a una sorta di laicizzazione dei nostri complessi di colpa, con i progressi di un’industria del piagnisteo che tende a interpretare ogni disastro naturale come conseguenza delle ferite inflitte dall’uomo alla natura. C’è molto di religioso, di religionnaire, come avrebbe detto Vilfredo Pareto, in questa teoria dietro la quale si nasconde il rimorso, più o meno inconscio, da noi provato per il fatto di appartenere a quel mondo euro-occidentale che consuma (ma, per la verità, anche produce) la maggior parte dei beni del mondo. Qualcosa di molto simile al senso di colpa di chi, con una vincita alla lotteria o grazie a un’insperata eredità, si trova a godere di un patrimonio che sa di non essersi guadagnato con i suoi sacrifici.

Qualcosa di simile sta avvenendo con il Coronavirus, la cui diffusione a macchia d’olio sta facendo passare in secondo piano le controverse tematiche del riscaldamento globale, ma non i complessi di colpa per il nostro modello di sviluppo. L’idea che il Covid-19 possa rappresentare una sorta di vendetta della natura nei confronti di quello che Spengler chiamava “l’uomo faustiano” comincia a farsi largo nelle frange della galassia New Age, ma anche in alcuni ambienti eco-cattolici fra cui sembra farsi strada la convinzione che Sodoma e Gomorra siano state distrutte perché non facevano la raccolta differenziata. A parte le solite ipotesi sulla pandemia uscita da una provetta di laboratorio, c’è chi ipotizza un rapporto di causalità fra la diffusione della tecnologia informatica “5 giga” e la diffusione della pandemia.

Personalmente, sono dell’avviso che la diffusione dell’informatica e della telefonia senza fili non abbia contribuito al miglioramento della qualità della vita. È vero che oggi senza tablet, cellulari, computer non saremmo in grado di effettuare le più semplici operazioni, ma questo è anche dovuto all’atrofizzazione di determinate elementari attitudini intellettuali e anche morali: fare un calcolo a mente, consultare un orario ferroviario, scrivere un articolo senza aver bisogno di correggerlo all’infinito, rispettare luogo e orario di un appuntamento invece di spostarlo all’ultimo momento con una telefonata, sfogliare pazientemente un dizionario invece di affidarsi all’autocorrettore di Word. Ed è vero pure che, in base al principio di precauzione, prima di esporre l’umanità a un bombardamento senza precedenti di onde elettromagnetiche sarebbe stato il caso di effettuare ricerche molto più accurate. Altro è infatti dichiarare che non esistono prove che le onde elettromagnetiche non provochino tumori; altro è provare che non esistano.

Credo però che i cellulari, i computer, internet, attraverso cui si diffondono queste teorie, nel caso in questione non abbiano nulla a che vedere con la diffusione del Coronavirus, prodotto del combinato disposto di tribalismo e globalismo, di atavismi di una società rurale – i mercati di animali selvatici vivi – e deliri della modernità. Pericoli dai quali penso potrebbe difenderci più che il ritorno allo stato di natura un ripensamento della globalizzazione. So che questa convinzione mi alienerà molte simpatie, ma, dinanzi al mito del buon selvaggio che sembra fare breccia anche in certa teologia “amazzonica”, ho una reazione non dissimile a quella per cui Voltaire, terminata la lettura del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini, scrisse a Rousseau: “Ho letto, signore, il vostro nuovo libro contro il genere umano; ve ne ringrazio. Non era mai stato usato altrettanto spirito nel tentativo di renderci bestie. Leggendo la vostra opera viene voglia di camminare a quattro zampe. Tuttavia, avendo perso quest’abitudine da più di sessant’anni, mi è purtroppo impossibile riprenderla”.

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Enrico Nistri

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