70 anni fa a Silverstone cominciava la Formula Uno (parlando italiano) con Nino Farina primo iridato

L'epopea del pilota italiano che vinse sul circuito inglese con l'Alfa Romeo 158

Alfa Romeo 158 ‘Alfetta’, 1950

Con la corona d’alloro fresco al collo, come usava in quel tempo. Sua la pole, suo il giro più veloce in gara, sua la vittoria nel primo Gran Premio della nuova Formula Uno, sull’Alfa Romeo 158  – che sul traguardo di Silverstone, sotto lo sguardo di re Giorgio VI e della regina Elizabetta, precede altre due Alfa, quelle di Fagioli e di Reg Parnell, mentre il quarto pilota, Juan Manuel Fangio, è costretto al ritiro, al 62º giro – sua la vittoria del Campionato del Mondo Piloti 1950, dopo aver vinto tre dei sei maggiori Gran Premi d’Europa (la 500 Miglia di Indianapolis è praticamente riservata ai piloti statunitensi) che configurano il calendario della prima stagione della massima serie dell’automobilismo sportivo: Gran Bretagna, Monaco, Svizzera, Belgio, Francia, Italia. Quel giorno l’orgoglio italiano, dopo tante umiliazioni patite, tornava a brillare…

La Formula 1 venne creata con il nome iniziale di Formula A nel 1946, poco dopo la fine della WWII, quando vi fu una prima serie di Gran Premi non validi per il titolo. L’idea di un Campionato Mondiale di Automobilismo venne formalizzata nel 1947. Il nome della Formula venne cambiato nel 1948 con quello attuale, contemporaneamente alla nascita della Formula 2. Nel 1949 vengono scelti sette Gran Premi validi per l’assegnazione del trofeo. La prima gara valida per il campionato fu, appunto, il Gran Premio di Gran Bretagna, il 13 maggio 1950. Alla corsa, 70 giri di 4.700 metri ognuno, organizzata da “The Royal Automobile Club”, parteciparono 21 piloti in rappresentanza di nove Stati; tra i 150 ed i 200.000 gli spettatori presenti.

Nino Farina

Chi era il vincitore di Silvestone e di quella prima edizione del Campionato del Mondo conduttori, 70 anni fa? Un italiano, sulla rossa Alfa Romeo, Giuseppe, detto Nino, Farina. Nato a Torino il  30 ottobre 1906. Celebre anche alle cronache mondane per alcuni comportamenti, dentro e fuori i circuiti, in quegli anni considerati alquanto “eccessivi”:  il vezzo di correre con un sigaro cubano fra le labbra, la grande passione per le donne, gli atteggiamenti spavaldi, da ‘superuomo’ che ama vivere pericolosamente, senza paure. La sua atletica figura fu descritta come ‘il profilo di un patrizio romano, le braccia tese, il busto ben eretto. Anche nei momenti più concitati permaneva maestoso, impassibile, non dubitando di correre rischi estremi per vincere. Una miscela di guerriero ed artista’.  Una sorta di Ettore Fieramosca, quasi, un simbolo del valore nazionale.

Suo padre Giovanni era il fondatore degli Stabilimenti Industriali Giovanni Farina, una delle più antiche ed importanti carrozzerie automobilistiche dell’epoca, mentre suo zio era Battista ‘Pinin’ Farina, a sua volta fondatore, nel 1930, della ancor più famosa Carrozzeria Pinin Farina, grazie all’appoggio di Vincenzo Lancia, ora proprietà dell’indiana Mahindra & Mahindra Limited.

“Sin da bambino ho imparato ad amare la potenza dei motori e la bellezza delle automobili”, dirà Nino (dal bel libro di Cesare De Agostini, Farina. Il primo iridato, Giorgio Nada Editore, 2007).

Giovanni Farina era nato 1884 a Cortanze, nell’astigiano, ma si trasferì giovane a Torino, allora in pieno decollo industriale, dove imparò il mestiere di carrozziere. Nel 1906 fondò la Società Anonima Stabilimenti Industriali Giovanni Farina, al numero 12 di Corso Tortona, che diresse fino agli anni quaranta. Appassionato di corse automobilistiche, nel 1930 partecipò alla Aosta-Gran San Bernardo con un’Alfa Romeo 6C 1750, classificandosi al sesto posto assoluto e quarto di classe. Morirà, assai amareggiato, il 18 agosto 1957, dopo aver ‘perso’ la sua impresa.

