Giovani belli e ribelli (a Trieste) tra Msi e Pci

Il saggio "Ragazzi. Immagini e storie di ribelli negli anni Settanta a Trieste" di Pietro Comelli ricostruisce una stagione di passione e impegno politico con testimonianze che vanno ben oltre la retorica

Almerigo Grilz in Viale XX Settembre

Il saggio “Ragazzi. Immagini e storie di ribelli negli anni Settanta a Trieste” di Pietro Comelli ricostruisce una stagione di passione e impegno politico con testimonianze da destra e da sinistra: appare così nitido uno spaccato inedito di presenza civile e la descrizione di partiti o movimenti giovanili mossi da una visione del mondo profonda, frutto di idee cardine ma anche di tante contaminazioni. Il libro è edito da SpazioInattuale (qui per ordinarlo).

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Pietro Comelli, in “Ragazzi”, racconta la Trieste degli anni Settanta. Nel panorama italiano che peculiarità aveva la città di frontiera giuliana?
“Peculiarità molteplici, dettate non solo dalla storia del “lungo ‘900″ vissuto da Trieste, con il ritorno all’Italia solo nel 1954, ma anche da una mentalità e una cultura per così dire laica e particolare di un’intera città. Accanto a una destra di confine esisteva anche una sinistra di confine, entrambe influenzate dalle vicende e ferite storiche, avvenute prima, durante e alla fine Seconda guerra mondiale, capaci di affondare negli aspetti personali, familiari, umani… Una realtà dove la destra riusciva a scendere in piazza, non solo durante i comizi di Giorgio Almirante ma anche con i propri giovani: una cosa non scontata, anzi spesso preclusa negli anni Settanta, in gran parte delle città italiane a partire da quelle del Nord”.
Nella dedica c’è un riferimento ad un amico che militava sull’opposta barricata. Potevano esistere allora, in periodi di forti contrapposizioni, frequentazioni trasversali?
“Le amicizie riuscivano a sopravvivere anche in un’epoca di violenza dove le bombe molotov venivano fatte scoppiare nelle case dei militanti di destra e di sinistra e i pestaggi, fuori dalle scuole o nei luoghi più caldi, erano all’ordine del giorno anche a Trieste. Eppure c’era chi come Claudio Misculin, extraparlamentare di sinistra, e Paolo Morelli, vicesegretario del Fronte della gioventù, riuscivano a salvarsi a vicenda nelle manifestazioni in nome di quel rapporto di amicizia che resisteva fin dall’adolescenza. La dedica del libro a quell’amicizia è venuta automatica, ma la loro non è l’unica storia di rispetto. Ecco, proprio il rispetto traspare nelle storie di quei ribelli, che in ogni caso hanno avuto tempo per metabolizzare quella stagione. Era un mondo giovanile curioso, di tutto”.
Come ha scelto i narratori-testimoni?
“Partendo da un’immagine, anzi da una bella immagine perché non volevo foto per così dire banali o in posa. In questi anni ho raccolto centinaia di foto degli anni Settanta e nel metterle in ordine spesso mi domandavo chi fossero questi ragazzi e che cosa facessero oggi, a distanza di quasi cinquant’anni. E così sono andato a cercarli, a ricostruire i volti dando un nome e un cognome oltre a diversi soprannomi. Alcuni li conoscevo, altri non avevo la minima idea chi fossero ma piano piano, mettendo assieme le persone e incrociando i dati, sono riuscito a comporre il puzzle e a raccontare le loro storie. Spesso la storia, quella con la “s” maiuscola, non appassiona, ma le storie “incuriosiscono anche i più pigri nella lettura e così ho deciso di raccoglierle e raccontarle partendo da una fotografia. Viviamo nell’epoca dell’immagine, troppo spesso si brucia tutto e subito sul web. Quegli scatti, grazie ai fotografi che ce le hanno lasciate, andavano invece approfonditi e così ho fatto descrivendo e raccontando uno spaccato credo unico”.
A sinistra che dialettica c’era rispetto al Pci e alle ortodossie ideologiche?
“Nella prima domanda si parlava della peculiarità di Trieste, ebbene anche la sinistra dal Pci fino al gruppi comunisti e anarchici rivoluzionari venivano, di fatto, condizionati da un confine che a pochi passi mostrava il “socialismo reale” anche se era quello della Jugoslavia di Tito scomunicato dall’Unione sovietica. Tutto questo aveva delle ripercussioni forti anche negli anni Settanta fra i giovani che militavano a sinistra, per giunta in una città con una presenza storica della minoranza slovena divisa fra cattolici e comunisti. Ma al di là dei riferimenti a Mosca o a Belgrado, che vedeva il Pci triestino di Vittorio Vidali guardare all’Urss, fu il cambiamento in atto nel 1977, con il cosiddetto nuovo ’68, a portare una rottura fra il Pci e gli altri gruppi di giovani che per mentalità non potevano avere nulla a che spartire con una visione stalinista. La dialettica finì anche a bastonate, come durante il corteo del 1° maggio 1977 quando il servizio d’ordine del Pci represse duramente autonomi, femministe, anarchici… E lo faceva con i portuali e gli operai dei cantieri, controllati dal partito di Vidali. Se all’università La Sapienza di Roma autonomi e indiani metropolitani, nello stesso anno, cacciavano il sindacalista della Cgil Luciano Lama, a Trieste il Pci era troppo forte e organizzato. Non va poi dimenticata e sottovalutata l’esperienza di Franco Basaglia nel Parco di San Giovanni a Trieste, il padre della legge 180 che nel 1978 riformò la psichiatria in Italia chiudendo i manicomi, un luogo di dialogo e anche di scontro delle “sinistre”, dal partito alle frange estreme, diventato laboratorio sociale. Sono tutte pagine che fanno capolino nel libro direi per la prima volta, anche perché la sinistra ribelle degli anni Settanta a Trieste non si era mai raccontata”.
Tex Willer gli altri eroi del West di Bonelli

