Fenomenologia del rapporto tra italiani e potere

Vizi e virtù di una certa visione dell'italianità, sulle tracce di Burckhardt

Italia e italianità lacerata

Italiener

Chi abbia una qualche dimestichezza con persone straniere coglierà senz’altro il loro atteggiamento di curiosità meditabonda e perplessa verso quell’enigma che ai loro occhi è il popolo italiano, nella sua manifestazione attuale. Di fronte alle variegate declinazioni dell’italianità, una linea di demarcazione si compone automaticamente nelle loro teste e pone tutta l’umanità da un parte e il popolo italiano dall’altra, come se tutti gli altri popoli della Terra fossero un po’ più simili tra loro che non agli italiani.
La percezione di questa dissomiglianza si accompagna ad un giudizio non esattamente positivo. E’ che degli italiani gli stranieri proprio non ce la fanno a comprendere, citando in ordine sparso dalla tebaide nazionale: la generale attitudine rissosa, la mentalità causidica, l’individualismo che rasenta l’imbecillità, l’accettazione senza fiatare di un fisco di chiara ispirazione dantesca, eccetera eccetera.
Ma soprattutto, ciò che gli stranieri faticano a comprendere è l’attitudine verso il potere: l’italiano è sospettoso e infingardo (non ti riconosco come legittimo e penso che tu governante non sia meglio di me, quindi ti disprezzo), ma sempre intimorito (pur essendo illegittimo, tu potere hai i mezzi per schiacciarmi, quindi ti temo) e passivo (dentro di me sento che non c’è appello contro il potere, quindi mi conviene farmi i fatti miei, anzi cercare delle aderenze al potere che mi portino un qualche vantaggio personale).
Va bene, cose sentite cento volte: l’italiano ne è più o meno cosciente sino all’auto diminuzione – altro talento nazionale. Nessuna persona sana di mente si azzarderebbe a proporre soluzioni, con la consapevolezza che per il riscatto del popolo italiano vale l’adagio di Heidegger, “Ormai solo un dio ci può salvare”. Un esercizio più alla portata umana invece è chiedersi come questo carattere nazionale si sia sviluppato. Soprattutto considerando che l’italiano vive e cammina sullo stesso suolo che un tempo fu dell’antico romano, cioè di un tipo umano agli antipodi dell’italiano contemporaneo.