La storia della carrozzeria italiana ha visto il fiorire, nella città di Torino, di grandi imprese a tutti note, ma anche di una moltitudine di manifatture che hanno costellato il tessuto produttivo, affiancandosi ai grandi nomi del design del settore; aziende a volte piccole che hanno fatto la  storia dell’evoluzione dello stile automobilistico italiano, contribuendo altresì a rafforzare ed a dar lustro all’immagine delle vetture di serie, attraverso la realizzazione di allestimenti fuoriserie. Il capoluogo piemontese non a torto era definito “la Detroit italiana”: molte fabbriche (Itala, Diatto, Temperino, Ceirano, Scat, SPA, Rapid, Chiribiri ecc.) chiusero negli anni ’20, ma rimasero le due grandi, Fiat e Lancia che, grazie alla loro potenza produttiva, erano in grado di rifornire i carrozzieri di autotelai nudi, pronti per essere “vestiti” da abili designers ed operai in funzione delle richieste di clienti, più o meno facoltosi. Alla pari delle migliori carrozzerie europee. 

Torino, Stabilimenti Giovanni Farina, 1916

‘Nel 1906 Giovanni Farina fondò, dunque, la Società Anonima Stabilimenti Industriali Giovanni Farina dove realizzava le carrozzerie per altri costruttori. Vennero sviluppati nuovi metodi produttivi, non più puramente artigianali, che Farina imparò negli Stati Uniti. Nel periodo della Grande Guerra la fabbrica venne convertita alla produzione di aerei. Dopo il conflitto, gli stabilimenti vennero ingranditi e dotati di attrezzature moderne in grado di produrre a livello industriale. Con queste nuove tecnologie venne realizzata l’innovativa carrozzeria per la Temperino 8/10 HP. Gli Stabilimenti Farina tra gli Anni dieci ed i trenta, è stata una delle imprese che ha dato lustro all’industria automobilistica italiana sviluppando sistemi produttivi all’avanguardia. Nell’officina lavorò anche Battista Farina, detto Pinin, fratello più giovane del titolare, particolarmente apprezzato da Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT, per la quale  la Stabilimenti Farina realizzava prototipi. Quando il fratello minore abbandonò l’azienda per fondare la sua Pinin Farina, venne assunto come designer il torinese Pietro Frua. Gli anni successivi furono molto proficui per la Stabilimenti Farina che allargò il suo mercato fuori dai confini dell’Italia, costruendo carrozzerie per Mercedes-Benz e Rolls-Royce oltre che per Isotta-Fraschini, Alfa Romeo e Lancia. Negli anni ’30 diedero un grande impulso allo sviluppo dell’azienda il direttore tecnico Pietro Frua, che rimase in azienda fino al ’37, ed il progettista Mario Revelli di Beaumont. Vennero costruite carrozzerie per aeroplani ed automobili, anche pezzi unici, motori, componenti meccanici. Durante la WWII, gli Stabilimenti Farina furono nuovamente destinati alla produzione di propulsori per aeroplani. Dopo il conflitto Giovanni Farina abbandonò il comando dell’azienda, cedendo l’attività ai figli che, però, non si dimostrarono all’altezza. Il primogenito Nino, nato nell’anno di fondazione della società, era all’apice della sua carriera di pilota e non si dedicò intensamente all’attività paterna; si impegnò maggiormente il figlio minore Attilio, che però non aderì alle idee innovative di Giovanni Michelotti, sostituto di Pietro Frua, che lasciò l’azienda come fecero anche Alfredo Vignale e, successivamente, Franco Martinengo. Persi ottimi tecnici, la proprietà non adeguò la fabbrica alle nuove realtà del mercato, più di massa, avviandola all’ inevitabile fallimento, nel 1953′.  (Da: https://www.vitadistile.com/2015/12/02/torino-culla-dellarte-carrozziera-italiana; https://www.vitadistile.com/2015/12/23/stabilimenti-farina-lorigine-della-specie-parte-1; https://www.vitadistile.com/2016/01/14/stabilimenti-farina-lorigine-della-specie-parte-ii; 

https://it.wikipedia.org/wiki/Stabilimenti_Farina).

