Cinema (di G. Del Ninno). In visita alle case dei grandi e il “mio” Alberto Sordi

"Quanto a me, non ebbi più occasione d’incontrarlo, né lo cercai, e neppure seguii i suoi consigli per le mie ambizioni di scrittore; eppure, non nego che entrare in quella casa, mi ha fatto fare un tuffo in un passato che ancor oggi mi fa scivolare nella nostalgia"

Alberto Sordi

Sono sempre stato attratto dalle case delle persone straordinarie: nel corso dei miei viaggi e soggiorni, ho visitato le abitazioni di Manzoni e di Mozart, di Rembrandt e di Cechov, della Blixen e di Victor Hugo, di Hemingway e di Monet, forse nel tentativo di cogliere qualche segreto del loro genio da quel mobile o da quella veduta, da quella foto di famiglia o da quella lettera in una bacheca. Perciò, non potevo perdermi l’occasione offerta dalla mostra organizzata nella dimora di Alberto Sordi, per il centenario della sua nascita.

Quella magnifica villa a due passi dal Circo Massimo, alla fine della mostra sarà trasformata in museo, e mi auguro che sarà possibile allora vedere anche quegli spazi rimasti preclusi oggi, a partire dal salotto, dal grande giardino e dalla piscina. Passati attraverso la trafila di prenotazioni e controlli fin sotto il tendone che un po’ maschera e un po’ svia il visitatore dall’ingresso principale, si accede ad alcuni fra i locali più importanti e, vivente il padrone di casa, preclusi agli estranei: il teatrino con tanto di palcoscenico e camerini, col fondale dipinto dal Severini; la biblioteca con molti testi antichi; lo studio; la camera da letto, dove si notano l’inginocchiatoio per le sue abituali devozioni (fu critico verso i preti progressisti e amico di Giovanni Paolo II) e, appunto, il letto dove l’attore amò e lasciò le sue spoglie mortali; l’attigua bottega da barbiere, con le specchiere e la sedia professionale; una sala con gli abiti e gli oggetti di scena; tele dell’amato De Chirico, una Harley Davidson targata Kansas City e una quantità di oggetti d’antiquariato – una delle sue passioni – disseminati qua e là. E ancora: l’atto d’acquisto della casa, nel 1954 – dieci milioni in contanti, quelli che non aveva Vittorio De Sica, al quale la strappò – la concessione della cittadinanza onoraria di Kansas City, manoscritti e lettere varie e foto e documenti che attestano una delle sue attività più riservate: la beneficenza (a dispetto dell’immeritata fama di avaro).

 

Fra i motivi della mostra, l’intenzione di aprire ai visitatori uno spicchio importante dell’intimità di Sordi, di renderne partecipe il suo popolo – romano innanzitutto, e poi italiano – e rinnovarne così l’affetto. Dicevo all’inizio delle case di “famosi” da me visitate: qualcuno potrebbe obiettare che Sordi non fu né scrittore – pur se firmò o fu co-autore di diverse sceneggiature – né pittore né musicista (ma scrisse anche colonne sonore dei suoi film). Eppure, l’Albertone nazionale non su solo una star del cinema: non sono certo il solo a considerarlo un efficace antropologo e storico del costume italiano, e ne costituisce la prova il lavoro di “cucitura” di tanti spezzoni delle sue pellicole, trasformate in una organica rassegna che la televisione pubblica trasmise col titolo “Storia di un italiano”.

 

