Giornale di Bordo. Perché non possiamo non amare Ungaretti (e non solo)

La forza metapolitica di un poeta - legato a Mussolini - la cui grandezza è legata alle opere dedicate al primo conflitto mondiale

Giuseppe Ungaretti

Avrei preferito non parlare del cinquantenario della morte di Giuseppe Ungaretti, perché rifuggo dalla strumentalità degli anniversari. Due motivi mi inducono a farlo, sia pure un po’ in ritardo (i quotidiani invece hanno il vizio di celebrare le ricorrenze in anticipo: la commemoratio praecox è una delle disfunzioni più diffuse nelle redazioni culturali).

Il primo è che questo cinquantenario è passato decisamente sotto tono, e che alcune commemorazioni piuttosto che parlare di Ungaretti hanno parlato – sottile perfidia – dei motivi per cui il poeta del Porto sepolto è stato dimenticato. L’altro – come si conviene a un diario, sia pure di bordo – è legato a un ricordo personale. Il 2 giugno di mezzo secolo fa mi trovavo con i miei genitori a pranzare nel giardino della mia casa di Viareggio, sotto un pitosforo, lo stesso davanti a cui scrivo queste note. Stavamo finendo di mangiare l’insalata quando da una radiolina a transistor apprendemmo la notizia della morte di Giuseppe Ungaretti. Il lettore del radiogiornale informava che il poeta era morto la notte precedente, nell’abitazione di una funzionaria della casa editrice Mondadori, curatrice, aggiunse pudicamente, della sua opera.

“Come minimo avrà voluto vederla nuda” fu il commento di mio padre, che lo conosceva di fama e non solo dai pettegolezzi dei rotocalchi. Sua madre, come la madre di Ungaretti, era di origine lucchese, suo padre, come il padre di Ungaretti, apparteneva a quella categoria di nostri connazionali che fra Ottocento e Novecento avevano cercato fortuna in Egitto, e nella piccola comunità dei “talianìn” del Cairo o di Alessandria le voci correvano.

A distanza di cinquant’anni, ho scoperto che mio padre aveva visto giusto. Con la funzionaria della Mondadori, la quarantenne Nella Mirone, Ungaretti aveva una relazione, una delle tante con donne molto più giovani di lui che aveva intessuto negli ultimi anni, anche se credo che fosse troppo prostrato dalla broncopolmonite contratta durante un viaggio negli Stati Uniti per pensare a certe cose.

Quella lontana giornata di giugno avevo diciassette anni e frequentavo la seconda liceo. Per me il nome di Ungaretti era legato ad alcune letture ginnasiali e al ricordo delle letture omeriche, parodiate poi da Alighiero Noschese, con cui sbuffando come una vaporiera il poeta precedeva ogni puntata del memorabile sceneggiato televisivo dell’Odissea, con Irene Papas nel ruolo di Penelope. Solo l’anno dopo, preparando la maturità, avrei studiato più compiutamente la sua opera. Quel commento di mio padre, naturalmente, me lo aveva reso più simpatico.

Gli storici della letteratura e soprattutto i compilatori di manuali scolastici hanno sempre preferito le terne. A quell’epoca la triade Ungaretti, Montale, Quasimodo faceva da pendant alla precedenti triadi Carducci, Pascoli, D’Annunzio, o addirittura Foscolo, Manzoni, Leopardi, per tacere dell’aureo trittico Dante, Petrarca, Boccaccio. Saba era in una posizione marginale, per la sua omosessualità, così come in seguito è stato sovrastimato per lo stesso motivo (nell’un caso come nell’altro, si è trattato di un errore). Cardarelli era presente nelle antologie, ma in una posizione di secondo rango, anche per il suo pessimo carattere, e invece poesie come “Cimiteri liguri” o “Autunno” sono forse fra le più perfette della nostra letteratura novecentesca. In realtà, anche all’interno della terna vincente si stava assistendo a un regolamento di conti. Quasimodo scontava l’invidia dei letterati per il Nobel forse troppo generosamente elargitogli, e Ungaretti era incalzato dalla crescente fama di Montale, che dopo avere ottenuto il laticlavio a vita vedeva schiudersi anche lui la via di Stoccolma, proprio mentre scriveva le sue peggiori poesie (Satura è illeggibile: più filosofia che lirica). Nel liceo “Dante” di Firenze, il più conservatore della città, le gerarchie letterarie erano tuttavia rimaste quelle consolidate qualche decennio prima e Ungaretti era ancora lontano dall’essere detronizzato.