A destra emerge il rispetto per minoranze, per i nativi americani sulla scia della passione per il fumetto di Tex Willer. Una narrazione ben diversa rispetto a quella di chi descrive il Fronte della gioventù come estrema destra…

“L’epoca di semplificazione in cui viviamo è capace di annullare le peculiarità di quella stagione, che invece emergono in modo profondo nei racconti senza retorica di quei ragazzi schierati a destra. A volte una sorta di “fascisti immaginari”, per usare una definizione fortunata e un libro altrettanto fortunato e bello, ognuno a proprio modo e con le proprie idee. E in questo Trieste durante gli anni Settanta, meglio sarebbe dire la seconda metà degli anni Settanta che sono anche quelli più interessanti e documentati dal punto di vista fotografico, era capace di esprimere, fra i giovani, un panorama curioso e interessante che abbracciava l’ecologia, i fumetti, le feste, la musica, l’apertura al mondo. Al di là dell’azione e della presenza nelle piazze quei ragazzi, con la loro sede autonoma in via Paduina che nel resto d’Italia a parte alcune grandi città non c’era, riuscivano a esprimere uno schema molto lontano dal “fascista duro, puro e trinariciuto”, che non mancava, però non era solo quello”.
Nella sede del Fronte di via Paduina con Grilz che disegna un volantino e Valle con la sigaretta in mano

Almerigo Grilz è ormai una icona patriottica, tra giornalismo, grafica politica e passione per il punk. Ne scrive Marco Valle.