La versione di Burckhardt

Sull’origine del singolare rapporto che l’italiano intrattiene con la cosa pubblica, ci viene agilmente in soccorso un capitolo dal titolo Lo Stato considerato come creazione artistica dell’opera La civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt, storico dell’arte vissuto nel XIX secolo.
Lettura illuminante e anche sottilmente spassosa poichè, scritta da uno svizzero-tedesco, vi si scorge, nascosta sotto lo stile formale, quella forma di incuriosito sbalordimento che prende gli stranieri davanti all’italianità di cui si parlava in apertura. Vediamo cosa ci dice l’autore.
Burckhardt si sofferma sulle tirannie italiane del XIII, XIV e XV secolo, individuando giustamente in esse un unicum mondiale: con queste appariva per la prima volta nella storia dell’umanità un potere individuale completamente illegittimo, cioè nè basato sul diritto divino, nè su diritti di successione, o neppure derivante da un premio alla lealtà verso una causa (fosse essa la dedizione all’imperatore, a un sovrano, o signore feudale, oppure l’abnegazione nelle crociate o ancora la lotta alle eresie).
I tiranni di questo lungo periodo della storia nazionale erano originariamente uomini d’arme che grazie alla propria forza, audacia e alla spregiudicatezza sanguinaria, ad un certo punto si lanciarono alla conquista di piccoli “regni” personali, approfittando della perpetua lotta tra Chiesa e Impero, nonchè della conflittualità endemica tra i comuni “repubblicani”, a cui di volta in volta prestavano il proprio “mestiere delle armi”, salvo poi diventarne i tiranni.
Quindi ad un certo punto della storia italiana, per varie ragioni arriva un potere illegittimo e autocratico, ottenuto e mantenuto con la forza bruta e sanguinaria: un trauma per l’italiano del tempo, che come in generale l’uomo medievale europeo, si sentiva in qualche modo soggetto della cosa pubblica, attraverso gli ordinamenti organici e legittimi della società feudale oppure dei comuni repubblicani.
Con le tirannie quindi nasce il rapporto problematico dell’italiano verso il potere statale.
C’è da dire che il primo colpo in questo senso fu inflitto da un imperatore, acclamato in età moderna come “illuminato”, cioè Federico II, nel suo tentativo di rafforzare il potere imperiale per resistere meglio agli assalti della Chiesa. Qui diamo la parola a Burckhardt:
“Le misure prese da Federico … tendono a stabilire un’autorità regale onnipotente, al completo annientamento dello Stato feudale, alla trasformazione del popolo in una moltitudine inerte, disarmata, capace solo a pagare quante più tasse possibile. Egli centralizzò tutto il potere giudiziario e amministrativo, di una maniera finora sconosciuta all’Occidente. L’assegnazione delle cariche per via elettiva fu soppressa. Le città che osavano ricorrere alle elezioni popolari venivano minacciate di devastazione e i loro abitanti di perdere lo status di uomini liberi”.
E in materia tributaria “Le imposte, basate sul catasto … di origine musulmana, furono riscosse con tal rigore, con quella tale crudeltà senza cui è impossibile ottenere del denaro dagli Orientali”.
Quindi la triste conclusione “Qui non si vede più un popolo, ma una moltitudine di soggetti severamente controllati e sorvegliati, che ad esempio non potevano ottenere il diritto di matrimonio che in virtù di un permesso speciale o ai quali era interdetto di andare a studiare fuori dai confini dello Stato…mentre almeno in Oriente si permetteva alla gioventù di scegliere liberamente”.
Ancora “Egli (Federico) scelse per formare la polizia e il nucleo del suo esercito i saracini di Sicilia…esecutori senza pietà delle volontà del loro signore e indifferenti ai moniti della Chiesa. I sudditi, che avevano perduto l’abitudine a portare le armi, assisterono alla caduta di Manfredi e all’usurpazione di Carlo d’Angiò senza poter far niente per opporvisi; quanto al francese, egli ereditò questo meccanismo di governo e se ne servì a proprio vantaggio”.
Il primo tiranno in senso moderno fu una creatura di Federico II: Ezzelino da Romano, il cui dominio si estendeva tra Brescia Verona e Trento. A suo riguardo ci dice Burckhardt: “Ezzelino è il primo (potente) che cerca di stabilire il potere per mezzo di massacri generalizzati e crudeltà senza fine, cioè impiegando tutti i mezzi possibili, senza altra considerazione se non lo scopo da raggiungere”. E più avanti “Cesare Borgia stesso è rimasto inferiore nella storia ad Ezzelino (in quanto a crimini). Ma l’esempio era stato dato, e la caduta di Ezzelino non fu nè un segnale di ristabilimento della giustizia per il popolo, nè un monito ai criminali (sic!) di lì a venire”.
Ma senza una leggitimità e se guadagnato con il sopruso, ogni potere è incerto e circondato da mille insidie. Da cui altri due caratteri spiccatamente nazionali: l’insicurezza e il sospetto sino alla paranoia.
“…ma al pericolo esterno (per cui le tirannie erano sempre in lotta tra di loro) corrispondeva quasi sempre un fermento interno…La falsa onnipotenza, la sete del piacere fine a se stesso e l’egoismo in tutte le sue sfaccettature da una parte; i nemici e i cospiratori dall’altra, facevano di lui (del despota), quasi inevitabilmente, un tiranno nella peggiore accezione del termine”. Ecco l’ossesione del controllo: si dice che il sistema moderno dei passaporti sia nato già sotto Federico II e sviluppato ulteriormente dai tiranni italiani (in testa Padova e Firenze).
