Carlo Fecia di Cossato, il “corsaro dell’Atlantico” dimenticato

Il 27 agosto 1944 pose fine alla sua vita il comandante Fecia di Cossato, eroe d’altri tempi e asso dei sommergibilisti

Carlo Fecia di Cossato

Una Terra che non rispetta la vita e che non ha memoria non è degna di esistere. Venire al mondo, infatti, significa nient’altro che riflettere sul valore della gratuità e riscoprirsi in uno stato di eterni debitori di qualcosa, verso Qualcuno. Trasmettere saperi e saggezza è un imperativo vitale di ogni uomo, testimonianza vivente di ciò che le generazioni precedenti hanno ereditato dai loro avi e che a loro volta si accingono a trasmettere a quelle che verranno. Eppure la nostra, di Terra, sembra non aver mai fatto i conti con questa verità. Forse perché l’Italia, a differenza di altre nazioni, ha avuto una storia travagliata sin dal suo nascere. O forse perché siamo, ancora una volta, l’unica nazione al mondo che ha vinto l’ultimo conflitto mondiale pur perdendolo. Vita e memoria. All’interno di queste due coordinate potrebbe leggersi l’epopea di Carlo Fecia di Cossato (1908-1945), personaggio straordinario, asso dei sommergibilisti e simbolo vivente di fedeltà eroica ad una consegna sacra trasmessagli da generazioni e rinnovata personalmente dinanzi al Re.

Carlo Fecia di Cossato apparteneva ad una storica famiglia piemontese di nobili origini, da secoli fedele a Casa Savoia. Dalla fine del ‘700 essi iniziarono a servire il monarca come ufficiali del Regio Esercito. Il nonno di Carlo, Luigi Giuseppe Fecia di Cossato (1841-1921) partecipò all’assedio di Gaeta, ultimo atto del Risorgimento, e successivamente divenne generale di corpo d’armata. Fu solamente con la nascita del figlio di questi, Carlo (1875-1961), che la tradizione dei Fecia di Cossato abbracciò la Regia Marina. Egli prese parte alla prima come alla seconda guerra mondiale, oltre che a quella d’Etiopia e alla campagna di Spagna. 

Carlo Fecia di Cossato, figlio di Carlo e nipote di Luigi, quartogenito di sei figli, era dunque nato e cresciuto con l’orizzonte esistenziale del dovere. Era nato e cresciuto sotto quell’afflato atavico impronunciabile in tempi di decadenza, chiamato onore. In lui la simbiosi con la “famiglia allargata” della Regia Marina si instaurò sin da subito per attitudine e stile simile. Rispetto all’Aereonautica ed allo stesso Esercitò, essa infatti contò il numero minimo di defezioni all’indomani dell’8 settembre 1943, perché erano ancora emblematicamente vive le parole con il quale un giorno il comandante Cappellini azzittiva una recluta che reclamava diritti: “Sappia che un militare ha doveri, e non ha niun diritto. Neppure alla paga s’ha diritto; essa è un dono di Sua Maestà il Re, nient’altro”. La concezione cavalleresca che albergava nei cuori degli ufficiali di Marina, così come di quelli del Regio Esercito – e che spiega oltretutto le parole del com. Cappellini – riposava sulla dedizione esclusiva, anche a costo della stessa vita, verso la figura del Re. I ranghi degli ufficiali provenivano per la gran parte da famiglie nobili sabaude infeudate nei secoli dai Savoia. La terra gli consentiva di che vivere e permetteva loro di mettersi gratuitamente al servizio del Re, specialmente nelle forze armate. Questo avveniva tanto per gratitudine quanto per un’etica cavalleresca ancora fortemente viva. Il sovrano, infatti, si serve sui campi di battaglia versando il proprio sangue.

Ultimata la formazione presso l’Accademia Navale di Livorno giunse così il tempo di prendere il mare. L’amore per questo mostro marino letale ed affascinante, da parte di Carlo, scoccò sin dal primo istante. Il sommergibile ti fa sentire al caldo, al riparo dalle intemperie. L’equipaggio si fonde con te instaurando una comunione di vita ed uno spirito di affratellamento che non ha eguali. La vita del singolo viene riposta nelle mani di ognuno e la sorte di tutti è affidata alla saggezza ed esperienza del comandante. Carlo Fecia di Cossato ebbe modo di constatarlo nelle acque del Pacifico, del Mediterraneo, partecipando alla guerra d’Etiopia e a quella di Spagna. Ma dove si dispiego la sua audacia e si intravide il suo temperamento fu nell’Atlantico.

17 affondamenti, tra cui un quadrimotore, per 86.535 tonnellate di naviglio inabissato, il secondo miglior comandante italiano della seconda guerra mondiale dietro a Gianfranco Gazzana Priaroggia. Una medaglia d’oro, due medaglie d’argento, due medaglie di bronzo e una croce di guerra al valor militare. Tre croci di ferro tedesche, infine, vanno a completare il profilo di uno dei più coraggiosi ed indomiti comandanti del secondo conflitto mondiale. Eppure tutto questo non racconterebbe ancora sufficientemente la figura di Carlo Fecia di Cossato. 

