Il commento. La crisi della scuola e lo sfascio del sistema Italia

crisi scuolaQuando, in Italia, si parla di scuola, per solito, la si prende da due versanti: da una parte, esiste un approccio, per così dire, sindacale, ossia ci si lamenta per i bassi stipendi, per le strutture insufficienti, per gli sballatissimi criteri di selezione, formazione, avanzamento carriera. Dall’altra, invece, si schierano i lodatori del tempo che fu: i gentiliani delusi, le prefiche della pubblica istruzione, insomma.

Quel che mi pare manchi è il quadro d’insieme: la visione complessiva di un meccanismo educativo e culturale che sta producendo la “catastrofe Italia”, vale a dire quel complesso meccanismo sinergico che ci sta conducendo rapidamente allo scomodo ruolo di esempio di come una nazione possa scomparire. E, quel che è peggio, scomparire senza nemmeno combattere: estinguersi dolcemente, come una vecchina centenaria, che trapassa nel sonno. E i parenti, a mezza voce, commentano: in fondo è meglio così, e più che vecchi non si campa! Dunque, il sistema italiano è una sorta di gatto che si morde la coda, oppure di cane, o di serpente primigenio, se qualcuno preferisce metafore più elette: tout se tient, e l’adagio, nel caso della cultura del nostro Paese è quanto mai espressivo. Però, visto che da qualche parte dobbiamo cominciare, cominciamo dalla scuola: dalla scuola, in fondo, nasce il fiumicello, che, passo passo, si avvia diventare spaventevole cascata e gorgo.

Una certa idea di cultura, ha preso le mosse proprio di lì: dalla scuola. Qualche anima bella, a suo tempo, vide nella scuola lo strumento per avviare alla rivoluzione le giovani menti. Per snebbiarle, in definitiva, dalla caligine borghese: la scuola, si disse, deve essere antiselettiva, anticastale, aperta alle questioni sociali. Va da sé che questi rivoluzionari da operetta, con la loro idea gramsciana dell’occupazione della cultura, avessero fatto i conti senza l’oste: non avessero, di fatto, calcolato che, se si butta via tutto quello che c’è nella tinozza, insieme all’acqua sporca, ci si rimette anche il bambino che ci stava in ammollo. Una scuola antiselettiva funziona, se si applica ad una società con solide basi culturali: in parole povere, una bella rivoluzione si può fare, se dall’altra parte c’è un mondo conservatore da rivoluzionare. Se si cancella proprio quel mondo, senza proporne un altro, altrettanto funzionale, in cambio, si va a remengo.

La rivoluzione dura il breve spazio di una stagione: la rivoluzione permanente è semplicemente disordine, decadenza e monotonia. Per tenere vivo il meccanismo rivoluzionario, venne inaugurata la scuola delle sperimentazioni, dell’assemblearismo: questa ha mostrato ben preso la corda, ma, ormai, indietro non si poteva più tornare. Così, il sistema educativo ha iniziato ad avvitarsi su se stesso. Perché, se le rivoluzioni hanno tempi frenetici, la storia, invece, guarda lontano: quando gli studenti formati da questo coacervo di banalità educative, di teorie psicodidattiche e di semplice voglia di far niente, sono, a loro volta, diventati insegnanti, non avrebbero potuto, neppure volendo, tornare ad insegnare come si faceva prima, con pedante rispetto della nozione, con attenta lettura della dottrina. Così, proseguirono e, anzi, accelerarono sulla via della semplificazione banalizzante, del facilismo, della mancanza assoluta di selettività. Da parte loro, i sindacati contribuirono a fiancheggiare robustamente l’operazione: l’idea che, bocciando, si cancellassero classi, quindi cattedre, quindi posti di lavoro, e, perciò, bocciare non si deve,  è semplicemente criminale, e qualcuno, prima o poi,  farebbe bene ad assumersene la responsabilità. Naturalmente, alcune roccheforti del conservatorismo culturale, resistettero più a lungo: università, licei classici, istituti di ricerca. Ma, a colpi di riforme, anche queste sacche di caparbia resistenza, una ad una, crollarono. Nel frattempo, i figli sfortunati di una cultura d’accatto cominciavano ad arrivare ai vertici del sistema educativo e culturale: entravano in università, prendendo il posto dei vecchi baroni, finalmente. Erano i contadini e gli operai che scalzavano la vecchia classe dominante, oppure, semplicemente, erano arrampicatori che buttavano giù dall’ultimo gradino della scala il precedente satrapo? A voi l’ardua sentenza: fatto si è che l’università ha cominciato ad assumere la fisionomia di questa nuova classe docente: esami semplificati, rateizzati, crediti scolastici, testi banalizzati, classici tradotti in italiano, tesi risibili. Intorno al giro di boa del millennio, l’università italiana ha eguagliato gli standard negativi che avevano contraddistinto, prima la scuola dell’obbligo e poi quella secondaria di secondo grado, ossia le superiori. Adesso, nelle scuole e negli atenei, cominciano ad arrivare proprio i laureati di questa ultima stagione di decadenza: e sono, nella stragrande maggioranza dei casi, catastrofici analfabeti. Non sanno tradurre, non sanno decifrare, non sanno progettare: sono ricchi soltanto delle gigantesche aspettative che il sistema ha inculcato nelle loro menti. Sono spesso dotati di notevole autostima, perché, parafrasando il filosofo, non sanno di non sapere: e ne vanno orgogliosi. Ecco come funziona questo circolo vizioso: cattivi insegnanti che formano studenti ancora peggiori, che, a loro volta, diventeranno pessimi insegnanti, che produrranno studenti ulteriormente impreparati e così via. Naturalmente, la politica, ovvero l’unico meccanismo in grado di cercare di arginare questa deriva e di porre, se non altro, in atto dei palliativi, è il paradiso della subcultura, il trionfo dell’incapacità e dell’assenza di meriti: impensabile che di lì provenga lo scatto d’orgoglio che cerchi d’invertire l’inerzia di questa dinamica. Ne deriva che l’apparato educativo e culturale è messo in un angolo: volutamente trascurato, ostentatamente dimenticato. Perché, in realtà, intervenire per cercare di sanarlo significherebbe testimoniarne il valore intrinseco e, quindi, implicitamente, denunciare la disastrosa paternità di questo suicidio culturale e civile. Meglio, per amor di pace, che i morti seppelliscano i morti: che le cose vadano come devono andare e che la reazione a catena produca la definitiva cancellazione della nostra civiltà culturale.

Questo vi dovevo: non perché creda che si possa rimediare al disastro, ma perché, almeno nessuno possa dire che non eravate state avvertiti. In tanti, oltre a chi scrive, hanno chiarissimo questo pestilenziale processo: alcuni, disperatamente, hanno anche cercato di opporvisi, ma con deboli braccia e con la canea schierata a difesa dello status quo, dell’excelsior. Erano voci di gente che grida nel deserto. E, adesso, il deserto è diventato discarica: è un abisso da cui risalire è divenuto improbo. Ma sappiate che anche questa sconfitta, ultima e definitiva, come tutte le nostre Caporetto, ha un padre e una madre: non è orfana. Quando, tra non molto, qualcuno, magari proveniente proprio da quella ignobile genia che ha procurato questo disastro, si alzerà a denunciare la catastrofe, spero vi ricorderete di queste parole. E che abbiate, allora, il coraggio di zittirlo: ai funerali si addice il silenzio, non le strida dei ciarlatani.

Marco Cimmino

Marco Cimmino su Barbadillo.it

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