L’allenatore nel pallone e l’abbaglio del “Guardian”: Banfi e Aristoteles non sono buonisti

Il quotidiano inglese elogia la pellicola cult ma non coglie il senso della commedia italiana del tempo

Aristoteles e Canà

Oronzo Canà

“L’allenatore nel pallone” come commedia anti-razzista? Una forzatura. Una interpretazione figlia delle storture politicamente corrette del mondo culturale anglosassone ha spinto il Guardian a far diventare la pellicola cult di Lino Banfi – nelle vesti dell’indimenticabile Oronzo Canà, surreale tecnico di serie A – un manifesto per l’integrazione. Questa lettura è posticcia e decontestualizza la commedia italiana di cui l’attore pugliese fu una vera icona.

La commedia alla Banfi

I film di Banfi in quel periodo erano racconti divertenti dei vizi italiani e del costume di un popolo: corna, tradimenti, superstizioni, lascivia senza troppa malizia. Il corpo femminile è parte della narrazione, senza ridurlo a merce, ma solo come moltiplicatore del desiderio che nasceva dell’ammirarne la bellezza. Da qui l’ascesa di attrici come Gloria Guida, Edwige Fenech, la mitologica Nadia Cassini… Basta rivedere anche solo spezzoni di quei film per capire che erano esattamente agli antipodi dei precetti del #Meetoo. E non c’era alcun machismo di fondo: spesso e volentieri le protagoniste femminili avevano il pallino della seduzione in mano e avevano il potere di raggirare il povero Banfi, ripercorrendo i binari del matriarcato, soprattutto meridionale, nel quale era la donna ad aver grande influenza nelle dinamiche affettive o familiari. La bellezza femminile rientrava in un contesto estetico e giocoso, fortemente dionisiaco. L’opposto della visione etica anglosassone (di cui il movimento internazionale #Metoo è una filiazione). E la nostra critica al politicamente corretto – come è ovvio – ci posiziona sul fronte degli irregolari che amano le donne e considerano l’amore solo come “amore cortese”, ostili a ogni forma di violenza o sopraffazione delle Muse delle nostre giornate…

Il caso Aristoteles

Considerare il calciatore brasiliano (nel film), Aristoteles, un esempio di integrazione riuscita al tempo del populismo e della critica all’immigrazione selvaggia è una semplice sciocchezza. Nei primi anni ottanta i presidenti dei club di A italiani furono presi da un certo esotismo che li mosse nell’acquisto dei calciatori stranieri. Arrivarono fuoriclasse come Zico o Platini, ma anche veri bidoni come Pedrinho e Luvanor a Catania, Rideout del Bari, Zahoui all’Ascoli. La satira del regista Sergio Martino irride l’esterofilia dei patron italiani, che pur di dare ai tifosi dei calciatori dai cognomi insoliti spesso ingaggiavano atleti senza nessun talento.

Aristoteles, poi, era uno svizzero di padre nigeriano, integrato nel paese dei 26 Cantoni: aveva un diploma in gestione aziendale e divenne presto un modello per riviste come Gq e per maison come Dior… Insomma non è sovrapponibile ad alcune narrazione strappalacrime che ora vanno di moda… Provò anche la carriera da attore,studiò negli Usa, ebbe una chance di girare con la Wertmuller (il film non vide mai luce), ma lo zenit della sua carriera fu con “L’allenatore nel pallone” e con il cult degli Squallor “Arrapaho”, un film che farebbe inorridire Asia Argento e le altre damigelle chic del post-femminismo…

Banfi, intervistato da Maria Volpe, sul Corriere della Sera, si gode l’inattesa popolarità che arriva dal Regno Unito senza però aver letto l’articolo del Guardian («E’ stato come ricevere un premio oggi. Mi sento di dire grazie di tutto cuore a questa giornalista, Nicky Bandini, che l’ha scritto. Ma non so l’inglese. Spero le arrivino i miei ringraziamenti»). E esagera quando addebita al calcio italiano degli anni ottanta venature razziste inconsistenti: allora le curve impazzivano per i calciatori stranieri “a prescindere”. Altro che “prima gli italiani”. Presidenti e tifoserie erano sempre alla ricerca di un rinforzo dall’estero, correndo il rischio di arrivare anche a ingaggi pittoreschi…

Giù le mani dalla commedia italiana

La commedia italiana degli anni settanta e ottanta aveva una dimensione localistica ma anche una reale vocazione al disimpegno e al racconto dell’immaginario oltre le ideologie, in un paese che veniva dai tetri anni di piombo. Riconvertire queste opere alle ragioni del politicamente corretto, del pro-immigrazione, è una deriva surreale di cui chi ha amato quelle pellicole – conoscendo a memoria le battute di Banfi e compagni – sente solo il desiderio di fare a meno…

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Gerardo Adami

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