Stemma Stabilimenti Farina

Nino Farina disputa la sua prima gara nel 1925 su di una Chiribiri, la Aosta-Gran San Bernardo, terminata con un incidente. Si laurea in Scienze Politiche ed Economiche e pratica vari sport. Ufficiale di complemento di Cavalleria in tempo di pace, in guerra lo sarà di Truppe Corazzate. Nel 1933 torna alle corse. Bindo Maserati osserva il brillante Nino e lo incoraggia a condurre una delle sue vetture. In una corsa di sette giri a Modena il giovane fa meglio di Tazio Nuvolari, che, stupito dal suo talento, ne diviene il mentore! Successivamente sarà proprio Nuvolari a raccomandarlo, nel 1936, a Enzo Ferrari, capo della squadra corse dell’Alfa Romeo. Nella prima parte della carriera Farina dimostrerà un’eccessiva aggressività ed impetuosità.  Grazie a Nuvolari il pilota torinese affinerà, però, il proprio stile di guida, moderandolo un po’… Il 25 aprile del 1937 al Gran Premio di Napoli egli coglie il suo primo successo a bordo di un’ Alfa Romeo 12C. 

“Avendo portato vittoria macchina con maestra esperienza confermoti asso come pronosticai quando all’inizio conobbi tue doti. Bravo valoroso camerata tuo rivale est stato il cronometro. Sono certo di altre affermazioni che attendo per l’automobilismo italiano” gli telegrafa felice  Tazio Nuvolari, con toni quasi staraciani… Nel 1938 al Gran Premio d’Italia ottiene il primo podio in una gara valida per il Campionato Europeo, giungendo secondo alle spalle di Nuvolari e davanti alla Mercedes di von Brauchitsch. Nel 1939 Nino corre con la nuova Alfa Romeo 158, progettata per correre nel Campionato nella ‘Categoria Voiturettes’, giungendo primo al Gran Premio di Svizzera nella detta categoria. Dal 1931 al ’39 si corse il Campionato Europeo Conduttori AIACR.

Dopo il conflitto Nino Farina riprende a correre, come tutti. I piloti sono ormai piuttosto anziani, ma la voglia di riprendere le competizioni è straodinaria. Così come il calore del pubblico, desideroso di tornare alla ‘normalità’ d’anteguerra. Nel 1946 Farina si aggiudica il I Grand Prix des Nations di Ginevra, sempre con l’Alfa 158. Poi ripiega i panni del tombeur de femmes e prende in moglie una signorina della ‘Torino bene’, Elsa Giaretto, titolare di un esclusivo atelier di moda e poco amante delle corse automobilistiche… Settore che sin dall’inizio del secolo fa del capoluogo subalpino una delle capitali internazionali della moda, con la confezione di abiti femminili di gran classe, frutto della creatività e dell’estro di diversi atelier in serrata competizione tra di loro. Secondo Elsa i motori sono un’attività stupida e pericolosa; cerca invano di persuadere il marito a fermarsi. Che invece, tre giorni dopo il matrimonio, vola in Argentina! Il 25 gennaio ’48 vince il I G.P. Internacional del General San Martín, a Mar del Plata, alla guida della Maserati 8CL. Nel 1948 Farina si aggiudica poi il Gran Premio di Monaco a bordo di una Maserati 4CLT; vince  anche il Gran Premio Circuito del Garda sulla nuova Ferrari 125 F1, 12 cilindri di 1,5 litri, sovralimentato con compressore Roots, progettata da Gioachino Colombo (è la prima vittoria di una Ferrari in un Gran Premio). Nel ’49 si aggiudica il Gran Premio di Losanna con la Maserati 4CLT/48, da lui personalmente acquistata, il 15 giugno.

Maserati 4CLT/48

Quell’anno Nino Farina realizza un’altra stagione sudamericana con la Ferrari, ma al ritorno in Europa scopre che, dopo la morte in pista di Varzi e Wimille, l’Alfa Romeo ha lasciato temporaneamente le corse. La scuderia di Maranello è al completo e così egli torna alla Maserati. Nino è un pilota deluso, forse pronto al ritiro, quando l’Alfa Romeo rilancia le Alfetta con motori più potenti ed elabora un progetto sportivo per il Campionato del Mondo piloti dell’anno successivo. Farina entra così nel team leggendario delle ‘Tre Effe’, con Luigi Fagioli (52 anni) ed un ‘giovane quarantenne’ argentino: Juan Manuel Fangio. Negli anni ’30 il regolamento della Federación Internacional del Automóvil (FIA) per le vetture da Grand Prix era basato sul peso massimo della vettura, fissato a 750 kg., non sulla cilindrata. Si sfidavano vetture con motori potentissimi: propulsori di 3,8 litri (Alfa Romeo), di 5,6 litri (Mercedes) e di 6,0 litri (Auto Union). Nel 1938 la cilindrata venne limitata a 3,0 litri, sovralimentato (e 4,5 litri senza). Fu allora istituita la categoria “voiturettes”, con motore 1,5 sovralimentato. Tra queste l’Alfetta 158.