Il ridimensionamento del poeta

Ma fu una detronizzazione giusta? E da che cosa fu motivata? Personalmente, credo che sul ridimensionamento di Ungaretti abbiano influito due fattori, uno di indole fisiologica, l’altro patologica. Fisiologiche sono la rivolta dei giovani nei confronti dei padri fondatori, l’impazienza per i valori consolidati e anche l’affievolirsi delle capacità creative che è lo scotto pagato da molti maestri alla longevità. Il fattore patologico è di natura politica: Ungaretti fu dichiaratamente fascista, amico personale di Mussolini, che scrisse la prefazione – per altro un po’ d’occasione – a una delle sue prime opere, Il Porto Sepolto; fu collaboratore del “Popolo d’Italia”, accademico d’Italia, nominato professore di letteratura moderna e contemporanea “per chiara fama” (anzi, come si celiava all’epoca, “per chiara fame”) all’università di Roma. Nel 1944 fu sottoposto a un lungo e umiliante processo di epurazione che si protrasse per tre anni e da cui uscì indenne da un punto di vista giuridico ma non psicologico solo grazie all’intercessione del suo ex alunno Leone Piccioni, figlio di un esponente democristiano molto influente prima di vedere la sua carriera politica ingiustamente interrotta dagli schizzi di fango del caso Montesi. Anche Quasimodo aveva collaborato col fascismo, aveva scritto sulla rivista “Primato” di Bottai, era stato nominato pure lui per chiara fama/e professore al Conservatorio di Milano, ma nel dopoguerra era stato “redento” dall’iscrizione al partito comunista e da alcune liriche sulla Resistenza; il che non toglie nulla ai suoi meriti di grande interprete dei lirici greci, di ultimo grande ventriloquo di Mimnermo e di Alceo.

La forza metapolitica

In realtà, la grandezza di Ungaretti è di carattere metapolitico. Se il poeta è davvero, come voleva Pascoli, un “fanciullino”, il suo merito lirico (e magari la sua colpa politica) fu di avere conservato, nei suoi stupori, nelle sue ingenuità, nelle sue fragilità, perfino nelle sue bizze l’ingenuo egocentrismo di un bambino fino a un’inoltrata quanto non rassegnata vecchiaia.

Senza togliere nulla al “Dolore” e ad altre raccolte, in cui egli, padre nobile del verso libero italiano, riscoprì il settenario e l’endecasillabo, la grandezza di Ungaretti è legata alle sue poesie dedicate al primo conflitto mondiale. Poesie che vengono presentate nelle antologie come testimonianza della crudeltà della guerra, e certo lo sono, ma sono anche l’opera di un interventista intervenuto, che non rinnegò mai la sua scelta, altrimenti difficilmente avrebbe aderito al fascismo. Ungaretti fu uno strano soldato, completamente privo di quella che nelle note caratteristiche viene classificata “attitudine militare”. Scalcagnato nella sua uniforme di fantaccino già prima di partire per il fronte, tanto che Soffici temeva per lui, quando l’incontrò a Firenze, il passaggio di una ronda, fece la guerra da soldato semplice non per mancanza di titoli di studio (aveva il diploma di ragioniere, che bastava e avanzava per avere i gradi), ma perché espulso dal corso allievi ufficiali per scarsa attitudine al comando. Una delle sue poesie più celebri, non solo per la sua brevità, “M’illumino d’immenso”, la scrisse – come mi raccontò il grande critico d’arte Corrado Marsan, che l’aveva frequentato da giovanissimo – dopo una notte di pioggia passata di guardia, quando vide accendersi i colori dell’alba dalla feritoia della garitta (e si era appena preso un tremendo “cazziatone” dal capitano d’ispezione che l’aveva sorpreso a fumare, correndo il rischio di essere preso di mira da un cecchino). Come capitò a tanti interventisti, a un certo punto dinanzi alle durezze della vita di trincea, “scoppiò”, come si diceva in Italia, o prese il “cafard”, come dicono i francesi; lo rivela il suo carteggio con Soffici, pubblicato nei primi anni ’80 dalla Sansoni, in cui supplicava un trasferimento dall’amico, ufficiale di complemento ben introdotto negli alti comandi; ma poi fece sino all’ultimo il suo dovere, sul fronte italiano e anche, per un breve periodo, su quello francese.

