Giornale di Bordo. Onorare la vittoria del 4 novembre e il “dovere della memoria” secondo Cardini

L'appuntamento del mercoledì con il prof. Enrico Nistri e le sue riflessioni tra storia e attualità

“Il dovere della memoria” di Franco Cardini

5 novembre: Onoriamo la Vittoria

Triste bilancio dell’anniversario di quella che un tempo non ci si vergognava di chiamare “la Vittoria”, e che fino al 1977 fu a tutti gli effetti festa nazionale (l’Alluvione del 4 novembre 1966 a Firenze fece un numero relativamente modesto di vittime perché quando l’Arno straripò tutti erano a riposare nelle loro case e nessuno rischiò di finire travolto dai flutti per salvare l’auto o andare a prendere i figli a scuola).

Ormai si parla della Grande Guerra solo per onorare i disertori o per infamare la memoria di Cadorna. Il Generalissimo commise senz’altro degli errori, come del resto gli altri comandanti in capo di entrambi gli schieramenti, a parte forse Pétain; ma non bisogna scordare che gli toccò l’arduo compito di riconvertire in pochi mesi un esercito programmato per combattere contro la Francia in una macchina da guerra da schierare contro l’Austria-Ungheria, per giunta con le frontiere poco favorevoli uscite dalla terza guerra d’Indipendenza.

C’è però da meravigliarsi di questa rimozione collettiva? Che cosa ci possiamo aspettare da uno Stato che ha fatto atto di contrizione per l’incendio dell’Hotel Balkan a Trieste e ne ha regalato la struttura alla comunità slovena, già a suo tempo lautamente indennizzata, senza ricordare il sacrificio del comandante Tommaso Gulli e del fuochista Aldo Rossi, assassinati a  Spalato il 12 luglio 1920 dalla teppaglia che si opponeva alla presenza di militari italiani in città?

Altro però è rendere omaggio ai caduti, altro interrogarsi se l’Italia non avrebbe potuto ottenere migliori risultati mantenendosi neutrale o addirittura intervenendo a fianco degli alleati. Lo fa Franco Cardini, in un capitolo del suo brillante pamphlet Il dovere della memoria (appena uscito per le Edizioni La Vela), intitolato “24 maggio 1915: e se ci fossimo schierati con il Kaiser?”

È una domanda che mi pongo da tempo, o meglio che, ormai quasi quarant’anni fa, mi insegnava a pormi il professor Massimo Mazzetti, ordinario di storia contemporanea e geniale storico militare, tra l’altro coautore con Francesco Perfetti della Storia dell’Italia contemporanea diretta da Renzo De Felice. Nelle lunghe cene nella sua casa di Salerno due erano i temi su cui si posava la sua conversazione: i suoi ricordi di vita militare come ufficiale di complemento e lo scoppio della grande guerra. Secondo lui, se l’Italia fosse intervenuta a fianco degli Imperi Centrali – ma subito, non quando ormai il fronte occidentale si era impantanato nella guerra di trincea – il destino del mondo sarebbe stato diverso. Il piano Schlieffen avrebbe funzionato, la battaglia della Marna avrebbe avuto un altro esito, perché la Francia avrebbe dovuto stornare parte delle sue truppe sul fronte alpino e perché l’Italia avrebbe contribuito allo sforzo tedesco con un’intera armata di supporto ai tedeschi. La guerra avrebbe avuto una breve durata, non ci sarebbero stati milioni di morti, non sarebbe scoppiata la rivoluzione bolscevica, con tutto quello che ne consegue. E avremmo potuto ottenere buone compensazioni territoriali recuperando Nizza e la Savoia, nonché la Corsica e la Tunisia, la cui occupazione da parte dei francesi era stata una concausa del nostro ingresso nella Triplice.

L’opinione di Mazzetti – che comunque addebitava agli errori della diplomazia asburgica, riluttante a concederci Trento e Trieste, il nostro rovesciamento delle alleanze – mi convinceva sino a un certo punto. A parte l’incognita della Russia, difficilmente la Gran Bretagna sarebbe rimasta neutrale di fronte all’egemonia germanica sul continente europeo, come non lo era rimasta dinanzi all’egemonia francese al tempo del Re Sole e poi di Napoleone. E allora il conflitto sarebbe proseguito con esiti analoghi alla seconda guerra mondiale: anche in quel caso ci saremmo trovati coinvolti nell’abbraccio fatale germanico.

Ancora meno mi convince però l’opinione di chi ritiene che l’Italia sarebbe rimasta neutrale senza conseguenze. Se avessero  vinto gli Imperi Centrali, difficilmente l’Austria ci avrebbe concesso il “parecchio” promesso a Giolitti, nel 1915, non nel ‘14; se avesse vinto, anche senza il nostro aiuto, l’Intesa, forse avremmo potuto ottenere il Trentino, ma Gorizia e Trieste sarebbero andati al Regno di Jugoslavia e le condizioni dei nostri connazionali in Istria, a Fiume, in Dalmazia sarebbero addirittura peggiorate, col passaggio dall’onesta ed efficiente amministrazione asburgica all’arrogante dominio slavo.

