Da Minardi all’Alpha Tauri, un’altra (bella) storia italiana nei motori

Il trionfo a Monza, le lacrime e la rivincita del milanese adottivo Pierre Gasly: senza sogni lo sport non è nulla

lo Di tutte le immagini dell’ultimo Gran Premio d’Italia una risalta su tutte: la cerimonia del podio è finita da un po’ ma c’è un ragazzo con la sua tuta bianca che resta seduto sul gradino più alto per parecchi minuti dopo la premiazione, la testa tra le mani, tutto intorno i coriandoli e alle sue spalle la coppa e la bottiglia vuota di champagne; sembra quasi non voglia scendersi o che voglia prendersi tutto il tempo che gli serve per rendersi conto dell’impresa appena compiuta ed è probabile che non ci sia ancora del tutto riuscito. D’altronde, sul podio c’era salito solo una volta in vita sua, secondo in Brasile l’anno scorso, quando la sua squadra si chiamava Toro Rosso.

Quel ragazzo, ovviamente, è Pierre Gasly; si, lo stesso che una settimana fa aveva commosso gli appassionati, prima deponendo un mazzo di fiori contro le barriere al Raidillon, nel punto dove il suo grande amico Anthoine Hubert era stato protagonista nel 2019 della carambola fatale in F2 e poi, tenendo giù il piede giù verso l’Eau-Rouge e completando il sorpasso su Sergio Perez, nonostante questi lo avesse letteralmente “accompagnato” verso il muro

 

https://www.youtube.com/watch?v=MpvnpZRhNjo.

 

Lavoro e sacrificio

La storia di Gasly è davvero una favola ed è fatta di etica, lavoro e tanto sacrificio: vincitore della GP2 (oggi Formula 2) nel 2016 ma senza un volante tra i grandi, prima di arrivare in F1 nel finale del 2017, il francese aveva corso ancora tra  la Formula E e la Super Formula, per poi arrivare in Red Bull nel 2019 (dopo un’ottima stagione 2018 in Toro Rosso) ed essere spedito di nuovo in Toro Rosso, di fatto “retrocesso”, per via dei risultati non buoni, al cospetto di Max Verstappen, risultati che la stessa stampa italiana oggi in festa (Pierre vive a Milano ed è un milanese d’adozione) non perdeva occasione di sottolineare e schernire, gli stessi che il nostro ha saputo convertire in applausi, rilanciandosi alla grandissima.

Eppure, da qualche parte, al termine di questa girandola di emozioni, c’è qualcun altro che sicuramente avrà abbozzato un mezzo sorriso, magari di fronte ad un bel bicchiere di Sangiovese, ovvero quel Gian Carlo Minardi, storico patron dell’omonimo team, protagonista del Circus tra il 1985 e il 2005…certo che tra Minardi, Red Bull, retrocessioni, cambi di livree si fa gran confusione e si rischia un gran mal di testa: a questo punto, la storia merita di esser raccontata fin dall’inizio, ripercorrendo quel lungo filo che lega Rio de Janeiro, anno 1985 alla storica Monza 2020.

Una storia italiana

Come detto, Minardi entra in F1 con la sua scuderia (nata sei anni prima a Faenza, nella Romagna) nel GP del Brasile 1985 e completa la sua prima stagione schierando il solo Pierluigi Martini (che alla fine sui 118 Gran Premi totali corsi in F1, ne corre ben 102 con Minardi, spalmati tra diverse annate): sono i ruggenti anni ‘80, quelli delle prequalifiche, dei turbo prima e dei V10, V12 dopo e di soldi non ce ne sono sempre molti ma le Minardi riescono sempre a spuntarla, legittimandosi nel tempo come una presenza stabile e come una fucina per giovani piloti.

Non che manchino i risultati, visto che ottenuto con Martini (sul cittadino di Detroit) il primo sospirato punto nel 1988 (in un’era dove i punti erano solo per i primi sei), l’anno dopo ne arrivano ben sei e il 1990 si apre addirittura con la seconda posizione del solito Martini, conquistata nell qualifiche di Phoenix.

