1977, anno dissacrante e nichilista

La recensione del volume "Il movimento del ‘77 - Radici, snodi, luoghi" curato da Monica Galfré e Simone Neri Serneri

Mio fratello è figlio unico

La memorialistica e gli approfondimenti giornalistici hanno interpretato in buona parte il movimento del ‘77 come fenomeno a sé, sottovalutando il contesto di un decennio molto complesso segnato da dinamiche (crisi economica, profonde riorganizzazioni degli apparati produttivi, conflittualità operaia e sociale, sviluppo e successiva frantumazione della sinistra extra-parlamentare) sulle quali esso agì da detonatore. Edito dalla casa editrice Viella nel 2018, il volume “Il movimento del ‘77 – Radici, snodi, luoghi” è una raccolta di saggi, curata da Monica Galfré e Simone Neri Serneri, che ne analizza caratteristiche generali e specificità.

“Non abbiamo né passato, né futuro. La storia ci uccide” recitava una scritta su un muro dell’Università di Roma: l’emanazione di una circolare da parte del Ministro della Pubblica Istruzione Malfatti – che prevedeva l’aumento delle tasse di frequenza, la cancellazione della liberalizzazione dei piani di studio e degli appelli mensili degli esami – suscitò un’ondata di proteste nel mondo studentesco che diede origine al movimento.

Scontri e disordini espressero la rabbia sociale ed un ribellismo dai tratti inediti, attorno ai quali si coagularono l’autonomia operaia, comitati e circoli del proletariato giovanile, studenti lavoratori e non, disoccupati, “indiani metropolitani” (l’area “creativa” insieme alle riviste, ai gruppi teatrali, musicali e delle arti grafiche), nuclei di lavoratori organizzati nelle nascenti strutture del “sindacalismo di base”, piccoli delinquenti politicizzati, impiegati e donne del movimento femminista. Non confluirono solo coloro che “avevano fatto il ‘68”, del quale pure furono riprese e radicalizzate talune tematiche, ma una simultaneità di generazioni che incarnarono l’idea di una rivoluzione “senza esiti e senza fini”.

Dissacrante, nichilista, goliardico, provocatorio e superficiale, ripiegato su un presente caratterizzato dall’evaporazione delle certezze, simbolo della crisi della militanza, disinteressato alla ricerca di alleanze con i partiti, critico verso i meccanismi di delega e le pratiche assembleari, il movimento del ‘77 non produsse tentativi di mobilitazione su larga scala. Oltre alle rivendicazioni dei diritti all’autogestione degli spazi sociali, alla casa e al recupero dei tossicodipendenti, esso cercò nella liberazione dal lavoro la strada per riappropriarsi del tempo libero e criticare l’alienante modello produttivo fordista-keynesiano.

Le resistenze al governo di “solidarietà nazionale” e alla “politica dei sacrifici” si limitarono ad una sterile opposizione alle trasformazioni in atto nella società, incrinando i miti mobilitanti della centralità operaia e dell’unità d’intenti tra studenti ed operai. La frattura tra “garantiti e non” sfociò in episodi eclatanti e drammatici come la pesante contestazione al segretario della CGIL Lama alla Sapienza, durante un comizio che venne interpretato dai manifestanti come un tentativo di normalizzazione paternalista. Le azioni degli autonomi vennero stigmatizzate dal PCI, impegnato – a differenza di quanto aveva fatto nove anni prima – a vestire i panni del partito dell’ordine: Botteghe Oscure agitò lo spettro di un “nuovo squadrismo” ricondotto alla strategia della tensione, frutto di “torbide trame” dirette da centrali eversive e non – come ammesso solo in seguito – dall’estremismo di sinistra. L’arroccamento nelle rappresentazioni monolitiche di classe e la sostanziale miopia di fronte alla profondità delle lacerazioni sociali non scalfì, peraltro, l’ambizione dei comunisti di guidare la protesta giovanile, nell’illusione che la violenza politica e la militarizzazione fossero nettamente separabili dalla creatività e dal desiderio di partecipazione.

La controcultura di destra

Talune istanze degli indiani metropolitani e dei circoli del proletariato giovanile – la festa concepita come fatto politico, la necessità di cercare un’alternativa al sistema dei partiti, la certificazione di un malessere generazionale e di una marginalità diffusa tra i giovani, i disoccupati ed i precari, l’assunto secondo il quale bisognava immergersi nella vita quotidiana e nel tempo libero per ricomporre la frattura tra la dimensione personale e quella politica – trovarono un’effimera sponda nelle tendenze della controcultura di destra, specialmente nella rivista “La Voce della Fogna” e nella corrente di riferimento di Rauti nel Msi “Linea Futura”.

I punti di riferimento ideologici e culturali del movimento – “La rivoluzione molecolare” di Felix Guattari, le avanguardie storiche del dadaismo e del surrealismo, il situazionismo e le sue tecniche di rovesciamento della realtà – portarono alla ribalta una componente che rivendicava, basandosi su una “filosofia dell’immediato” mirante al raggiungimento della felicità materiale, il diritto ad ogni forma di consumo (compreso quello “al lusso”), alla soddisfazione dei desideri e dei bisogni più svariati (dalla fuga nell’eroina all’uso delle droghe leggere, al sesso vissuto senza gerarchie e autoritarismi, ai diritti degli omosessuali). In quest’ottica gli “espropri proletari” e le “autoriduzioni” dei prezzi di cinema, teatri e concerti come forme di risarcimento di discriminazioni sociali considerate intollerabili non erano solo il sintomo di un’adesione acritica al consumismo di massa, ma venivano lodati come atti politici intrinsecamente rivoluzionari e come pratiche liberatorie che valorizzavano la soggettività.  

Radio libere e violenza

Unitamente alla capacità di intercettare la crisi della militanza tradizionale e di recuperare una dimensione individuale più intima (la filosofia improntata al “trionfo del privato” che si affermerà poi come “riflusso”), è questa una possibile chiave di lettura del buon successo editoriale di un romanzo – stroncato da critica e censura – come “Porci con le ali” oppure per inquadrare, con riferimento alle trasformazioni del linguaggio, la parabola delle radio libere: in particolare, Radio Alice capovolse il giudizio negativo e perbenista dell’osceno facendo irrompere nelle proprie trasmissioni la “voce del corpo”. 

Eccezione tutta italiana nel panorama occidentale, il movimento del ’77 rappresentò un salto di qualità nella pratica della violenza politica clandestina e di strada, inducendo irrimediabilmente molti dei suoi componenti ad un distacco che ne decretò anche la fine.

Andrea Scarano

Andrea Scarano su Barbadillo.it

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