Non ci vergogniamo, anche per questo, di celebrare la Vittoria. Fermo restando il fatto che, se la grande guerra non fosse scoppiata, oggi il mondo sarebbe migliore.

6 novembre: Trump 1. Perché negare a priori la possibilità di brogli?

Le elezioni statunitensi sembrano prossime a concludersi con la vittoria, sia pur di misura, di Biden. Ancora una volta una sfida epocale si chiude con il successo di una non troppo aurea mediocritas. La notte dell’election day il presidente uscente sembrava vincitore, ma l’arrivo dei voti postali sta ribaltando le carte in tavola. Trump denuncia i brogli, che senza dubbio ci sono stati, ma non so fino a che punto abbiano ribaltato il voto finale. Sulla massiccia percentuale di voti postali per lo sfidante possono aver pesato fattori diversi, come il maggior timore del contagio da Covid da parte dell’elettorato democratico e il fatto che le schede siano state spedite anche molti giorni prima del 3 novembre, mentre la rimonta di Trump è proseguita nei sondaggi fino all’ultimo. Resta il fatto che il voto postale si presta a manipolazioni, non è segreto e di conseguenza non è del tutto libero; costituisce insomma una strana peculiarità del sistema elettorale statunitense. Ma anche la vittoria quattro anni fa di Trump, che aveva riscosso meno voti popolari della Clinton, fu conseguenza di una stravaganza dei meccanismi elettorali Usa, e quando ci si candida bisogna accettare le regole del gioco, anche con le loro anomalie.

Mi offende però la negazione aprioristica delle denunce di Trump in materia di manipolazioni del voto postale (e non solo). La maggior parte dei media lo tratta come un ragazzino viziato, che si porta via il pallone perché i compagni di gioco lo hanno messo in porta invece che all’attacco. Ma accettarono davvero i democratici quattro anni fa la sconfitta, quando subito dopo la vittoria di Trump montarono il caso del Russiagate, rimasto senza seguito ma destinato ad avvelenare i rapporti fra maggioranza e opposizione?

7 novembre. Un dramma di cui nessuno parla: la reclusione dei pazienti nelle Rsa

Con le ulteriori restrizioni di questi giorni, si aggrava ancora la condizione dei degenti nelle case di riposo: Rsa, Residenze sanitarie assistite, nella neolingua dei burocrati sanitari. Con l’ipocrita intenzione di tenerli in una sorta di campana di vetro è stato loro impedito ogni contatto diretto con i parenti, se non per telefono o in videochiamata, se non, nel migliore dei casi, attraverso una barriera di plexiglass. Anche in estate, quando tutta l’Italia pareva aver dimenticato il virus, le discoteche venivano riaperte, i vucumprà furoreggiavano nelle spiagge, le porte delle Rsa rimanevano chiuse. Chi protestava veniva tacitato col numero dei decessi in alcune strutture. Dopo il moltiplicarsi dei contagi la chiusura è divenuta ermetica e ai familiari in molti casi è permesso parlare, se così può dirsi, con i degenti sono una volta ogni tanto. Se un analogo trattamento fosse riservato ai detenuti scoppierebbero le rivolte. E infatti, con una scelta ineffabile, per evitare di allargare il contagio in molte carceri è stato deciso di concedere gli arresti domiciliari ai reclusi che già lavoravano all’esterno, abbreviandone di fatto la pena. I delinquenti, insomma, in libertà, gli anziani reclusi, sia pur con le migliori intenzioni di questo mondo.

In realtà, a provocare l’esplosione dei contagi in molte Rsa non sono state le visite dei parenti, regolate quasi ovunque da severissimi protocolli anche la scorsa estate, ma la diffusione del virus fra gli operatori sanitari in seguito alla riapertura delle scuole. Intendiamoci: infermieri, Osa e Oss (così la neolingua degli assessori alla sanità ha ribattezzat0 il personale paramedico) non sono certo responsabili. Non si può pretendere, per mille euro, e spesso meno, che rinuncino ad avere una vita familiare, un consorte che lavora fuori e dei figli che ovviamente vanno a scuola. Le squadre di calcio non sono riuscite a imporre il coprifuoco neppure a giocatori pagati con ingaggi milionari, e i risultati si sono visti. Una completa clausura degli operatori sanitari sarebbe stata possibile un tempo, quando a gestire le case di riposo erano ordini religiosi i cui membri convivevano nella struttura; oggi è inconcepibile. Ma intanto i ricoverati vengono lasciati soli nella loro sofferenza, privati del conforto dei parenti.