Alberto Sordi

Io però ho avuto un motivo in più per varcare la soglia di quella dimora: Sordi infatti l’ho conosciuto. Siamo nel 1972 e io, con moglie, figli e un’amica di famiglia, siamo in vacanza nel paese d’origine di mia suocera, in valle Aurina. In quegli stessi giorni, una troupe guidata da Ettore Scola e che ha proprio in Sordi l’elemento più in vista, sta girando, nel castello che domina l’abitato, il film “La più bella serata della mia vita”, tratto da un racconto di Friedrich Dürrenmatt. Il caso volle che ci trovassimo a cena nello stesso ristorante, noi e la troupe: al momento di alzarci e di andar via, Sordi lasciò la sua tavolata e si presentò; aveva sentito che venivamo dalla “sua” Roma e, confinato in quel posto che lo immalinconiva, avrebbe avuto piacere, ci disse, di dividere con noi i suoi momenti liberi; anzi, ci invitava per il giorno dopo sul set. A dire il vero, ci fu chiaro che a spingere quel mattatore al nostro tavolo, doveva essere stato il fascino della nostra amica, bruna bellezza mediterranea dai modi esuberanti. Comunque, fummo ben lieti di accogliere l’invito e il giorno dopo, puntuali, ci presentammo sul set allestito nel castello di Tures. Lì, nel suo frac scarlatto di scena, Sordi ci accolse col più smagliante dei suoi sorrisi e ci presentò Scola e tre monumenti del cinema mondiale con i quali stava girando: Michel Simon, Charles Vanel e Pierre Brasseur. Assistemmo a vari ciack, poi ci sentimmo invitare a cena per la sera.

 

Mi colpì, non solo sul momento, ma anche nei giorni a seguire, che trascorremmo con lui – ricordo, fra l’altro, una gita in riva a un lago poco distante, con il mio ultimogenito di un anno sulle sue ginocchia, in una mattinata di sole – il distacco dal resto della troupe. E dire che nel cast spiccava una Janet Agren al culmine del suo splendore… E mi colpì un piccolo particolare, che aggiungeva qualcosa al ritratto meno noto dell’uomo: aveva con sé due pacchetti di sigarette, uno per sé – le “popolari” nazionali con la “N” blù su fondo bianco – e uno da offrire, le “aristocratiche” Winston.

 

Giovane appena laureato, non superai mai, ad onta dell’affabilità dimostratami, quella sorta di timore reverenziale che incutono i “famosi” ai “timidi”; eppure parlammo di tutto, dalla politica alla religione, dai rapporti d’amicizia all’amore e ai legami familiari, che per lui, come noto, si arrestarono al nucleo originario formato da padre, madre e fratelli. Ci parlò delle sue radicate convinzioni democristiane (in un’epoca in cui pochi confessavano il loro voto) e dell’”amicizia” con Shirley Mclaine, soffermandosi sull’aneddoto in cui lei voleva cucinargli un piatto di spaghetti con la marmellata (una scena in linea con quella di “Un americano a Roma”)… Dopo la cena nell’importante hotel di Brunico, dove alloggiava, lo seguimmo in una vicina discoteca – si chiamavano night club… – dove lo vidi reagire simpaticamente alle reazioni degli avventori, che lo apostrofavano come Albertone. E pensare che solo poche settimane fa, ricordando quell’antico soggiorno di Sordi a una giovane cameriera del bar sul laghetto sopra citato, mi son sentito rispondere: “Chi?”…

 

Alberto Sordi e Serge Reggiani in una scena di “Tutti a casa”, il film del 1960 sull’Otto settembre, diretto da Comencini

A proposito dell’importanza degli affetti familiari per lui, la mostra ricorda un particolare, che allora non potevo conoscere: durante la lavorazione del film, venne a mancare l’amata sorella Savina, mentre era in vacanza in Friuli, in una delle case di Alberto. Da allora, la vita di società di Sordi subì un brusco arresto: già restio a frequentare salotti altrui, chiuse il teatrino di casa e si limitò a ricevere solo gli amici più cari, Piero Piccioni, Federico Fellini, Rodolfo Sonego, Sergio Amidei e Maurizio Costanzo. E proprio quest’ultimo racconta un aneddoto che la dice lunga sulla solitudine che avvolse Alberto, specie nei suoi ultimi anni: passeggiando lungo il bordo della piscina di casa, gli disse: “Che me la sono fatta a fare?”.

 

Quanto a me, non ebbi più occasione d’incontrarlo, né lo cercai, e neppure seguii i suoi consigli per le mie ambizioni di scrittore; eppure, non nego che entrare in quella casa, mi ha fatto fare un tuffo in un passato che ancor oggi mi fa scivolare nella nostalgia.

 

 

Giuseppe Del Ninno

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