Giornale di Bordo. La parata del 2 giugno non si farà. Meglio così, o no?

L'anno scorso il presidente Fico ha travisato la giornata dedicandola "a rom e sinti". L'Italia dovrebbe riconoscersi nel 4 novembre

2 giugno 2019, parà della Folgore a Roma in marcia

La parata del 2 giugno non si farà, per ovvi motivi precauzionali. Se è bastato il passaggio su molte città italiane della pattuglia delle Frecce Tricolori per provocare allarmanti assembramenti, figuriamoci che cosa sarebbe successo lungo i Fori Imperiali.
Debbo confessare però che non mi dispiace. Non perché io sia un antimilitarista, anche se da buon toscano mi piace scherzare sui militari come su tutto, a partire da me stesso. Ma perché ho un troppo alto senso del prestigio delle Forze Armate per riconoscermi in una manifestazione che di militare conserva ben poco, e in cui accanto a reparti depositari di antiche e gloriose tradizioni sfilano magari obiettori di coscienza “pentiti” divenuti ufficiali dei vigili urbani.
Non avverto la mancanza di una parata liofilizzata come quella dello scorso anno, che il presidente della Camera Fico dedicò a “rom, sinti e migranti” e l’allora ministra della Difesa consacrò al tema dell’inclusione, come se compito primario e “sacro dovere” delle Forze Armate non fosse difendere la Patria escludendo dal territorio nazionale chi tenta di penetrarvi abusivamente. Non mi sarebbe piaciuto trovarmi dinanzi alla replica di quella parata love&peace, che accentuò il solco fra Salvini e i 5stelle e non sarebbe dispiaciuta agli hippy che negli anni Sessanta volevano mettere fiori nei cannoni, forse perché non avevano palle. È pur vero che dal pubblico gli applausi più sentiti scattano quando sfilano i reparti “ginnici e bestiali”, depositari di un passato glorioso, ma che pena vedere parà, lagunari, incursori mescolati ai boy scout del volontariato.

Ricorrenza poco inclusiva

C’è comunque un altro motivo per cui non avverto molto la mancanza di una parata sempre meno militare: è la data. Fra le tre grandi feste nazionali – il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre – quella che celebra l’anniversario del referendum istituzionale è la meno inclusiva, perché quel referendum vide il corpo elettorale italiano diviso in due, perché l’alea del sospetto accompagnò la proclamazione dei risultati, perché la devozione al re rimase a lungo viva, tanto che negli anni ’50 molte importanti città del Sud vennero governate da amministrazioni in cui svolgevano un ruolo egemone partiti che facevano appello al sentimento monarchico, perché lo stesso primo capo dello Stato era di sentimenti filosabaudi. Lo stesso 25 aprile, se non fosse per l’uso strumentale che ne è stato fatto, è una festa nazionale più inclusiva. Se il neofascismo è stato un fenomeno politico dal limitato peso elettorale, specie da Firenze in su, dove aveva infierito la guerra civile, un italiano su due nel ’46 votò per la monarchia (e forse a far pendere la bilancia dalla parte della Repubblica fu il voto dei “repubblichini” e delle loro famiglie, fornito dal latitante Pino Romualdi in cambio dell’amnistia, nonché l’opera di delegittimazione della dinastia sabauda e del principe ereditario operata dopo l’8 settembre a Salò e dintorni).

Pino Romualdi, esponente di punta del fascismo repubblicano, poi tra i leader del Msi

Sia ben chiaro: non mi pongo la questione istituzionale e non voglio nemmeno sollevare ancora una volta l’interrogativo su quanto le “calcolatrici di Romita” abbiano influito sui risultati. Nemmeno i referendum che portarono all’unità d’Italia furono immuni da brogli, basta pensare allo sdegno dell’organista Ciccio Tumeo nel Gattopardo per rendersene conto, o ricordare la minaccia con cui i fattori del barone Ricasoli, grande viticultore, portavano inquadrati i mezzadri a votare per l’annessione del Granducato di Toscana al Regno d’Italia: chi non vota non pota. Non voglio evocare nemmeno i morti di via Medina, popolani partenopei (il più giovane aveva quattordici anni, gli altri poco di più) falciati dai mitra di una polizia infiltrata da elementi comunisti, perché protestavano contro la sede del Pci che, a risultati non ancora proclamati, aveva esposto il Tricolore senza lo stemma sabaudo.
Ho giurato 44 anni fa come militare la fedeltà “alla Repubblica italiana ed al suo Capo”, e tanto mi basta. Ma per me la vera festa nazionale che meriterebbe una parata è quella del 4 novembre, ricorrenza di una guerra sanguinosa ma gloriosa, che ha portato a compimento la nostra unità nazionale non solo dal punto di vista geografico, ma morale. E che è stata la sola, all’epoca del governo di solidarietà nazionale, ad essere di fatto abolita. Seicentomila caduti agli occhi dei nostri politici contavano meno di qualche scheda nulla.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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