Certo, le difficoltà economiche diventano una fedele compagna di viaggio ma anche gli anni ‘90 vengono brillantemente superati (il 7° posto tra i costruttori del 1991 rimarrà il miglior piazzamento nella storia della scuderia) e nonostante si debba spesso ricorrere ai piloti con la valigia, si trova anche il tempo di far chiudere la carriera a Michele Alboreto (1994) e di far esordire Giancarlo Fisichella e Jarno Trulli (1996 e 1997), allora giovani speranze del nostro automobilismo.

Di mano in mano

La cessione all’australiano Paul Stoddart, già sponsor della squadra con il marchio European Aviation, nel 2001, serve per garantire nuovi capitali e accompagna l’esordio, tra il 2001 e il 2002, di Fernando Alonso e Mark Webber, quando ormai però il tempo sta per finire, visti i costi diventati ormai insormontabili: dopo 340 gran premi infatti (senza purtroppo neanche un podio), l’intero gruppo viene ceduto alla Red Bull (che già aveva esordito nel 2005 con la propria scuderia nata sulle ceneri della Jaguar) che lo ribattezza Toro Rosso e ne fa la seconda squadra, garantendogli finalmente la stabilità economica, in vista dell’esordio datato 2006; il primo anno non è eccezionale, la vettura è praticamente la copia della casa madre Red Bull fatta correre nel 2005 e monta un motore Cosworth depotenziato, ottenendo soltanto un punto con Vitantonio Liuzzi nel carambolesco evento di Indianapolis.

L’era Red Bull

Già dall’anno successivo però la musica cambia: si monta un V8 Ferrari e al muretto siede, di fianco al Team Principal Franz Tost, Gerhard Berger (che possederà alcune quote della Toro Rosso fino al novembre 2009), mentre a metà anno arriva il giovane Sebastian Vettel che ottiene un grandioso 4° posto in Cina (Liuzzi sesto); tutto questo è soltanto il preludio della clamorosa stagione 2008 che porta in cascina addirittura un podio, un solo podio che però assume le dimensioni dell’impresa: Monza, Gran Premio d’Italia, pioggia in prova e condizioni mutevoli in gara ma Vettel non si scompone e scattato autorevolmente dalla sua prima pole,  l’unica del team faentino, si prende il primo successo in F1 (divenendo all’epoca il più giovane vincitore di sempre) e si mette in rampa di lancio per la promozione nella “prima squadra” dal 2009, rimanendovi fino al 2014 e vincendo quattro titoli mondiali; è probabile che anche all’epoca il buon Minardi, commosso,  debba aver festeggiato di fronte ad un buon bicchiere di vino romagnolo.

Certo, nei corsi e ricorsi storici, ripensando a quel 13-14 settembre 2008, nessuno poteva credere a quanto visto domenica, anche perché fino al 2018 compreso, la Toro Rosso ottiene sempre buoni piazzamenti, lancia Ricciardo, Verstappen, Sainz e lo stesso Gasly ma di arrivi in Top 3 nemmeno l’ombra; ecco, rimaniamo sul 2018 e sulla scelta fondamentale di passare ai motori Honda, dopo quattro stagioni coi V6 Renault e anticipando in questo di un’annata la Red Bull, dalla quale comunque, livree a parte, ha assunto una maggiore autonomia, per lo meno sotto il profilo tecnico.

Il motorista giapponese, dopo le quattro soffertissime e disastrose  annate perse con la McLaren e caratterizzate dalle pessime figure, sia per le deludenti prestazioni (i più appassionati si ricorderanno il team radio di Alonso che definiva quel propulsore “GP2 Engine”, proprio sulla pista di Suzuka che è di proprietà della Honda stessa) che per la scarsissima affidabilità, trova nel gruppo di Faenza un ottimo partner con il quale crescere, guidata da Brendon Hartley e da Pierre Gasly, che alla sua prima stagione completa si toglie la soddisfazione di arrivare quarto in Bahrein e che nel 2019 viene promosso, guidando ancora per Honda ma per la casa madre austriaca.

I risultati però non arrivano e a metà anno il ritorno in Romagna (Alexander Albon, nello scambio casacca, lo sostituisce a fianco di Max Verstappen) assume il sapore amaro della sconfitta: intanto, la Toro Rosso era tornata sul podio in Germania, dopo quasi undici anni, con Kvyat (altro rifiuto Red Bull che pure lo aveva promosso titolare nel 2015, salvo poi sostituirlo col gioiello Max dopo poco più di un anno e due podi) bravissimo terzo dopo una pazza gara segnata dal maltempo; Gasly ri-esordisce con un 9° posto nel particolarissimo gran premio belga e chiude il campionato col suo primo podio all’attivo in carriera, secondo alle spalle di Max Verstappen nel già citato gran premio brasiliano.