“Era il leader del Fronte della gioventù, capace di mediare con il militante in saluto romano e il dirigente di partito in doppio petto. Ma soprattutto era un ragazzo che non solo sognava di girare il mondo, ma lo faceva ogni estate fin da bambino: prima imparando l’inglese a Londra, poi nei suoi viaggi on the road a bordo di auto scassate o in autostop. Questo non solo gli permetteva di avere una visione molto più ampia e aperta, ma di trasmetterla al suo gruppo di giovani. Il punk e le recensioni su Giovane destra firmate da un giovanissimo Marco Valle dimostrano una sorta di apertura a quel fenomeno importato da Oltremanica che la sinistra, all’inizio, ripudiò considerandolo fascista e contestandolo come avviene per il concerto dei Decibel a Milano. E poi Grilz “viaggiava” già da ragazzino con i suoi disegni e fumetti, che utilizzava nei volantini e nei giornalini del “Fronte” dando una svolta nella comunicazione, fino a quel momento schematica e terra terra, per conquistare il pubblico giovanile delle scuole. Inoltre documentava quanto gli accadeva intorno con la sua macchina fotografica e poi la cinepresa… Un preludio alla strada del giornalismo, un amore che gli fece lasciare l’amore per la politica. Nel libro e la mostra “I mondi di Almerigo” penso che siamo riusciti a raccontare un personaggio complesso in tutte le sue sfumature”.
Laura Castellani racconta la sua storia d’amore con Almerigo, ma anche la militanza nel gruppo femminile Eowyn. La destra dava spazio all’impegno femminile senza quote rosa.
“A proposito di storie d’amore, nel libro ce ne sono diverse e quella di Laura e Almerigo è una di quelle. Il capitolo di Laura Castellani è davvero emblematico: è la storia di una ragazza arrivata a Trieste dall’America, controvoglia, figlia di genitori esuli istriani che entra a far parte di un gruppo politico in una città per lei sconosciuta. Scopre una comunità e incontra altre ragazze, militando nel gruppo Eowyn che non aveva i simboli di partito o del movimento giovanile bensì quello del Tao. Molto curioso e anche molto “triestino”, non che in giro per l’Italia non ci fossero le ragazze di Eowyn, vedi Roma e Padova, ma per la dimensione femminile che a Trieste, città culturalmente emancipata, vedeva le ragazze di destra prendersi i propri spazi e stare anche in prima linea. A destra come a sinistra. Bisogna anche dire che erano le ragazze del “Fronte”, dove si parlava e discuteva in maniera libera di aborto e divorzio, mentre nella sede del Msi il gruppo femminile era molto più rigido, dedito alla Befana tricolore e al mondo delle scuole elementari, come del resto succedeva in casa del Pci”.
Nei cortei della destra c’era anche una militante di colore con la bandiera in prima linea…
“Purtroppo non sono riuscito a trovare e a intervistare quella ragazza che sventola la bandiera tricolore durante uno dei primi cortei contro il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, che nel sancire la definitiva cessione dell’ultima parte dell’Istria alla Jugoslavia indicava anche la realizzazione di una zona industriale sul Carso, che poi non si fece, scatenando la reazione di una città che voltò le spalle ai partiti tradizionali, a cominciare da Dc e Pci, nonostante la fase del compromesso storico e del tragico rapimento e assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse. Il cosiddetto “richiamo di sangue”, per le terre perdute, ma anche l’aspetto ambientalista portò diversi ragazzi di sinistra a ritirarsi, oppure addirittura a sfilare con la destra in corteo. La presenza di quella studentessa di colore, che ho voluto inserire nel libro con una foto, oppure di altre ragazze straniere nelle file della destra dimostra come, all’epoca, non rappresentasse un “problema”. Erano gli anni delle ideologie, dell’anticomunismo e i volantini e manifesti del Fronte della gioventù sostenevano ad esempio i boat people vietnamiti e lo slogan “La mia patria è laddove si combatte per la mia idea” era decisamente lontano da qualsiasi forma di razzismo. Lo stesso scontro con la minoranza slovena, che per alcuni a destra significava contro tutto il mondo slavo, era piuttosto controverso e dettato dalle pagine dolorose vissute con l’esodo e le foibe. C’era indubbiamente un’anima nazionalista, ma non solo e i riferimenti al fascismo regime, tranne per saluto romano usato in modo provocatorio, non ricevevano fra i ragazzi del “Fronte” questa grande attenzione. Ci sono degli episodi molto curiosi che dimostrano come il quadro non fosse, né a destra né a sinistra, così monolitico e semplice come si possa pensare. Tanto da smontare le certezze e soprattutto i luoghi comuni”.