C’è poi un altro aspetto della questione, che è doloroso ma doveroso ricordare. La maggior parte degli operatori delle Rsa lavorano con serietà e abnegazione, ma le mele marce esistono dappertutto. Negli anni scorsi si sono verificati un po’ in tutta Italia casi di anziani maltrattati, insultati, trascurati, con relativi strascichi giudiziari. A rendere possibile l’accertamento degli abusi è stata l’installazione di telecamere da parte di Polizia o Carabinieri, dietro la denuncia di familiari, magari preoccupati da lividi sospetti o da comportamenti anomali, ma anche di operatori sanitari disgustati dal comportamento dei colleghi. Una struttura ermeticamente chiusa è fatalmente autoreferenziale; le forze dell’Ordine potrebbero, con le debite procedure, entrarvi, ma il loro ingresso eliminerebbe l’effetto sorpresa e l’effetto segretezza nell’installazione delle telecamere, vanificando le indagini. È un problema che andrebbe seriamente preso in considerazione, da tutti noi. Finché ci sentiamo giovani o comunque in forze, i vecchi sono gli altri. Ma prima o poi gli altri siamo noi.

9 novembre. Trump 2: e se la Corte Suprema gli desse ragione?

Dopo che Biden si è proclamato presidente degli Stati Uniti, considerando chiffons de papier i ricorsi di Trump, cominciano i più o meno maldestri tentativi dei politici di centrodestra di accreditarsi col presunto vincitore. Un Berlusconi dimentico di un certo “editto bulgaro” da lui emanato nel 2002 accusa lo sconfitto di “arroganza”. Un politico che pur stimo come Giorgetti, desideroso forse di vendicare l’endorsement di Trump a “Giuseppi”, apre garbatamente a Biden. Negli Stati Uniti del resto Bush fa di peggio, dichiarando di essere certo che le elezioni si siano svolte correttamente, pur ammettendo, bontà sua, il diritto di Trump a fare i suoi ricorsi. Sulle certezze di Bush Jr naturalmente è lecito dubitare, pensando a quando si dichiarava sicuro che in Iraq vi fossero armi di distruzione di massa. Ma questo è un altro discorso…

So che è altamente improbabile un’ipotesi di questo genere, però mi viene spontanea una domanda: e se alla fine con i ricorsi Trump avesse la meglio? Non posso fare a meno di pensare alla trama di un vecchio film a episodi degli anni Settanta, girato in piena crisi petrolifera. Un imprenditore milanese desideroso di fare buoni affari col mondo arabo ospita in casa sua uno sceicco, che ne approfitta per fare i suoi porci comodi: tocca il sedere alla moglie e alla figlia dell’ospite, si fa la donna di servizio, e nessuno osa dirgli nulla. A un certo punto, il telegiornale informa che lo sceicco è stato spodestato da un colpo di Stato: marito e moglie lo cacciano di casa senza tanti complimenti. Ma pochi minuti dopo – troppo tardi – va in onda la rettifica: truppe fedeli allo sceicco hanno ripreso il controllo della situazione.

10 novembre. Tramonto del sovranismo?

Novella Spengler, Flavia Perina pubblica sulla “Stampa” di oggi un lucido quanto acidulo commento sul “Tramonto del sovranismo”. Schadenfreude, come direbbero i tedeschi? Non voglio nemmeno sospettarlo, per la stima che nutro per l’autrice. Però, più che un editoriale sul tramonto del sovranismo, da Flavia, già direttore del “Secolo d’Italia” e poi deputata di Fli, mi aspetterei un saggio sul tramonto del finismo.

11 novembre. Trump 3: e se avesse perso le elezioni per non rinunciare a una battuta?

Credo però che sulla mancata rielezione di Trump, più dei brogli, abbia pesato una sorta di nemesi storica. Nel 2016, al momento delle primarie repubblicane, in cui si aprì a gomitate la strada per la nomination in un partito che lo trattava come un intruso, Trump fece una battuta molto infelice, anzi oserei dire canagliesca, nei confronti di John McCain, il candidato repubblicano del 2008, sconfitto di misura da Obama. McCain, pilota dell’aviazione navale nella guerra del Vietnam, era stato abbattuto col suo apparecchio nel cielo di Hanoi nel 1967 ed era stato fatto prigioniero dai Vietmihn, che l’avevano sottoposto per sei anni ad atroci torture per indurlo senza successo a collaborare. A chi gli ricordava questi suoi eroici precedenti combattentistici, Trump, che la guerra nel Vietnam non l’aveva fatta, e forse non aveva visto neppure un film come Il cacciatore, obiettò che avrebbe preferito che non si fosse fatto prendere prigioniero. Quelle parole gli sono costate costate lunghe ostilità nel partito repubblicano e in particolare nella vedova di McCain, morto nel frattempo di un tumore, che si è espressa a favore di Biden. Sono cose che contano, in termini di consensi, in un’elezione sul filo di un rasoio.

Si dice di noi fiorentini che siamo capaci di perdere un amico per una battuta; non escluderei che per quella battutaccia Trump abbia perso la Casa Bianca.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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