Farina al GP di Gran Bretagna, Silverstone, 1950

L’Alfa Romeo 158, detta Alfetta per le ridotte dimensioni, è entrata, nella storia dell’automobilismo sportivo come la monoposto più longeva (ha corso, infatti, per ben 13 anni, dal 1938 al 1950, nelle sue varie versioni, ma mantenendo l’impianto costruttivo originario) ed anche, come quella che ha conseguito il maggior numero di successi nei Gran Premi. Nasce nella primavera del 1937, nelle officine della Scuderia Ferrari su progetto di Gioachino Colombo e con la collaborazione, specie per le sospensioni ed il cambio, dell’ingegnere Alberto Massimino. La sigla 158 indicava la cilindrata, di 1,500 litri, ed il numero dei cilindri, 8; il motore era sovralimentato, con un compressore volumetrico Roots monostadio, carburatore tricorpo. Fin dalle prove al banco dimostra notevoli doti di potenza ed affidabilità, arrivando a sviluppare 180 CV, a 6.500 giri al minuto, potenza che, alla sua prima apparizione in pista, giunge a 195 CV, a 7.000 giri/minuto. Nel 1949, la vettura sarà inquadrata nel regolamento della nuova Formula A, poi Formula 1, che equiparava vetture da 1,5 sovralimentate e 4,5 litri aspirate. L’Alfa Romeo 158 debutta ufficialmente alla Coppa Ciano di Livorno del 7 agosto 1938, ed è subito vincente, con Emilio Villoresi, fratello minore di Luigi, che troverà la morte proprio al volante di un’Alfetta durante le prove a Monza nel luglio ’39. A guerra terminata, nel 1946, l’auto, ulteriormente alleggerita e potenziata, si aggiudica, con Nino Farina, il I Grand Prix des Nations di Ginevra, del 21 luglio. Nel 1950 debutta nel 1º Campionato del Mondo di Formula 1. Con una potenza di 350 CV, a 8.600 giri/minuto, e con un peso di soli 700 kg, la 158 non ha praticamente rivali, aggiudicandosi 6 dei 7 Gran Premi. (https://it.wikipedia.org/wiki/Alfa_Romeo_158).

Nino Farina

Con quel primo Campionato si schiudeva un’epoca nuova, ma in realtà Nino Farina ne chiudeva  un’altra. La sua, quella dei grandi piloti dell’epoca dorata degli anni ’30, quella che le bombe del  conflitto avevano fatto tacere dopo l’ultimo G.P. di Belgrado, corso il 3 settembre 1939, mentre  l’Europa già era in guerra, vinto da Tazio Nuvolari davanti a Manfred von Brauchitsch. Finiva anche l’epoca degli straordinari motori Mercedes-Benz ed Auto Union. Forse, giunto in cima alla gloria, sarebbe stato il momento migliore per ritirarsi, ma il coraggioso Farina, la promessa che aveva sfidato i Nuvolari, Varzi, Rosemeyer, Caracciola, obbligato dal conflitto a disertare i circuiti, volle ora rifiutare la sua condizione di ‘veterano’ per sfidare la nuova generazione dei Fangio ed Ascari, rischiando oltre ogni limite e raramente battendoli, se non per guasti meccanici. 

Nel 1951 Farina partecipa, al volante dell’Alfa Romeo 159, sviluppo della 158 (con 420 CV, compressore maggiorato e ponte posteriore De Dion), ad 8 di 9 Gran Premi, saltando ancora l’appuntamento della 500 Miglia di Indianapolis. A quel tempo molte competizioni rientravano nelle norme, ma non nel Campionato di F1 (nel 1950 furono 16, delle quali Farina vinse 2), con la lotta costante tra l’Alfa e la Ferrari. Farina risulta 4º nella graduatoria mondiale, vinta da Fangio (Alfa Romeo) sul ferrarista Ascari all’ultima gara. Farina riesce ad aggiudicarsi una sola vittoria. 

