“L’animale morente di Roth: amor fu, ossessione e possesso

Un classico universale da rileggere in queste giornate di clausura

Philip Roth

Da mesi siamo costretti nelle quattro claustrofobiche pareti della nostra casa, confinati nelle nostre città. L’unico modo per riuscire a evadere e viaggiare è usare la fantasia e il mezzo più congeniale per farlo è il libro. Potremmo trascorrere una giornata in compagnia di Rose Zimmer, in una delle sue ronde di quartiere, ne “I giardini dei dissidenti” di Jonathan Lethem (Bompiani); potremmo far compagnia a Limonov nel suo vagabondare in giro per il mondo (“Limonov” di Emmanuel Carrère, Adelphi); o innamorarci insieme a Pedro Salinas ne “La voce a te dovuta” (Einaudi). Con David Kepesh, protagonista de “L’animale morente” di Philip Roth, si può viaggiare attraverso l’America delle prime rivendicazioni femministe degli anni ’60 e la conquista sessuale, la Cuba di Fidel Castro. Si possono incontrare di sfuggita donne, amanti, mogli, amici e addirittura imbattersi in qualcuno come Kenny, il figlio di David, che spinge a fare riflessioni più importanti come sul rapporto padre-figlio. Sullo sfondo sempre lui, David, professore universitario di critica letteraria, divulgatore culturale, costantemente alla ricerca di libertà, una evasione dalle strette maglie della vita coniugale, che il senso comune dell’esistenza umana porta solitamente a non sciogliere, e promuove anzi una sorta di irreggimentazione.

Tutto questo viaggiare, questo andirivieni da un luogo a un altro, attraverso le parole del protagonista, ha come unico punto fermo il concetto di corporeità e della sua impossibilità di scindersi dall’essere. L’una necessita della presenza dell’altra. Kepesh, il “vecchio” professore, e Consuela Castillo, la giovane studentessa universitaria stregata dalla cultura, sono la perfetta espressione del binomio carne-spirito.
In poco più di cento pagine è quasi sempre David a parlare. È un monologo. Una confessione. Forse un tentativo di autoconvincimento del superamento, fisico e mentale, di una ossessione. Ma quale? Quella per l’amore per Consuela. Perché di amore si tratta. Lo stesso da cui è rifuggito per tutta una vita, abbandonandosi e godendo dei veri piaceri carnali di cui il suo matrimonio lo aveva privato. Tale ossessione è però legata anche al tempo che avanza inesorabile: da un lato il sesso e l’erotismo sono riaffermazione di sé, dall’altro appaiono anche come potentissima fuga dall’incubo sempre presente dell’invecchiamento e della morte.
Sin dalle prime pagine del libro ciò che forse colpisce di più è la capacità di Roth di (ri)creare dei veri e propri dipinti. Sì, perché è così che David descrive Consuela: attraverso l’arte di cui entrambi sono innamorati. Poco importa se il nome di qualche pittore, o scrittore, o musicista sembra non dir nulla o sia sconosciuto ai più. Roth arriva dritto al punto: dà forma alle parole che si materializzano davanti agli occhi di chi legge, creando un contatto quasi fisico con le cose narrate!
Il racconto di David (a chi è rivolto? Impossibile saperlo) è ben chiaro fin dal principio: tra le crepe di ciò che dovrebbe rendere l’uomo libero a detta del protagonista, e cioè il sesso e la fantasia erotica, si insinua una profonda e incontrollabile ossessione, da lui stesso confermata.
“Eppure era per questo (si chiedeva se lui la eccitasse davvero n.d.r.) che la paura di perderla e di vederla andare via con un altro non mi lasciava, per questo Consuela era sempre nei miei pensieri, per questo, con lei o lontano da lei, non mi sentivo mai sicuro di lei. Il lato ossessivo di tutta la faccenda era terribile. Quando sei stato sedotto da qualcosa, è bello non pensarci troppo e cullarsi nel piacere della seduzione. Ma io non avevo questo piacere; non facevo altro che pensare: pensare, preoccuparmi e… Sì, soffrire.” (p. 19)
“La gelosia. L’incertezza. La paura di perderla, mentre ero ancora sopra di lei.” (p. 21)
L’ossessione amorosa, in ogni sua forma, appare come topos letterario utilizzato di frequente. In alcuni casi, essa trae origine dalla vita privata dell’autore, come accade con Pirandello: P. scrisse a Marta Abba 560 lettere, a cui ella rispose solo in parte (238). In lei vedeva la donna angelo, la Laura di Petrarca. Questo amore un po’ stilnovista però, se pur macchiato dall’egoismo umano di P., non lo ritroviamo ne “L’animale morente”, o per esempio in “Lolita” di Nabokov (e anche in questo caso la sfumatura ossessiva segue altri sentieri). In entrambi i casi i protagonisti sono irrefutabilmente soggiogati dal desiderio carnale e dalla paura della morte.
“Con questa ragazza hai sentimentalizzato l’esperienza estetica: l’hai personalizzata, l’hai trasportata nella sfera dei sentimenti, e hai perduto il senso della separazione indispensabile del tuo godimento.” (p. 73) 
Sembra quindi che tutti, prima o poi, cedano all’amore!
Nella storia c’è una svolta, nel momento in cui sembra essersi tutto ristabilizzato, dopo la “scomparsa” di Consuela dalla vita di David, eccola “riapparire” in un preciso momento della sua esistenza, quando scopre di avere il cancro. E così David torna a farsi cullare, nella quotidianità dei suoi giorni, dalla sua “dolce” ossessione, continuando ad amare quel bellissimo corpo, che subirà, nel migliore dei casi, devastanti cambiamenti.
L’animale morente è Consuela, è David, ma anche la società descritta da Roth (l’arco temporale che abbraccia l’intera narrazione va dagli ’50 del secolo scorso, alla fine dello stesso). E adesso, noi che cosa siamo? E i concetti di libertà e ossessione appaiono i medesimi di David, nella nostra attuale lotta contro un avversario invisibile? Cosa diventa di vitale importanza oggi? Siamo in grado di superare le nostre ossessioni e rimodellare la nostra idea di libertà, coscientemente?
*L’animale morente di Philip Roth (pp. 114, euro 13, Einaudi)
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Silvia Savini

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