Nel rapporto con la politica fu entrante, a volte petulante. Ma quello che chiese non fu tanto per sé, quanto la sua poesia. Quest’uomo incerto, distratto (non era infrequente vederlo uscire con due calzini di colore diverso), insicuro, aveva una grande certezza: il valore della propria opera. Questo lo preserva dall’accusa di opportunismo, sia in epoca fascista – quando fece anche propaganda di regime, ma assai meno di altri – sia nel dopoguerra, quando scrisse una (brutta) poesia sui partigiani. Non chiedeva per sé ma per la sua poesia, per avere il tempo di coltivarla, come un agricoltore chiede contributi al consorzio di bonifica (il paragone non è mio, ma suo). E non bisogna dimenticare che la cattedra per chiara fama a Roma e il seggio all’Accademia d’Italia gli furono conferiti nel 1942, dopo che tornò nudo e bruco dal Brasile, dove avrebbe potuto vivere lontano dai pericoli della guerra ed era già titolare di una cattedra universitaria, per condividere le sofferenze e i destini della sua Patria.

Le lettere a Leone Piccioni

C’è, è vero, qualcosa di imbarazzante, ma al tempo stesso di commovente, nelle lettere che Ungaretti scriveva a Leone Piccioni perché intercedesse col padre per salvarlo dall’epurazione. Ma è un imbarazzo che si ritorce contro coloro che, per gretto spirito di vendetta e sordida invidia, misero quell’uomo prossimo alla sessantina a piatire l’intercessione di un suo ex allievo ventenne per avere quello che, anche solo per le sue prime poesie, gli sarebbe spettato di diritto. Perché, sia detto sine ira ac studio, una lirica come I fiumi vale tutte le assonanze e consonanze, tutti i correlativi oggettivi degli Ossi di seppia. L’aspetto più triste della questione fu che a Ungaretti venne rinfacciata persino una lirica, Poeti di Oltre Oceano io vi dico, in cui esprimeva il suo sdegno per i bombardamenti statunitensi che avevano coinvolto anche il cimitero del Verano. Ungaretti fu accusato dalla commissione per l’epurazione di aver dato “appoggio alla campagna fascista mista di pietismo e di odio contro le azioni dell’arma aerea Americana impegnata – a dire del poeta – in uno ‘sterminio folle’ e si invoca da Dio ‘spazio e pane esaudendo giuste speranze’”. Se si osserva il servilismo di quella A maiuscola in spregio alla grammatica e si pensa che l’espressione “pietismo” venne largamente usata in senso dispregiativo dopo le leggi razziali per bollare chi manifestava compassione per la sorte degli ebrei, è difficile non constatare quanto del peggiore fascismo sia trasmigrato nell’antifascismo degli epuratori. Di mezzo c’era un giornalista che durante il regime aveva pubblicato un compendio encomiastico delle realizzazioni del fascismo salvo convertirsi al più livoroso antifascismo, e che merita di essere ricordato solo con la storpiatura del suo nome che faceva Giannini sull’“Uomo qualunque”: Luigi Servitorelli.

Ungaretti non ebbe il coraggio di ripubblicare quella poesia nelle successive raccolte, coraggio che ebbe invece Cardarelli quando ripropose “Camicia nera” anche nelle edizioni postbelliche delle sue liriche. Ma questo era l’uomo, con le sue fragilità e le sue contraddizioni che a cinquant’anni dalla morte lo fanno apparire ancora più debole, ma anche più umano. L’uomo che proprio negli anni ’60, in una lettera all’amico fraterno Jean Paulhan, scriveva quella che forse è stata la sua ultima grande poesia: “Ah Mussolini. Certamente l’ho amato tanto…”

Anche noi l’abbiamo amato tanto. Ungaretti, naturalmente…

Pochi mesi dopo lo scambio di lettere con Piccioni a proposito della prefazione di Mussolini, il poeta ebbe un lungo colloquio sul ’68 con alcuni studenti universitari. Ad un certo punto, uno studente, Carlo, gli chiese: «Quando lei era professore, chi c’era al governo? Era il 1942, no?». Disarmante la risposta di Ungaretti: «C’era … non so chi c’era al governo …» (I giovani e la violenza, «Playmen», dicembre 1969). Eppure, in una lettera degli anni Sessanta all’amico Jean Paulhan, scriveva Ungaretti: «Ah Mussolini. Certamente l’ho amato tanto …» (Correspondance Jean Paulhan – Giuseppe Ungaretti (1921-1968), Gallimard, Paris 1989, p. 550 e Saggi e Interventi, Mondadori, Milano 1974, p. 911).

«(…) La Commissione non sembra aver rilevato importanza di vari scritti del prof. Ungaretti (…): c) la poesia “Poeti di oltre Oceano vi dico” di vittoria (…)» (Ricorso dell’Alto Commissariato Aggiunto per l’epurazione, 2 gennaio 1945, Archivio centrale dello Stato).

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Enrico Nistri

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