Nino Farina sull’Alfa Romeo 158

Nel 1952-’53 il Campionato conduttori si disputò con vetture di Formula 2 (Indianapolis esclusa), mentre le vecchie vetture della F.1 ne furono escluse. Furono tre team italiani ad occupare le posizioni dominanti dei primi anni del Campionato, l’Alfa Romeo, quindi la Ferrari e infine la Maserati. Ritiratasi l’Alfa, il suo posto, per così dire, verrà occupato, nel 1954, dall’affacciarsi meteorico di una vettura con grandi ambizioni: la Lancia D-50 voluta da Gianni Lancia e disegnata da Vittorio Jano. Segno dell’eccellenza dell’industria italiana, nonostante la relativa debolezza del sistema. Altre Case – come la francese Talbot o la britannica BRM-  competono in quel tempo, ma con risultati modesti.  Parecchie vetture private prendevano allora parte alle gare.  Ferrari è l’unico team ad essere sempre stato presente in questi 70 anni. Il ritiro dell’Alfa, alla quale è negato un finanziamento del governo e deve puntare sulle auto di serie (la 1900, poi la Giulietta), lascia la sola Ferrari in grado di allestire una monoposto competitiva. Farina, passato alla Casa di Maranello, riesce a piazzarsi per 4 volte secondo, finendo secondo pure nella graduatoria finale, alle spalle di Alberto Ascari, compagno di squadra e dominatore della stagione.

Farina resta alla Ferrari anche nelle stagioni 1953, 1954 e 1955. Nel ’53, sempre alla guida di una Ferrari 500 F2, prende parte a sette gran premi, centrando la vittoria in quello di Germania sul tracciato del mitico Nürburgring; conclude, inoltre, tre volte al secondo posto ed una al terzo, segnando una pole position. Le vittorie potevano essere due, ma Nino è costretto a fare i conti con l’orgoglio di Ascari. In occasione del Gran premio di Svizzera, pochi giorni dopo il trionfo tedesco, Farina si trova infatti in testa alla gara; con le Ferrari sicure della tripletta, dai box viene impartito l’ordine di mantenere le posizioni: Farina, Mike Hawthorn e, appunto, Alberto Ascari. Ma quest’ultimo si ribella e va a prendersi la vittoria ed il titolo mondiale. Anche nel Gran Premio d’Italia Farina vede sfumare la vittoria: Ascari è al comando sull’ultima curva, pressato da Farina e da Fangio su Maserati, quando perde il controllo della sua macchina e va in testa coda. Farina è costretto a saltare sul prato per evitarlo, lasciando la vittoria a Fangio. In una stagione tanto movimentata hanno spazio anche note negative: nella prova inaugurale, il Gran Premio d’Argentina, Nino Farina travolse alcuni spettatori assiepati lungo il ciglio della strada (Perón aveva demagogicamente decretato l’accesso libero all’autodromo di Buenos Aires, che venne invaso dalla folla). Il bilancio della gara fu tragico: dieci morti e trenta feriti, di cui dieci gravi. 

Nel 1954 il Mondiale riaprì le porte alle autentiche vetture di Formula 1. Quell’anno, infatti, nuovi regolamenti permisero motori atmosferici di 2,5 litri. Terminò, come da molti invocato, lo ‘strapotere italiano’. Ma, anzichè schiudere un’ampia competizione, si favorì il trionfale ritorno delle “Frecce d’Argento” della Mercedes-Benz (era la fine del purgatorio sportivo germanico ed infatti quell’anno i tedeschi vinsero in Svizzera la Coppa Rimet di Calcio) che avevano dominato fino alla WWII. Le vetture teutoniche – dirette dal solito, massiccio austriaco Alfred Neubauer – continuavano ad innovare, con il comando valvole desmodromico, l’iniezione del combustibile, le leghe di materiali leggeri e resistenti, le carrozzerie aerodinamiche ed altre caratteristiche avanzate. Condotte dall’impareggiabile Fangio, le Mercedes trionfano nel 1954 e ’55, vincendo tutte le gare, tranne due, cambiando addirittura la carrozzeria, in alluminio carenata o con ruote scoperte e più leggera, a seconda dei circuiti. Tuttavia, alla fine di quella stagione 1955 la Mercedes-Benz si ritira dalle competizioni automobilistiche, e per vari decenni, fino al 1989. La causa immediata fu il terrificante incidente durante la 24 Heures du Mans, con 84 morti, causati dalla Mercedes 300 SLR, guidata dal francese Pierre Levegh, che si alzò ed abbattè sulle tribune come un ordigno esplosivo. Incidente in realtà causato dalla Jaguar di Hawthorn. Dal quartier generale di Stuttgart giunse immediatamente l’ordine di ritirare tutta la squadra, anche se la corsa continuava e finiva con la Jaguar vittoriosa. La sensibilità dell’epoca poteva tollerare le Mercedes correre, e persin vincere, ma non vedere una Mercedes, sia pure guidata da un francese, falciare vite francesi… I tedeschi devono averlo pensato e deciso di sacrificare un brillante presente per il futuro della propria industria e della nazione, 10 anni appena dopo la fine della WWII. L’eco del ‘disastro di Le Mans’ fu immensa e molti Paesi proibirono lo svolgimento di corse automobilistiche. Che contribuì a far nascere una ‘coscienza della sicurezza’ fino ad allora ignota. 

