Focus. Se la parola “negazionista” inquina il dibattito sulle libertà democratiche

Tra i no-mask e il bigottismo degli allarmisti c'è di mezzo la tenuta sociale e civile del Paese.

È davvero difficile stabilire se siano più potabili le uscite dei no-mask o le giaculatorie allarmiste dei cosiddetti anti-negazionisti. Non fosse altro che una buona parte di questi ultimi, fino a marzo, non solo negavano il pericolo pandemico in avvicinamento, ma addirittura mortificavano chiunque andasse in metro con la mascherina o disinfettasse pubblicamente le mani con l’amuchina. 

Il caso di Nicola Zingaretti è assai semplificativo (e non è opportuno tornarci). Ma c’è anche quello di Andrea Scanzi, passato da negatore a campione di vendite con il suo “I cazzari del Virus”. Anche questo sarebbe un caso da studiare. In mezzo ci sono sicuramente i cambi di registro repentini di Matteo Salvini e i passaggi dal «chiudiamo tutto» all’«apriamo tutto» in una fase dove anche la sua comunicazione è entrata in avaria. Ma quella è un’altra storia. 

Non ci piacciono

Francamente i vari generali Pappalardo non ci piacciono affatto. Così come quelli che bruciano le foto del Papa in piazza o come chi si ostina a credere (perché è una credenza) che il virus sia un’invenzione dei governanti. Certe posizioni hanno lo stesso peso del terrapiattismo. Anzi, piacciano esclusivamente a certi tipi umani che vivono a prescindere di sospetti sul potere e le autorità tutte. Che sia stato tirato in ballo anche in questa occasione la dice tutta.

C’è da dire, di rimando, che le forzature dei saccenti e l’eccessiva messa in vetrina di un fenomeno altrimenti da baraccone (il terrapiattismo, appunto) – e per motivi che ci sfuggono – hanno creato un’appartenenza. Un’appartenenza che porta gli altri, gli araldi della razionalità pura, a sentirsi migliori in un gioco di posizione stucchevole.

In verità, è pur sempre necessario avere un nemico su cui vomitare addosso la propria superiorità. Si troverà sempre qualcuno chiamato a tirare manganellate per azzerare le sfumature e sollevare nuove distinzioni tra bianchi, neri, puri, impuri, buoni o cattivi. 

Certezze

Chi vi scrive vorrebbe in questa fase pandemica più mascherine, più igienizzanti e il mantenimento delle giuste distanze (senza rinunciare all’umanità). Vorrebbe più lavoro e più certezze per chi non è garantito. Francamente non possiamo permetterci una nuova serrata, né rischiare individualmente di finire in ospedale o infettare chiunque ci stia accanto. 

La stagione dei droni, delle autocertificazioni e delle scuole chiuse non deve ripetersi. Ma neanche quella del biasimo continuo, della condanna a prescindere (vedi i runner), del puritanesimo anti-svago o di quanti stanno in rete a fustigare chi posta un selfie senza mascherine, manco fossimo nella Ddr.   

È impossibile verificare se un lockdown tanto esteso abbia evitato scenari peggiori. Su questo va sospeso il giudizio. Pensare che forse si sarebbero potuti attuare protocolli differenti è ben altra cosa: è un esercizio critico da difendere a prescindere, anche quando non si condividono tutte le analisi in campo. In fondo, davanti a ogni crisi, sarà sempre un governo in carica a dettare la linea. La parola negazionista toglie però l’opportunità della riflessione, appunto perché evoca la macchina terrificante dell’Olocausto e i crimini che ci stanno dietro.

Una brutta parola

Negazionista non è una parola tra le altre. Ha un carico oggettivamente oscuro, pesante, claustrofobico. Una carta che azzera il dibattito e che fa, guarda caso, rima con nazista (il nemico per eccellenza della civiltà contemporanea). L’intervento di Robert Kennedy Jr (il nipote di JFK) pronunciato la settimana scorsa a Berlino (magari non condivisibile), non viaggiava affatto su frequenze brune, ma trasudava semmai di invettive liberali, progressiste e orgogliosamente no-nazi.  

A Roma, nella manifestazione nazionale degli anti mascherine, c’era sicuramente chi bazzica gli ambienti della destra-destra. Ma anche altra umanità. Sicuramente c’era gente che teme il tracollo economico e nuove restrizioni alle libertà individuali. Gli effetti del virus sono e saranno anche questi. Sebbene sia stata una piazza sfilacciata, in parte sguaiata, caotica nei modi, nelle idee e nelle soluzioni, rappresenta però un sentimento presente nel Paese. Non si può far finta di nulla. 

La gaffe di Conte

Nei giorni scorsi il premier Giuseppe Conte ha ammonito (giustamente dal suo punto di vista) la piazza romana. Lo ha fatto con un «Punto!» che non lascia spazio a repliche. Ecco come l’Hp ha rilanciato il video con le parole del presidente del consiglio: titolo «La risposta di Giuseppe Conte stronca “i negazionisti” del Covid»; testo «Bastano i numeri, non servono tante parole. Il premier Conte, intervenuto alla festa del Fatto Quotidiano, risponde ai negazionisti nel modo più semplice ed evidente possibile: con i numeri, drammatici, della pandemia». 

Il problema è che i numeri forniti dal premier erano alterati, glielo ha fatto notare nell’immediato il direttore Antonio Padellaro: «35mila decessi, no 135mila». Probabilmente Conte non si è accorto del refuso, succede. Ma la notizia postata così inquina il dibattito. 

La critica legittima

I critici di questa gestione non sono tutti negazionisti (e ci mancherebbe). Ci sono persone di grande autorevolezza. A partire da Sabino Cassese che non ha gradito il prolungarsi dello stato d’emergenza. Oppure Giorgio Agamben, Massimo Cacciari, Marcello Veneziani. Tutti con accenti e motivazioni differenti (Vivaddio!). 

Una parola così violenta («negazionista») però annulla qualsiasi differenza, le appiattisce verso il basso e le svuota. Probabilmente ha ragione Corrado Ocone quando dice che la piazza di Roma mortifica gli sforzi di quanti si aggrappano ai principi della libertà per puntellare le scelte governative. In tal senso, però, non si può intervenire in alcun modo.

La violenza verbale

In Occidente, purtroppo, da anni l’avversario è sempre più un nemico, un criminale. Una questione seria che va nella direzione opposta rispetto ai binari della Modernità. E che tocca nel profondo gli statuti democratici. La pandemia, con l’opzione della serrata totale, ci ha messo d’innanzi alla possibilità che alcuni diritti possano essere messi realmente tra parentesi. Pensare che la cosa in sé non avrebbe sollevato interrogativi è da ingenui. 

L’aggressività delle cattive etichette produce però effetti collaterali che alterano il dibattito pubblico, mettendo in crisi qualsiasi patto di convivenza civile. Anche questo va tenuto in considerazione. La continua criminalizzazione dell’altro, almeno in Italia, ha reso questo paese ingestibile. Pensiamo che sia così anche altrove. Ne dobbiamo uscire quanto prima. Ma, dato il clima, siamo assai pessimisti che tutto ciò possa avvenire nel breve periodo. 

Fernando M. Adonia

Fernando M. Adonia su Barbadillo.it

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