Willy/4. Da Eco alla Ferragni, alla ricerca del fascismo che non c’è

Rifiutandosi di guardare al fascismo come fenomeno storico si scade nei "fascistometri" e negli Ur-fascismi

Giustizia per Willy

E’ arrivata quasi a superare l’ossessione per il Covid, la marea di cronache, interviste e commenti intorno all’assassinio del povero Willy Monteiro Duarte. Un grave fatto di sangue, come purtroppo ne accadono altri, da sempre, in tutto il mondo, ha fornito,  in questo caso, lo stimolo atto a scatenare la pigra fantasia di opinionisti in servizio permanente effettivo e di new entries del settore.

Una delle note dominanti, come al solito, è stata la condanna della degenerazione morale di ampi strati della società  (o tempora o mores), come si evincerebbe dalla volgarità e dall’aggressività emergenti dai social,  che, ovviamente, è fomentata anche dai cattivi predicatori di razzismo e di violenza, con in testa l’immancabile Salvini. Il male insensato (L’orrore! L’orrore! conradiano) è stato ricondotto solo a conseguenza di cause sociali e, come vedremo, politiche. Povero Dostoevskij che si è fatto un mazzo tanto per inventare il suo Raskolnikov: gli bastava raccontare di un fascistello “nato ai bordi di periferia”… Ma allora, si stava meglio quando si stava peggio? Davvero i social fanno emergere una schiuma dell’umanità che solo qualche decennio fa sarebbe stata impensabile? Chi si ricorda di quando, nell’estate del 1986, Radio Radicale ebbe la geniale intuizione di concedere un minuto a testa, senza contraddittorio, a chiunque sentisse di avere qualcosa da comunicare via etere, ha ottimi motivi di dubitarne. Al tempo, insieme a pensieri di varia umanità, prevalsero nettamente la scurrilità più triviale, l’aggressività più compiaciuta e l’odio in tutte le sue numerose versioni. Le escrescenze verbali riguardavano, in primis, il classico risentimento tra terroni e nordici, seguivano, ben rappresentate, le esternazioni di carattere sessuale- escrementizio, quelle di rivalità calcistica e, un po’ staccate, le “politiche”.

Poiché, come prevedibile, l’ ”analisi” sociale non era sufficiente, i commentatori hanno provato a trovare  per il truce  delitto del giovane di origini capoverdiane, anche un movente di natura politica. Ricerca facile, facile: il fascismo. Anzi, siccome i nostri indignati sono stati sfortunati, in quanto non si è riusciti a trovare, nonostante un’attenta esplorazione, nemmeno una svastica tatuata sui bruti assalitori o almeno un banale “viva il Duce” nei loro social, si sono dovuti accontentare della “cultura fascista”. A fare da apripista una fine pensatrice come Chiara Ferragni, giustamente elogiata per il suo “coraggio” dal maitre à penser dell’ala estrema del luogocomunismo di “Repubblica”, Michele Serra, il quale ha messo di mezzo anche Evola, Gentile, D’Annunzio, Drieu la Rochelle e Céline (immaginatevi una cena con Evola e Céline seduti a fianco, che bella amicizia sarebbe sorta…) senza spiegarci cosa c’entrino l’uno con l’altro. Ma su qualche bigino deve avere letto che sono tutti fascisti e tanto basta. Comunque, la Ferragni ha spinto la sua audacia fino condividere il seguente post per spiegare il delitto “No Amo, il problema lo risolvi, cambiando e cancellando la cultura fascista sempre resistente in questo paese di merda”.

Dubbiosi su quale scuola di pensiero segua riguardo alla cultura fascista ( forse ha approfondito soprattutto i lavori di Zeev Sthernell sull’incontro in Francia tra nazionalismo e socialismo, ce lo faccia sapere per favore ) ci viene da pensare che sono proprio le vaste tracce di massa fecale presenti in Italia a spiegare il successo di una che, per mestiere, fa la influencer : un genere di “lavoro” che, nel nostro utopico Stato ideale, dovrebbe meritare, per chi vi si dedica, un congruo periodo nel Gennargentu a costruire campi da tennis perfettamente livellati. Lasciandogli il cellulare si intende: siamo fascistoni, ma non così crudeli. La Ferragni ha comunque tracciato il solco sul quale si sono inoltrati tutti gli altri. Per citarne solo due fra i più noti, Carlo Verdelli sul “Corriere della Sera” ha parlato di “sfascismo” come naturale simbiosi tra pulsioni di estrema destra e culto della forza nutrito in palestre di combattimento estremo, il direttore della “Stampa” Massimo Giannini, a proposito degli assassini, ha scritto di “un fascismo come subcultura della forza e dell’intolleranza, che attinge al pozzo di una politica inqualificabile che usa spesso la violenza verbale”.