Alcuni gesti, infatti, mostrano più di ogni numero, più di qualsiasi medaglia la stoffa dell’uomo. Quando gli ordinarono di prendere il comando del sommergibile Enrico Tazzoli, ancorato alla base BETASOM di Bordeaux, Fecia di Cossato aveva 33 anni. Gli occhi chiari, che alcune foto immortalano mentre cammina sul ponte in impermeabile, incurante delle intemperie, o mentre scambia dei consigli con alcuni membri dell’equipaggio, sembrano rivelare dell’altro celato dietro le imprese che si susseguono l’una dietro l’altra. Essere parte di una comunità, sentirsi partecipe di un destino, adempiere fedelmente al suo giuramento sino in fondo. Sulla torretta del Tazzoli, mentre imbracciava il binocolo per scrutare l’orizzonte, quante volte il suo guardo è finito lì: sulla bandiera di bompresso o jack di prora. Lo scudo sabaudo, una croce bianca su sfondo rosso incorniciato del blu Savoia e tutt’attorno distese dello stesso colore che rendevano cielo e mare un unico sfondo, omogeneo, costante, universale. 

L’11 marzo 1942, giunto vicino le cose americane, il piroscafo panamense Cigney viene avvistato dal Tazzoli e Fecia di Cossato ne ordina il siluramento. Mentre il sommergibile italiano emerge ed inizia ad apparire in superficie, i membri dell’equipaggio lo vedono che scatta verso la torretta, apre il boccaporto e ritto sulla torretta mostra ai naufraghi del Cigney il tricolore con la croce sabauda, gridando: “E adesso andate a raccontare agli americani che non è vero che gli italiani vengono fin qui ad affondare le navi” (Orazio Ferrara, Carlo Fecia di Cossato, in Eserciti nella storia, n. 64, Settembre/ottobre 2011).

Al Tazzoli, affondato alla prima missione dopo che lui avrà lasciato il comando – e per cui soffrirà terribilmente sino alla fine della sua vita – seguirà il comando dell’Aliseo. Il giorno dell’armistizio, nel porto corso di Bastia, affronterà in solitaria sette unita navali tedesche “che affondava a cannonate dopo aspro combattimento, condotto con grande bravura ed estrema determinazione. Esempio fulgidissimo ai posteri di eccezionali virtù di comandante e di combattente e di assoluta dedizione al dovere”, ricorda la targa con cui veniva insignito della medaglia d’oro al valor militare.

Valor militare che gli provocò grandi sacrifici e sofferenze. La decisione di fedeltà al Re, pur non venendo mai meno, diverrà costante oggetto di meditazione. Le insofferenze alla base navale di Taranto furono molte. Il sentimento di Fecia di Cossato si può riassumere con le parole del capitano di Vascello Forza, comandante di Mariassalto: “i marinai della RSI – egli spiegava – combattevano per l’onore di questa marina, ma loro (i marinai fedeli al Re n.d.a.) per la marina avevano dato molto di più, avevano dato l’onore!”. 

Quando il governo Bonomi, nel giugno del ’44, pose la condizione di insediarsi senza dover formulare il giuramento dinanzi al Re, scoppiarono tumulti tra gli ufficiali della base navale di Taranto. Carlo Fecia di Cossato si rifiuto di obbedire agli ordini dell’ammiraglio Nomis di Pollone, assumendosi la responsabilità di uomo d’onore, il quale non baratta la sua dignità dinanzi ad alcun compromesso: “No, signor ammiraglio, – disse – il nostro dovere è un altro. Io non riconosco come legittimo un governo che non ha prestato giuramento al Re. Pertanto non eseguirò gli ordini che mi vengono da questo governo. L’ordine è di uscire in mare domattina al comando della torpediniera Aliseo. Ebbene l’Aliseo non uscirà”.

Accusato di insubordinazione, fu posto agli arresti e rilasciato in seguito sotto pressione governativa, vista la fama e il seguito che attirava il suo nome tra le fila dei marinai e degli ufficiali. L’amico Ettore Filo della Torre lo ospitò a Napoli a Villa Pavoncelli, ove rimase tre mesi. Smarrito e impotente davanti agli eventi che aveva veduto ed al mondo che vedeva dinanzi, scelse di rifugiarsi in ciò che aveva di più caro.

L’onore, il sacrificio, la fedeltà al Re e alla parola data. Il tricolore con lo stemma sabaudo. Il suo equipaggio del Tazzoli, in fondo al mare. L’addio in una lettera scritta alla madre. Il “Viva il Re” sicuro, gelido, fermo, distinto… e poi solo il clic del grilletto della pistola puntata alla tempia, che pose fine ad un comandante della Regia Marina.

Mamma carissima,                                                                                                                                           

quando riceverai questa mia lettera saranno successi dei fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile. Non pensare che io abbia commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuro. Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci é stata presentata come un ordine del re, che ci chiedeva di fare l’enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d’uscita, uno scopo nella mia vita. Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è con loro. Spero, mamma, che mi capirai e che anche nell’immenso dolore che ti darà la notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato. Tu credi in Dio, ma se c’è un Dio, non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell’ora. Per questo, mamma, credo che ci rivedremo un giorno. Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete.

Carlo 

@barbadilloit

Diego B. Panetta

Diego B. Panetta su Barbadillo.it

Exit mobile version