Cultura. Pier Paolo Pasolini raccontato con la giusta distanza

Pasolini nel film di Abel Ferrara

Ci voleva la distanza di un americano, Barth David Schwartz, per dipingere il ritratto di Pier Paolo Pasolini, senza tralasciare – come nei quadri di Leonardo – lo sfondo, o il contesto come avrebbe detto Leonardo Sciascia, né perdersi i dettagli. È un librone quello scritto da Schwartz, “Pasolini Requiem” (ripubblicato da La nave di Teseo, uscito nel 1995 da Marsilio), quasi novecento pagine per provare a farci stare la disperata vitalità pasoliniana. Tutto sembra rispondere ad alcuni dei versi del poeta: “la morte non è / nel non poter comunicare / ma nel non poter più essere compresi”, Schwartz prova a far parlare tutti, a leggere ogni pagina, a spiegare ogni storia, incontro, fatto, riportando trame dei film e stralci di poesie, diari, romanzi, articoli e saggi, in una bio-antologia commentata, e ancora non basta, dovendo, da straniero, districarsi nella difficile realtà italiana prima della provincia friulana durante la seconda guerra mondiale e poi della Roma della ricostruzione, del boom economico, e del cambio antropologico e del paesaggio italiano. Schwartz ha metodo e razionalità, provando a ridare voce a Pasolini, a capire i suoi pensieri, per questo ne esce bene, ricostruisce gli ultimi giorni in Svezia prima d’essere ammazzato ad Ostia, e in mezzo passa in rassegna la vasta e contraddittoria opera, per poi raccontare Pino Pelosi, il testimone reticente, per la giustizia colpevole col concorso d’ignoti, l’ultima vittima del mondo pasoliniano, quello estremo e borgataro andato perduto. Se si esclude che Schwartz trascura l’ultimo libro, “Petrolio”, facendo prevalere l’ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, come appiglio finale, e che non può cogliere l’eredità borgatara lasciata al cinema di Claudio Caligari e alla sua magnifica intuizione dell’eroina pari al fascismo dei consumi, il resto della lettura è pressoché perfetto, un libro-guida totale: per gli italiani e soprattutto per gli stranieri, dove tutto viene raccontato con radici e seguendone la fioritura, con un maggiore approfondimento per il cinema, rispetto alle altre arti praticate da Pasolini, ma il risultato è un volume ineludibile per chi voglia capire che cosa è stato lo scrittore, poeta, regista, sceneggiatore, saggista, giornalista, polemista, attore, pittore, imputato, e uomo onnipresente per un ventennio della cultura italiana; e che dopo la sua morte è divenuto un fantasma e una icona, un aggettivo e un totem, e col tempo, pure monumento, superando gli scandali, addolcendosi e finendo per avere ragione su moltissime cose, guadagnandosi, poi, il titolo di profeta, che è quello peggiore perché permette l’evocazione facile, senza la comprensione, la riduzione a frasetta senza l’analisi approfondita, il poster senza i fotogrammi. E contro la semplificazione e il “non poter più essere compresi” o peggio l’essere fraintesi che lotta il libro di Schwartz: ricostruendo il carattere di Pasolini, di pari passo con la sua produzione dispersiva e onnicomprensiva, una fabbrica del pensiero e dell’opposizione, con una ricerca continua dello stupore e dell’innovazione; nei suoi cambi di linguaggio c’è l’inquietudine della sua impresa, l’approfondimento disperato e ossessivo di capire l’Italia e il mondo, gli estremi e gli esclusi, in un salto sempre più ampio, verso il domani. Schwartz – in un lavoro di anni, di scrittura e revisione e indagine – ha cercato gli amici, i testimoni e i luoghi, compiendo un reportage larghissimo, provando a connettere tesi e racconti lontani come quelli del pittore Giuseppe Zigania e quelli del cugino di Pasolini, Nico Naldini, quelli di Enzo Siciliano e Alberto Moravia, per citarne alcuni; come anche a ricostruire le amicizie e gli scontri – come quella con Elsa Morante, poi finita per la stroncatura de “La Storia” o quella con Italo Calvino, poi frainteso nell’ultima risposta, arrivata dopo la morte, però –; c’è spazio per l’intero mondo pasoliniano: dall’amato Ninetto Davoli ai fratelli Citti, al produttore Alfredo Bini, dalla sacerdotessa del culto pasoliniano, Laura Betti, alla Callas fino alla Mangano, vera icona della femminilità pasoliniana dopo la madre Susanna, tra il bianco pallore e l’algido carattere d‘aristocrazia in cattività. Schwartz intercetta – e bene – la potenza del pensiero di Pasolini, ha un controllo della sua opera e anche dei suoi maestri da Longhi a Pound a Gramsci, senza perdere di vista gli ammicchi al Vangelo, anzi, andando a pescare il film su San Paolo mai realizzato, divenuto una compagnia ossessiva, senza mai farsi pellicola, senza mai uscire dalle pagine. Alla fine, Schwartz, apparecchia la grande opera pasoliniana, ce la piazza sotto gli occhi, e anche se non lo dice è evidente che cinema – il lavoro sulle denunce subite da Pasolini e i processi ai quali viene sottoposto ci mostrano anche l’arretratezza e i tabù italiani come il suo attacco a questa, e dall’altra parte la sua enorme visione pittorica – e poesia, che collimano in una estetica sola, diventino la forza del passato che sopravvive ancora oggi e che sopravvivrà a lungo.

[uscito su IL MATTINO]

*“Pasolini Requiem” di Barth David Schwartz (ripubblicato da La nave di Teseo, uscito nel 1995 da Marsilio)

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Marco Ciriello

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