Elogio del generale confederato Edward Robert Lee

L'Arco e la Corte ha tradotto "Il Generale Lee" della baronessa Blanche Lee Childe apparso nel 1873 sulla prestigiosa Revue des Deux Mondes

Il Generale Lee edito da L’Arco e la Corte

In un periodo storico in cui masse incolte, in malafede o in preda ad un furore ideologico senza pari, abbattono e imbrattano statue, monumenti e simboli del passato è più che mai benvenuta la pubblicazione di una breve biografia dedicata ad una delle figure più luminose ed umane della guerra di successione americana (1861-1865): il generale confederato Edward Robert Lee. Tradotto per la prima volta in italiano dall’originale francese dallo storico e divulgatore Gaetano Marabello e dedicato all’«amico di sempre» Alessandro Barbera, con note esplicative ed un accurato denso saggio introduttivo, Il Generale Lee (L’Arco e la Corte, 2020, pp. 141, € 17) della baronessa Blanche Lee Childe apparve dapprima in cinque puntate nel corso del 1873 sulla prestigiosa Revue des Deux Mondes e successivamente nel 1874 in un volume stampato dalla Libraire Hachette et Cie a dimostrazione del rilievo assunto dalla baronessa negli ambienti letterari parigini. L’interesse per la figura del generale  Lee le derivò molto probabilmente dal fatto che aveva sposato nel 1868 Edward Lee Chile, un nipote per parte di sorella del generale confederato. Altro dato curioso, di cui ci informa il curatore Marabello nella sua introduzione, è che sempre nel 1874 vide la luce presso la medesima casa editrice una biografia dello stesso Edward Lee Childe dedicata allo zio dal titolo Le général lee: sa vie et ses campagnes di circa 380 pagine, molto più corposa rispetto a quello della consorte che contava all’incirca  110 pagine. 

Stilisticamente e letterariamente il testo di Blanche Lee Childe è assai gradevole, scorrevole, efficace, e tratteggia il carattere e la vita di Lee a tutto tondo,  soffermandosi con rapide pennellate sulle sue qualità personali, sulla sua generosità, sulla sua umanità, sulla sua religiosità e sulle sue qualità militari. Il generale apparteneva a quella aristocrazia della Virginia «in parte costituita da membri di famiglie patrizie emigrate dall’Inghilterra» «che aveva conservato le tradizioni, i costumi, le abitudini e i gusti della vecchia Europa». La semplicità di costumi, le maniere cortesi e «un poco lente dei tempi passati», il senso dell’onore, il rispetto della donna, un profondo senso religioso, distinguevano gli abitanti della Virginia, come può evincersi d’altronde dal film Via col vento tratto dall’omonimo romanzo del 1936 di Margaret Mitchell. «L’insaziabile attività industriale degli Stati del Nord – chiosa Blanche Lee Childe – non era affatto penetrata in quelle belle regioni boscose e montagnose». 

Ma accanto alla figura del generale Lee, nelle pagine della Lee Childe, rifulge l’eroismo dei suoi uomini che lo seguirono fino allo stremo delle forze. Lee infatti condivideva il pasto frugale dei suoi soldati, dormiva all’addiaccio come loro, non indietreggiava di fronte ai rischi e conservava sempre un atteggiamento di trascendentale fiducia di fronte alle avversità, di fermezza e di serenità che sapeva infondere nei suoi uomini. A differenza delle truppe nordiste che spesso infierivano sulle popolazioni del sud e ne devastavano e saccheggiavano i territori, Lee imponeva alle sue truppe della Virginia il rispetto delle proprietà e delle popolazioni, malgrado la fame e gli stenti, malgrado gli stracci di cui erano vestiti nell’ultima fase del conflitti al punto da definirsi essi stessi, con un gioco di parole ispirato al romanzo di Victor Hugo, Lee’s Miserables.  

Amato dai suoi uomini, stimato e rispettato dai nemici, Lee non ha nulla dello “spregevole razzista”, accusa gratuita di chi pretende di riscrivere la storia a suo modo. Marabello sulla scorta di una dettagliata documentazione scrive: «In realtà, le degenerazioni comportamentali verso chi aveva la pelle di altro colore erano appannaggio dei paesi industriali, che facevano una farisaica morale agli altri. […] gli abitanti degli Stati secessionisti non si spingevano a disprezzare, al contrario dei colonizzatori del West, i Nativi americani, dei quali non disdegnarono l’alleanza contro yankees».  A conferma di ciò va rilevato che il generale Stand Watie, capo dei Cheroches, fu l’ultimo ad ammainare la bandiera confederata.

D’altra parte, pretendere l’abolizione immediata del regime di schiavitù, non certamente più disumano di quello imposto agli operai nelle fabbriche del Nord, ad una società, come quella sudista, che su di esso basava la propria economia agricola, come pretendeva Lincoln, avrebbe significato la dissoluzione di quella società. «Nella quasi totalità i sudisti furono abbastanza tolleranti nella gestione della “peculiare istituzione” della schiavitù», scrive Marabello. E Edward Lee Childe in un capitolo tratto dal suo libro, che molto opportunamente il curatore fa precedere al testo della Blanche Lee Childe a mo’ di capitolo preliminare, scrive: «La schiavitù forniva un campo di battaglia ai contendenti, serviva da linea di demarcazione netta […] Come il cavallo di Troia, offriva un veicolo comodissimo per introdurre la discordia e la distruzione in seno all’edificio della Costituzione». La vera ragione della lotta non fu la schiavitù. Nel suo capitolo introduttivo Edward Lee Childe offre un compendio sulle cause che portarono al sanguinoso conflitto e che si riassumono in economiche, razziali, climatiche e politiche. Rivalità di interessi economici tra il Nord manifatturiero e il Sud agricolo, contrasti politici tra le ragioni del federalismo e del centralismo, fattori climatici e razziali quanto all’origine sociale delle due popolazioni del Nord e del Sud, differenze profonde di mentalità. Se a Boston, Filadelfia e New York commercianti e speculatori, industriali e proletari, riassume Marabello, «si dannavano l’anima per emergere in quella frenetica corsa al dollaro […] al Sud invece l’esistenza veniva fatta scorrere pigra e senza affanno». Agli occhi dei sudisti il nordista «pareva che odiasse quasi la gioia di vivere, giacché sfacchinava tutta la settimana e non indulgeva allo svago». Peraltro, le tesi di Edward Lee Childe sono state riprese, ampliate e approfondite dallo storico francese Dominique Venner nel suo capolavoro Il bianco sole dei vinti.

Ricordiamo, per finire, sine ira et studio, ai facili moralisti della storia, a coloro che pretendono come gli uomini debbano pensare politicamente, le parole di Benedetto Croce nei suoi Elementi di politica: «la vera storia non nega ma giustifica, non respinge ma spiega, non conosce figli bastardi e degeneri, ma solo figli legittimi». Ed ancora: «se manca l’animo libero nessuna istituzione serve, e se quell’animo c’è, le più varie istituzioni possono secondo tempi e luoghi rendere buon servigio». 

Sandro Marano

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