Quindi Burckhardt approfondisce una serie di personaggi, praticamente una panoplia di arbitrio e tetre stravaganze. Alcuni esempi tratti da questo “florilegio”:
“L’ultimo dei da Carrara (1405), prigioniero a Padova che la peste aveva mutato in un deserto, non avendo più soldati da mettere a guardia delle mura e delle porte, mentre i veneziani avevano già circondato il palazzo, fu inteso spesso da alcune guardie del corpo durante la notte invocare il diavolo di venirgli a dare la morte”.
Quanto a Branabo Visconti, co-despota di Milano “Il principale affare di stato è la caccia al cinghiale; colui che osa interferire sul percorso di caccia dell’augusto cacciatore muore tra i più atroci supplizi; il popolo tremebondo era costretto a sfamare cinque mila (!) cani da caccia…Alla morte delle moglie egli inviò una comunicazione ai suoi sudditi: questi dovevano prendere parte adesso al suo dolore così come in altri tempi avevano preso parte alle sue gioie, obbligandoli a portare per un anno intero anche loro il lutto”.
Megalomania e spregio delle pubbliche finanze “In Giangaleazzo (Visconti) si mostra in tutta la sua forza il gusto dei tiranni per le cose colossali. Egli dilapidò 300,000 fiorini d’oro nella costruzione di dighe gigantesche, che gli avrebbero permesso di deviare il Mincio da Mantova e il Brenta da Padova, privando queste città di queste difese naturali; è possibile che abbia vagheggiato di fare prosciugare le lagune di Venezia”.
Ancora cani “ Gian Maria (Visconti), anche egli fu celebre per i suoi cani; ma questi non sono più cani da caccia, ma bestie allevate per ridurre in brandelli un essere umano. Di questi cani si è conservato l’elenco dei nomi, come con i nomi degli orsi dell’imperatore romano Valentiniano I”.
E di seguito sempre su Gian Maria “Nel mese di maggio del 1409, durante la guerra ormai in corso da anni, il popolo affamato si mise a gridare per le strade: Pace! pace! Per tutta risposta egli fece caricare la folla dai suoi scherani che uccisero circa duecento persone. In seguito, diffidò il popolo dal pronunciare per qualsiasi motivo le parole pace e guerra, pena l’impiccagione”. E poi il tocco finale “si arrivò che i preti furono costretti a dire dona nobis tranquillitatem al posto di pacem”.
Straordinario poi quest’altro “Una mezza tirannia senza carattere fu quella che esercitò Pandolfo Petrucci, a partire dal 1490, nella città di Siena…Di personalità tanto mediocre quanto crudele, Pandolfo governava con l’aiuto di un professore di diritto e di un astrologo, e seminava di tanto in tanto il terrore tra i suoi sudditi facendone uccidere qualcuno. In estate, suo diletto era di far rotolare dei macigni dal monte Amiata, senza preoccuparsi di sapere chi o cosa ne venissero sfracellati”.
Anche i monarchi non fanno eccezione. Parlando di Ferrante d’Aragona, il bastardo di Alfonso il Grande “Oltre alla caccia, si dedicava a due generi di piaceri: amava tenere sempre nei suoi paraggi i suoi nemici, sia vivi e rinchiusi in delle gabbie, che morti e imbalsamati, con addosso gli abiti che solevano portare da vivi. Quando parlava di prigionieri ai suoi confidenti egli si compiaceva sogghignando; quanto alla sua collezione di mummie, non ne faceva affatto mistero”.
Sempre in tema di imbalsamatura, eccone uno che comandava da mummia “(Boldrino da Panicale) era colui che, sebbene bello che morto, comandò ancora sino a che non fu individuato un successore degno di lui; in effetti gli ordini uscivano da una tenda da campo tutta decorata di drappi, all’interno della quale era conservato il corpo imbalsamato dell’illustre condottiero”.
Certo, i tiranni italiani seppero promuovere fino ai massimi livelli le arti, le scienze, l’architettura ecc. Ma il circondarsi di genio e splendore fu un mezzo per supplire alla mancanza di legittimità, per creare un aura e un carisma particolari attorno al proprio potere, per stupire avversari e sudditi. Ma senza mutare di una virgola la percezione di illegittimità che il popolo profondamente aveva verso di questo.
Il lombrosario continua per tutte le pagine del Tomo I con altri illustri esempi, sicchè di despota in despota si comprende come quei tre secoli dal XIII al XV furono veramente fatali per la formazione del sentimento che l’italiano nutrirà verso il potere.
Contro un potere illegittimo e violento è legittimo il ricorso alla violenza, o così dovrebbe essere. Ma l’Italia è il Paese della morale cattolica, in tal senso come sedativo del popolo. Nei Promessi Sposi, quel vecchio che durante i tumulti milanesi per il pane agitava un martello, una corda e quattro chiodi, dicendo di volersene servire per attaccare il Vicario di Provvisione al battente di una porta, dopo che l’avessero ucciso, viene stigmatizzato, dal Manzoni, cattolicamente contrario alla violenza, e diventa il “vecchio malvissuto” dalla “canizie vituperosa”, con “due occhi affossati e infocati” e “un sogghigno di compiacenza diabolica”. Mentre per Manzoni “decorosa” è la “vecchiezza” del gran cancelliere Ferrer, che arriva per placare gli animi e lasciare che tutto rimanga come prima. Amen.

Edi Bivi

Edi Bivi su Barbadillo.it

Exit mobile version