I discorsi della rivoluzione. La marcia su Roma di Mussolini tra politica e connessione con il popolo

Il nuovo volume per Eclettica curato da Fernando Massino Adonia

Marcia su Roma di Balla


“I discorsi della Rivoluzione” di Benito Mussolini, è il nuovo volume di  documenti e ricerca storica a cura di Fernando M. Adonia – firma del nostro magazine -, con una saggio di Angelo Capuano, edito da Eclettica. Barbadillo ha chiesto al curatore di presentare l’opera.

Fernando Massimo Adonia, quale filo rosso per rileggere a distanza di quasi cent’anni i Discorsi della Rivoluzione di Mussolini?

«Partiamo dal titolo, dalla parola rivoluzione. Benito Mussolini e i suoi volevano farla davvero, volevano dare una spallata al sistema liberale e ridefinire gli assetti del regime sabaudo pur mantenendo tatticamente i membri di Casa Savoia in sella al Quirinale. Non sta a noi decidere se in ultimo quella fascista sia stata una rivoluzione, un colpo di Stato o altro. Quello che noi vediamo, a partire da questi scritti, è che i fascisti avessero un progetto più che ambizioso, irrevocabile, tanto da essere disposti a perdere la vita per esso».

Da dove parte questa valutazione?

«Il problema sta tutto nel racconto ufficiale della Marcia su Roma. Un evento spesso ridotto a sola operetta o a vicenda limitata alla sola piazza capitolina. Non fu così, le cronache più attente ci raccontano di un’iniziativa che vide squadristi in azione dal Nord al Sud del Paese. E non solo…»

Non solo, cosa?

«La Marcia su Roma andrebbe raccontata a partire dai fatti di agosto del 1922, quando gli squadristi si sollevano contro lo “sciopero legalitario” indetto dai sindacati antifascisti. Da quel momento in poi, stando all’interpretazione proposta dallo stesso Mussolini, qualche anno dopo, e da noi ripubblicata in appendice, ha il via l’insurrezione delle camicie nere. Insurrezione che si conclude nel racconto epico romano. Sorvolando su quei tre mesi la comprensione dei fatti di ottobre è mutila».

Quali volumi storici consentono di inquadrarli nel contesto del tempo?

«Beh, se consente la battuta, le opere di Renzo De Felice ed Emilio Gentile sono la Cassazione. Imprescindibili se si deve parlare del primo fascismo e oltre. Squadristi di Mimmo Franzinelli e La Marcia su Roma di Giulia Albanese hanno il grande merito di puntare la lente d’ingrandimento sui fuochi di quei giorni. Sotto un profilo meramente divulgativo, senza entrare nello specifico del giudizio storico, che non mi appartiene, le recenti uscite di Bruno Vespa e di Antonio Scurati (M. Il figlio del Secolo, ndr) meritano di essere lette».

Che retorica adottava nei suoi interventi il leader fascista?

«La retorica della chiarezza. Nel senso cioè, e questo dovrebbe essere motivo di grossa riflessione, che Benito Mussolini dichiarò con sconcertante franchezza la volontà di prendere il governò e d’istaurare un nuovo regime. Regime e rivoluzione non sono parole utilizzate a posteriori per individuare la direzione dei suoi discorsi. Furono pronunciate senza tentennamenti. Il cosiddetto Discorso del Bivacco, il primo pronunciato a Montecitorio da capo di un governo di coalizione, fu un’umiliazione senza precedenti per l’intero parlamento. Un avviso di sfratto drammaticamente coerente con le parole pronunciate da agosto in poi. Possibile che il Re, Giolitti o i popolari, non conoscessero i suoi programmi?»

A che blocco sociale si rivolgeva?

«In un certo qual senso a tutta quell’Italia che temeva gli effetti della rivoluzione bolscevica, che non sopportava più gli scioperi, la violenza, l’instabilità politica e l’improduttività delle fabbriche. Mussolini parla ovviamente anche ai combattenti, a una parte dei legionari fiumani. Parla all’Italia della “Vittoria”. C’è un momento in cui il capo del Pnf non parla più soltanto a fascisti e squadristi, comunica da uomo che vuole tentare il colpaccio del governo. Tutti i discorsi sono subito pubblicati in prima pagina sul Popolo d’Italia, destinati a tutti gli interlocutori disponibili. Non sono testi improvvisati. Lo dimostra il fatto che anche la suddivisione in paragrafi palesa l’immediata volontà di fornire un programma che allo stesso tempo fosse politico, amministrativo e rivoluzionario». 