L’arrivo di Honda

E’ a questo punto che il team subisce un nuovo scossone, pur mantenendo i motori Honda e soprattutto la licenza italiana: il gruppo di Dietrich Mateschitz, è risaputo, sa legittimarsi come una realtà ambiziosa, non nuova alla speculazione, al rischio degli investimenti milionari e alla politica delle porte girevoli nel mondo dello sport (non è questa la sede ma sarebbe interessantissimo analizzare approfonditamente la scalata che hanno fatto nel mondo del calcio, arrivando fino al Salisburgo e soprattutto al RB Lipsia, semifinalista nell’ultima edizione della Champions) e decide di lanciare nel mondo delle corse addirittura il suo marchio di abbigliamento, fondato anch’esso nel 2006: la squadra assume  così il nome di Scuderia AlphaTauri e si caratterizza per la bianca livrea, nonché per le strategie commerciali avveniristiche, anche questa non una novità, realizzate attraverso un costante uso delle reti sociali e consentendo agli appassionati di poter scaricare sfondi, foto e modellini della AT01 cartonati, saziando così la fame dei più famelici appassionati ma anche dei più piccoli che magari si vedono la passione trasmessa dai loro papà.

I piloti restano Kvyat e Gasly, la zona punti è l’obiettivo minimo che viene raggiunto puntualmente da almeno uno dei piloti in tutte le corse, salvo l’Ungheria; il motore si dimostra sempre molto prestazionale, le velocità di punta stanno lì a dimostrarlo e sebbene il podio permanga un obiettivo difficile e mai alla portata, gli uomini di Faenza continuano a credeteci, cercando di sopperire alle manchevolezze della vetture con delle tattiche molto eclettiche (si veda la scelta delle Hard in Belgio per Gasly, così da allungare al massimo il primo stint e comunque facendogli fare un’ultimissima parte di gara con le gomme più morbide, fondamentale per rimontare fino all’ottava posizione).

Già, alla voce strategie super va inserita la tattica monzese che unita alla Safety Car e alle penalità di Hamilton, consente al francese di involarsi, preoccupandosi soltanto di gestire gli pneumatici e il futuro ferrarista Sainz alle sue spalle, indemoniato nella rimonta a bordo della sua McLaren che alla fine nulla può, visto che Pierre fa bene i calcoli e riesce a prendersi un clamoroso trionfo.

Il sogno come essenza dello sport

Chissà a cosa pensava nel giro di rientro, forse al suo amico Anthoine, forse ai precedenti diciotto mesi, forse a nulla, lasciando che la radio fosse la sua principale valvola di sfogo mentre tutti i suoi colleghi, in primis Romain Grosjean, già si complimentavano con lui; per altro, appena sceso, l’abbraccio di un Leclerc già in borghese (i due sono cresciuti praticamente insieme, nelle corse, come nella vita) serve soltanto per conferire una maggiore epicità ma anche una forte umanità ad una domenica d’altri tempi ed è come se quel lungo filo partito nel 1985, passato per Martini, Sala, Morbidelli, Fittipaldi, Alboreto, Fisichella, Marques, Trulli, Alonso, Webber, Albers, Vettel, Liuzzi, Kvyat, Buemi, Vergne, Ricciardo, Verstappen e adesso Gasly avesse chiuso un nuovo cerchio.

In un tempo come quello attuale dove la Ferrari fatica, sentire comunque l’inno italiano in quel di Monza (dopo il successo di Leclerc del 2019), a distanza delle analogie di dodici anni fa, ha fatto di nuovo un gran piacere; poco importa se dalla prossima si tornerà a lottare per la zona punti, perché in ogni sport che si rispetti deve esser garantito il diritto di sognare e a Faenza hanno saputo non soltanto rispettarlo ma anche farlo valere e reificarlo e già questo, in un mondo iperveloce come quello della F1, dove non c’è tempo per pensare e dove non sempre c’è spazio per l’imprevedibilità o per i sentimenti, merita già di per sé l’onore delle armi.

 

 

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

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