Nel 1957, dopo un vano tentativo di qualificarsi per la 500 Miglia di Indianapolis del ’56 – con la Bardahl Ferrari Experimental, una monoposto con motore Ferrari – Farina, già cinquantenne, appende  il casco al chiodo. Ha vinto molte corse; in F1 5 gare, 20 podi, 5 pole. Intanto, l’impresa familiare è fallita ed il padre decede ad agosto. 

Nino Farina è stato consegnato alla storia dell’automobilismo sportivo per la sua abilità di conduttore, ma ancor più per il carattere difficile, eterno enfant gâté, esuberante ed impulsivo, insieme ad uno stile di guida arrembante, sfacciato. Non apprezzava molto i critici ed i giornalisti. In quanto ai rivali, disse ruvidamente in un’occasione, dopo una vittoria, nel 1950: 

“Fangio è un grande campione, anche se oggi ho vinto io. Nello sport è così, oggi a me domani a te. Se gli parlassi, si offenderebbe e io mi sentirei un verme. Purtroppo in questo sport non esiste amicizia: siamo solo rivali. Certo, quando ci si incontra, ci si abbraccia, ma è tutta scena. In pista siamo antagonisti, fuori c’è solo la forma”.

Scriverà Enzo Ferrari del pilota torinese:

“Era l’uomo dal coraggio che rasentava l’inverosimile. Un grandissimo pilota, ma per il quale bisognava stare sempre in apprensione, soprattutto alla partenza e quando mancavano uno o due giri all’arrivo. Alla partenza era un poco come un purosangue ai nastri, che nella foga della prima folata può rompere; in prossimità del traguardo era capace di fare pazzie, ma, bisogna pur dire, rischiando solo del proprio, senza scorrettezze a danno di altri. Così, aveva un abbonamento alle corse all’ospedale” (E. Ferrari, Piloti che gente, Bologna, 1984).

L’arrogante, spavaldo, spericolato, guascone Nino Farina morirà il 30 giugno 1966 all’età di 59 anni in un incidente presso Aiguebelle (Savoia), mentre si stava recando a Reims per assistere al Gran Premio di Francia di F1, che avrebbe poi vinto Jack Brabham su Brabham. He died in his law: uscendo di strada in una curva con la sua Ford Cortina Lotus, schiantandosi contro un palo del telegrafo. Non era un bolide di F1 o una GT, ma una rispettabile, per l’epoca, high-performance sports saloon di 1600 cc., 4 cilindri, 106 CV di potenza,  fabbricata dalla Ford inglese con la collaborazione di Colin Chapman, il fondatore della Lotus. Destino bizzarro per chi aveva rischiato la vita in pista mille volte, ma sempre al volante di un’auto rossa italiana… 

Ricorderà la moglie Elsa che una voce le comunicò al telefono che Nino aveva avuto un incidente. Elsa pensò, dapprima, che era solo un ‘altro’ incidente e disse che si sarebbe subito preparata per andarlo a visitare all’ospedale francese. Ma la voce le comunicò che non era, purtroppo, necessario affrettarsi. “Non mi dirà che se ne è andato per sempre?” domandò  la donna. (A braccia tese, Memorie di Elsa Farina, raccolte da Gisella Castagnoli, Milano, Edizioni Sportive Italiane, 1972). Sì, il freddo, aspro, combattivo, temerario pilota che sfidava i limiti, raggiungeva gli avversari che lo avevano preceduto lasciando le cuoia dietro un volante. Fangio aveva predetto: “Dal modo che guida solo la Santa Vergine” – alla quale Farina era, pare, assai devoto – “può mantenerlo in pista, ma un giorno o l’altro si stancherà di farlo”!  Non c’era il Car Safety Cockpit...

Non lasciò figli. Giuseppe Nino’ Farina è stato sepolto al Cimitero Monumentale di Torino.

                                                             

                                (https://it.wikipedia.org/wiki/Campionato_mondiale_di_Formula_1_1950)

                                                                               

Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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