Sono testi sovrapponibili per energia e carica emotiva a quelli con cui i leader populisti attuali cercano l’interlocuzione con le fasce di esclusi dalle politiche di establishment?

«Guardi, l’esercizio di chi vuol mettere a confronto epoche differenti rischia di essere o scivoloso o lezioso. Ciò detto, la comunicazione fascista fu decisamente antisistema. Se la si vuole definire populista, lo si faccia pure. Nella consapevolezza però che, come sintesi, potrebbe risultare inefficace. In fondo, Mussolini chiedeva più Stato, più decisione, più fermezza da parte delle istituzioni. Solitamente i populismi dilagano quando le istituzioni nazionali, internazionali e sovranazionali non sono più in grado di definire prospettive d’interesse comune. In tal senso, una vaga analogia tra il contesto di oggi e quello di allora potrebbe essere avanzata. Ma non è sufficiente affinché si parli di nuovi fascismi».

Ci sono differenze?

«Certamente, fondamentali e decisive. Populisti e sovranisti di oggi chiedono maggior democrazia, maggior partecipazione e una nuova e più solidale dialettica tra i popoli e le cosiddette élite. Sotto questo profilo, Marco Tarchi, Ernesto Galli della Loggia e Carlo Galli hanno scritto di recente pagine di fondamentale importanza. Mussolini dichiarò invece tutto il suo disprezzo per le masse, la democrazia e i democratici. Questa non è una questione collaterale, ma di sostanza. Chi si affanna a individuare strette analogie tra i due fenomeni o suscitare nuovi allarmi, deve tenerlo in considerazione».

Ritiene ci sia dell’altro?

«Sicuramente. Il fascismo, come altre esperienze di allora, credeva nella missione purificatrice della violenza. Inutile ricordare che l’abitudine alla morte, sia per la Guerra appena conclusa sia per la Spagnola, ebbe una profonda sedimentazione nella mentalità di allora. Mi permetta un confronto grossolano. Allora si andava in piazza con la rivoltella e nessuno si scandalizzava. Nel senso cioè che la grande stampa non palesava un linguaggio moralizzante nel commentare tutto ciò. Infastidito sì, ma non si andava oltre. Oggi lo scandalo è se abbassi una mascherina chirurgica mentre sei al parco. Che è sì un problema, ma assai meno urgente rispetto a una sparatoria. Ciò detto, i partiti sovranisti ufficiali di oggi rifiutano di netto la violenza. E, a quanto pare, nessuno rivela una qualche nostalgia rispetto alle pratiche cruente degli anni Venti o Settanta del secolo scorso». 

Il discorso che conserva una sua definita coerenza o attualità nonostante il logoramento del tempo? 

«Me lo faccia sottolineare, ripubblicare scritti del passato serve a riproporre testimonianze, fonti per lo studio e la riflessione. Il punto non è individuare l’attualità di un discorso, perché l’attualità spesso è più avanti di noi. “Pieni poteri” risale appunto alla drammatica dei Discorsi di Mussolini. Salvini avrebbe dovuto saperlo, evitando la polemica rovinosa della scorsa estate e la legittimazione di un’esecutivo nato per confinarlo all’apposizione». 

Ritiene ci sia stato un uso improprio del linguaggio?

«Le parole sono importanti e le apparenze pure. La storia di questo Paese, assieme alle sue lacerazioni, non va mai presa sottogamba. Non da chi ha responsabilità di governo, almeno. Il problema però riguarda tutta la classe dirigente italiana. Leggendo i Discorsi si scopre che i problemi connessi al bilancio, all’esercizio provvisorio, ai rapporti con gli alleati e i partner europei, la riforma della legge elettorale, sono sempre all’ordine del giorno. Anche su questo bisognerebbe avviare una profonda riflessione critica sulla storia e il futuro delle nostre istituzioni».

*”I discorsi della Rivoluzione” di Benito Mussolini, a cura di Fernando M. Adonia, con una saggio di Angelo Capuano, edito da Eclettica, 2020, Massa, 95 pagine, 13 euro -http://www.ecletticaedizioni.com/

 

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Gerardo Adami

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