Coronavirus. E’ arrivato il 4 maggio ma non la normalità sotto i portici di Bologna

Italian sign "Closed" of the bar, closed in the case of quarantine of pandemic coronavirus covid-19

Iniziamo con una precisazione, meglio ancora due: la prima è che di seguito non si tratterà dello stravolgimento mondiale, della prospettiva Storica (la S maiuscola è voluta) che CoVid-19 avrà, del soft power o dell’asse del mondo che si sposta, non per il 5G, ma perché stanno cambiando gli equilibri di forza che da dopo la seconda guerra mondiale a oggi lo hanno sostenuto. Sappiamo che questo sta accadendo, lo sappiamo tutti ma non è quello che cambierà la quotidianità delle nostre vite, quando e se questa quarantena avrà fine; la seconda è che non è uno j’accuse, questo. Non si potrà dire, come è stato fatto in altre sedi, “se qualcuno ha una soluzione migliore me la dia” come se l’unica modalità concessa per rilevare un problema sia quella che offre già anche la soluzione. Questa è una narrazione. E una fotografia.

Oggiè il 4 maggio, la data che nell’immaginario di molti di noi era collegata alla libertà, al ritorno alla vita di sempre. Eppure non sarà così, cambierà molto poco e per alcune categorie ancora meno. Se ad alcuni verrà data la possibilità di riaprire, a certe attività è stato chiesto di tenere chiuso ancora fino al 18 maggio ad altre ancora fino al 1 giugno. E qui c’è già il primo scollamento dalla realtà, il primo giugno è un lunedì, peraltro di ponte, e giorno di turno di chiusura per molti di questi negozi. Si parla di tre mesi di chiusura forzata, quindi, perché queste stesse attività son quelle che han dovuto abbassare la saracinesca per prime. Senza una minima distinzione tra di loro, con una suddivisione per codici Ateco che è gelida quanto la lapidaria sentenza “la scienza fa la scienza” che è stata emessa da uno dei vari esponenti del fantomatico comitato tecnico scientifico qualche giorno fa. Boys will be boys, insomma, senza un minimo di pensiero critico in più di quello espresso dalla canzone. E la politica, dov’è in tutto questo? “La percezione è quella di essere stati lasciati a gestire tutto questo da soli.”

Me lo dice Caterina. La sua famiglia gestisce da decenni un ristorante pizzeria in centro a Bologna. “Si ha l’impressione che questo sia uno stato che è solo in condizione di chiedere e non di dare.” Le fa eco suo fratello, Lorenzo.

Si ha l’abitudine in Italia di trattare le piccole medie imprese alla stregua delle grandi multinazionali, come se fossero il male del capitale incarnato. Salvo poi chiedere a loro e ai loro proprietari di mettersi una mano sul cuore e anticipare una cassa integrazione che da marzo ancora non si è vista. “Due dipendenti sono venuti a chiederci una mano fuori dal negozio perché non sapevano dove altro andare.” Mi dice sempre Caterina. Nicola invece gestisce un bar dal 2018. “Io ho solo un aiuto, part-time” racconta. “e ora è molto arrabbiata con me perché è da marzo che non vede un soldo.”

Cosa stiamo realmente sacrificando, in questo momento, viene da chiedersi? Non è chiaramente solo la tenuta economica del paese che è in gioco e già anche quella è messa in discussione. “Avrei preferito non ricevere un’elemosina di 600 euro” mi dice Lollo, che ha un salone di parrucchieri storico e che ha fatto dell’esperienza del cliente la sua centralità. Avrebbe preferito una mano nel negoziare le sospensioni dei pagamenti dell’affitto e delle utenze, che lo stato mi garantisse che non avrei dovuto pagare tutti quegli arretrati alla riapertura. Così come Nicola mi definisce i 600 euro “un cerotto su una gamba di legno”. E Lena, che gestisce da sola un centro benessere, mi dice che lei anche se ne ha fatto richiesta subito a marzo, ancora li deve vedere.

Il sostegno economico quindi non c’è, non è chiaro se ci sarà, nonostante i bazooka o le potenze di fuoco che vengono schierate e che si rivelano, amaramente, più carri armati del Risiko o al più cavalli di Troia come i fantomatici finanziamenti di 25mila euro che ben lungi dall’essere a fondo perduto, molte banche ancora non emettono, quand’anche si riesca ad arrivare in fondo alla burocrazia necessaria per chiederle.

Che cosa stiamo, dunque chiedevo, sacrificando? Stiamo esaurendo fisicamente, economicamente e moralmente il tessuto connettivo del paese. La gente non va dal parrucchiere, al bar, dall’estetista per prendersi un caffè e basta. In questi luoghi si parla, ci si sfoga a volte con l’amico che ci accompagna, altre volte con il barista o l’estetista che abbiamo davanti. Ci sono delle volte che si va a prendere la pizza non perché voglio mangiare la pizza ma perché voglio farmi consigliare, voglio staccare dalla routine della mia casa e dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno ora. Non vado dal parrucchiere perché devo andare al Gran Gala del Met, ma perché ho bisogno di sentirmi bene con me stessa.

E che cosa succederà quando il 3 giugno, forse, potremo tornare? Molti negozi si interrogano addirittura se farlo o meno: le norme igieniche da adottare non sono chiare. Lollo mi dice “Ho speso mille euro in prodotti per la sanificazione e la faremo noi 3 volte al giorno. Se dovesse essere obbligatoria un’impresa esterna tanto varrebbe chiudere perché è tutto a carico del negoziante”. Nicola mi dice che se dovesse coinvolgere un’azienda esterna sarebbero 300 euro al giorno, tanto varrebbe non alzare la serranda. “Ma non è chiaro” dicono Caterina e Lorenzo. “I fornitori continuano a chiamare in negozio, quindi ci vogliono vendere roba che non serve?”

Perché nessuno qui vuole riaprire senza offrire la sicurezza ai propri clienti e nessuno ha la garanzia che anche quando la serranda verrà tirata su la gente avrà voglia di rientrare. Non è garantito nel momento della fantomatica riapertura che il registratore da scontrino elettronico (dal modico costo di 720 euro e resa obbligatorio da gennaio) riprenda a girare.

Cosa stiamo sacrificando qui? La nostra socialità, verrebbe da dire. Stiamo rinunciando non solo a uscire di casa se non per incontrare gli evanescenti congiunti. Stiamo chiedendo al nostro tessuto urbano e sociale di sgretolarsi, possibilmente in silenzio, perché ogni gemito emesso è percepito come un disturbo, come una critica, come una volontà di mettere in pericolo gli altri.

La scienza che fa la scienza procede con il metodo sperimentale e non ha la verità in tasca, soprattutto non può esprimersi sulla tenuta sociale e psicologica di un paese. La politica che fa la politica, quando prende decisioni dovrebbe invece farlo. Ma dovrebbe anche “veder discosto” come diceva Machiavelli, avrebbe dovuto sapere che cosa stava chiedendo quando ha fatto abbassare decine di migliaia di serrande. Non è dato sapere se qualcuno le domande se le sia fatte, di sicuro arranca nel trovare le risposte. Ma chiediamocelo noi, di nuovo: che cosa stiamo sacrificando qui e ora?

Runa Bignami

Runa Bignami su Barbadillo.it

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