Roberto Menia, nel suo intervento, ricorda il professore Spadaro, istriano e antifascista. La revisione della sinistra su foibe e confine orientale come avviene a Trieste?
“Spadaro come la mamma Menia era istriano. E questo indubbiamente ha inciso su un percorso di “revisione” e se vogliamo “pacificazione”, ognuno con le proprie memorie, durante la trasformazione del Pci, in Pds e Ds con in una determinata fase delicata Stelio Spadaro alla guida del partito a Trieste. Il fatto che sia stato docente di Roberto Menia al liceo scientifico Galilei e che si siano frequentati anche dopo diciamo che aiutò a organizzare il famoso incontro fra Luciano Violante, esponente storico del Pci, e Gianfranco Fini, già segretario nazionale del Fronte della gioventù e dirigente del Msi erede del fascismo, al Teatro Verdi di Trieste. Un appuntamento promosso alla fine degli anni Novanta dalla facoltà di Scienze politiche dell’università di Trieste in cui, di fatto, si aprì un dialogo fra le parti, pur nelle diversità, riconoscendo non le ragione dell’altro, ma le ragioni che spinsero tanti ragazzi a schierarsi da una parte o dall’altra alla fine della Seconda guerra mondiale. Non tutti apprezzarono, ma fu un incontro importante che, forse, mise le basi per il Giorno del ricordo del 10 febbraio. Rispetto a quel dialogo, con il mantenimento di memorie differenti, che è l’unica possibilità per arrivare a una pacificazione senza forzature, purtroppo vedo per certi versi una regressione dovuta alla semplificazione e all’esasperazione di cui parlavo prima… anche se spesso si tende a “mettere in vetrina” o a dare importanza alle posizioni estreme, da una parte e dall’altra, quando rappresentano solo una minoranza”.
Nel volume c’è uno scritto di Gianni Cuperlo: l’esponente dem evidenzia il valore dei partiti interclassisti come il Pci, partiti comunità, al pari dello stesso Msi. Ora tutto è cambiato, le realtà politiche sono account digitali.
“C’è un bel affresco di Cuperlo che ricorda come il Pci dell’epoca ospitasse nelle assemblee infuocate di partito l’operaio e il pensionato che davano sulla voce al professore universitario e al medico primario ma poi, nel quotidiano, riconoscevano la professionalità e rispettive competenza di quelle stesse persone. Sembra quasi di vederle quelle battaglie politiche nelle sezioni di partito, la stessa cosa accadeva anche a destra nel Msi dove convivevano anime e posizioni estremamente diverse. Recentemente a Trieste è morto Raffaele, professione netturbino, che ogni volta Almirante veniva a tenere un comizio indossava il vestito della domenica e andava a “scortare” il leader missino. Quel personaggio, a volte pittoresco, si metteva a disposizione anche nei momenti più difficili, durante gli scontri di piazza, in modo generoso e schietto. No, non me lo vedrei oggi dietro un profilo social. Sia chiaro, il web è uno strumento positivo se usato con intelligenza, solo che sta diventando una scusa per un’intera generazione, non solo di giovani, che non riesce a comunicare, partecipare, organizzare qualcosa… Negli anni Settanta ci si muoveva a piedi, in pochi avevano motorino o macchina, si era costretti a condividere qualcosa e anche a imparare. Invece oggi spesso i social “isolano” le persone che, una volta, stavano assieme al di là delle “classi sociali”: nelle sedi di partito, quelle comunitarie come il Msi e il Pci, magari il ragazzo che aveva studiato aiutava quello che non sapeva neanche tenere in mano una penna a scrivere il curriculum, gli suggeriva di presentare una domanda di lavoro, risolvere un problema. I social, aperti a tutti, per assurdo “chiudono” queste opportunità di dialogo produttivo e capacità di comunicare fra strati della popolazione”.
La lezione che emerge da questo percorso di ricerca politica racchiuso nel volume “Ribelli”?
“Beh, lezioni ce ne sono diverse e anche profonde. La prima di attualità è che se quella generazione di ribelli, che ha visto nel resto d’Italia morire ragazzi nelle strade ammazzati per un’idea, mantiene le proprie posizioni ma nutre un certo rispetto nei confronti della controparte, non si vede il motivo, ai giorni nostri, di una ricerca di odio politico che “scimmiotta” gli anni Settanta senza conoscerli e senza conoscere quella stagione di grandi e profondi cambiamenti. Le etichette quali antifascismo e fascismo non hanno senso, a meno che non si vada a studiarle e definirle invece di utilizzarle a sproposito. Erano fascisti alcuni di quei ragazzi del Fronte della gioventù? Erano antifascisti alcuni di quei ragazzi extraparlamentari di sinistra? Leggere le loro storie e le storie di chi non c’è più fa capire tante cose…”.
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Michele De Feudis

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