Focus Storia. “I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana”

Edito per la Mursia, il saggio del giornalista Marco Petrelli analizza la figura di Josip Broz durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale

Gli jugoslavi erano più nazionalisti che comunisti” ricordava, prima della morte,  Mario Toffanin, “Giacca”, comandante partigiano responsabile  dell’Eccidio di Porzus. E’ una delle tante testimonianze raccolte dal giornalista ternano Marco Petrelli nel suo I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia, sett. 2020).

Lo studio di Petrelli segue due direttrici: la prima analizza il ruolo giocato dai combattenti jugoslavi nella guerra civile italiana, la seconda la figura di Josip Broz “Tito” durante e dopo la 2° Guerra Mondiale. 

L’autore parte da una considerazione interessante: se l’ideologia servì a compattare i litigiosi popoli balcanici nella lotta contro l’Asse, il nazionalismo fu la malta per tenerli uniti in un comune progetto nazionale.  

D’altronde, la breve esperienza del Regno di Jugoslavia aveva palesato la difficoltà di croati, bosniaci, kosovari, sloveni, croati, serbi a vivere sotto lo stesso tetto. La Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia avrebbe dunque rappresentato quel fine al quale arrivare, insieme, dopo un sanguinoso conflitto.

Nazionalismo che, come ricorda “Giacca”, prende il sopravvento sul comunismo stesso, ideologia nella quale anche Tito crede… fino ad un certo punto.

La linea seguita in politica estera nel dopoguerra – spiega Petrelli – mostra come l’interesse principale del Maresciallo Tito fosse quello nazionale, nonché il consolidamento del proprio potere. L’espulsione dal Cominform, l’apertura agli inglesi e agli americani (suoi principali alleati già nella Seconda Guerra Mondiale), il non allineamento fra Patto di Varsavia e NATO) e  altresì l’atteggiamento tenuto durante la rivolta di Budapest con l’offerta di asilo a Nagy, sono segni inequivocabili della condotta di una nazione sì socialista, ma ormai molto lontana dalle posizioni di Mosca”. 

Marco Petrelli affronta anche il non meno delicato argomento delle Foibe e dell’Esodo, sostenendo che l’esecuzione in massa degli italiani avesse poco o nulla a che fare con il comunismo. 

Nell’ottica di costruire un nuovo stato, Tito eliminò infatti tutte quelle minoranze che avrebbero potuto ostacolare il suo progetto. Nel caso degli italiani si trattò probabilmente di dimostrare che essi non fossero secolarmente legati all’Istria e alla Dalmazia, ma solo usurpatori ed occupanti contro i quali scatenare la pulizia etnica,  quest’ultima elemento ricorrente nella storia balcanica dal Medioevo ai nostri giorni. 

Circa vendette come risposta  alle crudeltà e ai campi di concentramento, Petrelli ricorda che:

l’internamento di civili stranieri fu prassi piuttosto comune in tutti i paesi belligeranti, Alleati e dell’Asse. Ciò non giustifica le sofferenze subite dai singoli, ma offre uno spaccato più chiaro della diffusa, scarsa sensibilità  che al tempo le nazioni avevano per individui considerati ‘ostili’. Tuttavia non ho voluto tralasciare alcunché: nel libro riporto infatti i nomi dei campi e le liste dei criminali di guerra italiani, inserite in una ricca appendice fotografica che accompagna il volume. Si tratta quasi sempre di gente comune, non per forza iscritta al Partito fascista. Anzi, sul finire della guerra gli anglo-americani iniziarono ad aggiornare quelle liste con elementi della RSI, permettendo così a molti criminali di farla franca soprattutto coloro i quali, dopo l’8 settembre, erano passati con il Regno del Sud e dunque figuravano, a fine conflitto, come antifascisti”. 

Con la prefazione di Stefano Gensini.

Redazione

Redazione su Barbadillo.it

Exit mobile version