La banalità del male si è trasformata nella banalità all’estrema potenza dei commenti, vagamenti ispirati al concetto, oggi tornato in voga, dell’ ”Ur-fascismo, il fascismo eterno” dal titolo del libro di Umberto Eco del 1997, in cui il semiologo alessandrino stabiliva che tutto ciò che non gli piaceva e quanto c’era di cattivo e violento nella società fossero le caratteristiche sempiterne di un fascismo ognora risorgente in inedite e insidiose forme. Divertente, a leggerlo adesso, in tempi di politicamente corretto e di cancel culture, il riferimento a un Ur-Fascismo “che cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza”. Quando persino la differenza sessuale tra maschio e femmina è messa sotto accusa e si vorrebbe salvare del passato solo quanto rispetta i crismi della morale comune attuale, la teoria di Eco si presterebbe a fare indossare la camicia nera ai militanti Lgbt e di Black Lives Matter. In realtà, in quell’operina, Eco si dimostrava nulla più che una Ferragni estremamente colta, attingendo a piene mani dal capostipite del genere, quel “La personalità autoritaria” di Theodor W. Adorno, una ricerca “clinica” condotta negli anni Quaranta, di impianto socio-psicologico, in cui il pensiero “progressista”, non quindi solo nella versione sovietica dei manicomi per i dissidenti,  dimostrava la sua propensione a trattare da malati mentali quanti non si allineavano al suo modo di essere e pensare.

  Rifiutandosi di guardare al fascismo come a un determinato evento storico, con precise connotazioni politiche, sociali ed ideologiche, si scade presto nel  fascistometro di Michela Murgia: tutto ciò che è brutto sporco e cattivo è fascista. Ma, ribattono un po’ tutti i nostri opinionisti, la violenza fascista degli squadristi non è una caratteristica che si ritrova nei branchi di bruti che pestano e umiliano i deboli? No, cari signori, la violenza fascista, certo un elemento reale e non del tutto dissimile da quello di altri movimenti rivoluzionari, nasce dall’arditismo, come dovrebbe sapere anche uno con una conoscenza superficiale del fenomeno. Non è quella dei quattro forzuti contro un inerme, ma è quella del “pugnal fra i denti le bombe a mano”, all’assalto delle trincee austriache sotto il fuoco delle mitragliatrici. Quando nella sera del 15 aprile 1919 i manipoli di futuristi e arditi che stazionavano in piazza Duomo partirono per dare l’assalto all’ “Avanti”, non si trattò di un’aggressione a tipografi e giornalisti disarmati, ma della reazione all’assalto di un molto più numeroso corteo di anarchici e socialisti, ben presto messo in fuga. Da questo e dal gesto esemplare dannunziano nasce la cosiddetta violenza fascista, con tutte le eccezioni che ovviamente si sono date in negativo.

Dicevamo che gli antifascisti in assenza di fascismo sono stati sfortunati perché non sono stati reperiti  simboli del passato regime tra gli aggressori di Willy; non ci saremmo stupiti che dei bruti se ne fossero appropriati, non comprendendone l’origine e il significato. Il continuo martellamento dei media nel dipingere la violenza e la trasgressione delle regole, come comportamento fascista fa sì che chi, soprattutto, fra i giovani, si sente soffocare dalla imperante melassa culturale dei buoni, e falsi, sentimenti, insieme a un certo numero di nature criminali, creda di potersi identificare nelle camicie nere. Si tratta di un’interiorizzazione degli argomenti dell’ ”avversario”: se il male è il fascismo, allora d’ora in poi chiamatemi Satana. E’ un fenomeno che si constata spesso, per esempio in una parte dell’universo delle curve calcistiche : all’esibizione di svastiche e croci celtiche non corrisponde mai un reale impegno politico né il minimo approfondimento culturale. Anzi, tra molti “fascisti immaginari” prevalgono sovente “valori” che sarebbero esecrati da chiunque provenga da una cultura di destra radicale: soldi e vita facili, ammirazione per i potenti, ostentazione di ciò che si ha, disprezzo per il sacrificio, odio per i deboli, propensione al crimine per arricchirsi e via dicendo.

La cultura egemone, con i suoi criteri di correttezza e le sue scomuniche, orienta tanto le vite dei suoi credenti come quelle dei suoi presunti nemici. In tutto ciò il fascismo c’entra come la nutella in un piatto di spaghetti.

Roberto Zavaglia

Roberto Zavaglia su Barbadillo.it

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