Diego più forte anche in Europa

La scelta di Giuseppe Del Ninno: Maradona sempre decisivo ovunque, Pelé fortissimo ma circondato di campioni

Diego Armando Maradona
Diego Armando Maradona

 

Nel paese delle tifoserie contrapposte di Coppi e Bartali, della Loren e della Lollo, di Peppone e don Camillo, poteva mancare un confronto fra Pelè e Maradona? No, non poteva mancare, e Barbadillo non si è sottratto al gioco. Dunque, “Maradona era meglio ‘e Pelè”?, come intonavano i tifosi partenopei? Difficile mostrarsi equanimi per chi, come me, non ha mai fatto mistero della propria appartenenza calcistica; tuttavia, cercherò di giocare “pulito”, di ponderare, soppesare, illustrare – beninteso, in estrema sintesi – punti di forza e punti di debolezza dei due.

 

Due premesse. La prima: si parla unicamente dell’aspetto sportivo, mettendo fra parentesi le vite private dei due; la seconda: il paragone nasce un po’ zoppo, in quanto i protagonisti si sono affermati in due epoche, in due generazioni, in due mondi tanto diversi fra loro che il confronto non può avere alcuna pretesa di fondatezza “tecnica”.

 

Maradona è meglio ‘e Pelé

A favore di Diego, pesa sulla bilancia il fatto che ha conosciuto il calcio europeo, e italiano in particolare; ha avuto a che fare con difese e accorgimenti tattici decisamente ignoti in Brasile; Pelè conobbe solo l’eleganza, la classe, lo stile felpato dei difensori carioca (trascuro la parte finale della sua carriera, quella nordamericana, ininfluente sulla sua fama). Certo, non bastarono un Burgnich e un Rosato per arginare lo strapotere tecnico – e anche atletico – di Edson Arantes, nella finale mondiale di Città del Messico, ma ricordo anche un’amichevole Italia-Brasile in cui Giovanni Trapattoni non fece toccare palla al nostro…

 

Ancora: accanto al Maradona della sua Nazionale, ma anche nel Napoli degli scudetti, giocarono quattro/cinque ottimi calciatori, mentre gli altri erano poco più che buoni professionisti; Pelè invece ebbe compagni altri dieci fenomeni fin dal suo esordio in Svezia, nei mondiali vinti nel 1958 (da Dialma Santos a Vavà, da Gilmar a Zagalo e così via) e, sempre in nazionale, in quelli vinti contro di noi in Messico (da Carlos Alberto a Tostao, da Jairzinho a Gerson a Rivelino). Così, Maradona fu decisivo in più di un’occasione: basti pensare agli scudetti epocali (irripetibili?) del Napoli; altrettanto non si può dire di Pelè. A proposito di Dieguito, mi limito a rievocare una delle sue partite meno brillanti: Udinese-Napoli del campionato 1989-90. Era appena tornato dall’Argentina, e giocò piuttosto svagato; il Napoli perdeva due a zero a dieci minuti dalla fine, e lui prima segnò un rigore, poi fece segnare, nel recupero, il gol del pareggio a Corradini… Come dire: bastavano due suoi tocchi, un’invenzione, e cambiava il risultato.

 

L’importanza della tv (a colori)

Ma c’è un’altra differenza fra i due. Pelè appartiene all’epoca della televisione sporadica e in bianco e nero: le sue apparizioni – memorabile il suo esordio in Svezia, quando concorse alla vittoria del Brasile sulla squadra di casa per 5 a 2 – avevano del mitologico, del favolistico; i giocatori sembravano danzatori su quei prati grigi. “El Pibe de oro” invece potevamo seguirlo sugli spalti degli stadi o, al peggio, nelle sintesi di 90° minuto e della Domenica sportiva, a colori; insomma, eravamo già nell’epoca dei mass media, e il calcio si razionalizzava in geometrie e severa preparazione atletica, nel segno di un livellamento generale (pochi fuoriclasse, ma la gran massa non era più fatta di “scarponi” o di calciatori con la pancia, come, almeno in Italia – ma non solo – si vedevano ai tempi di Maradona e soprattutto poco prima che “lui” sbarcasse da noi).

 

Certo, entrambi possedevano sopraffine virtù innate, che li portavano a compiere gesti memorabili per chi ha avuto la fortuna di vederli e rivederli: di Pelè, ricordo una serpentina conclusa con una serie di finte di corpo che sbilanciarono il povero portiere dell’Uruguay e, naturalmente, la magia del colpo di testa contro i nostri, lui librato a mezz’aria in un tempo sospeso, prima che la palla varcasse la linea di porta di Albertosi, all’Atzeca. Di Maradona, oltre all’epos della sua cavalcata del 1986 contro l’Inghilterra, sconfitta con due suoi gol che in qualche modo “vendicarono” l’umiliazione bellica subita dall’Argentina nella guerra delle Falkland del 1982, ricordo la rete del pareggio a Roma contro la Lazio, nel suo primo campionato italiano: un colpo di biliardo, al quale assistei all’Olimpico con mia moglie e i miei figli.

 

Tralascio ogni indagine, ogni interpretazione sul “fenomeno Maradona” come avatar di Masaniello: mi limito a ricordare che mai, nella storia del calcio, si è determinato un vero e proprio culto nei confronti di un protagonista degli stadi; un culto che a Napoli dura ancor oggi, dopo decenni, e che ha precedenti forse soltanto ad Olimpia; un culto che dovrebbe decidere questa contesa virtuale con “la perla nera”.

 

 

 

 

 

 

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