Giornale di Bordo (di E.Nistri). Trump, il voto postale contestato e l’eredità di Buchanan

Il taccuino del professore fiorentino tra politica internazionale, vizi italici e storia

Donald Trump

Trump 1. Ma è più grave far votare i morti o far ricorso?

Credendo di fare un torto a Trump, i corrispondenti dei principali quotidiani italiani dagli Stati Uniti riportano il parere di analisti vicini al partito repubblicano, secondo cui i ricorsi contro i conteggi elettorali avviati dall’ex presidente non serviranno a ribaltare il risultato elettorale. In realtà dalle risposte degli intervistati emerge non che i brogli non vi siano stati, ma che sono stati di ridotta entità o che comunque Trump e i suoi avvocati non saranno in grado di documentarli. Alcuni, non a torto, paventano il rischio che questa drammatizzazione del confronto elettorale possa interferire sul risultato dei ballottaggi per il Senato, la cui vittoria è indispensabile ai repubblicani per evitare che i democratici controllino, oltre alla Casa Bianca, entrambe le Camere.

Gli analisti ammettono che il voto postale sia stato occasione di sostituzioni o contraffazioni di schede, con suffragi attribuiti a elettori deceduti o immigrati irregolari, ma il fatto viene considerato ininfluente. E a questo punto pare che lo scandalo non siano i brogli, ma il fatto che il presidente non vi si rassegni e adisca le vie legali.

Evidentemente per molti corrispondenti dagli Usa far votare i morti per cacciare Trump è una sorta di opera di misericordia, un dolus bonus di cui non è il caso di scandalizzarsi. Eppure sono comportamenti come questo che rischiano di trasformare gli Stati Uniti in una sorta di repubblica delle banane. 

13 novembre

Toscana come il Vaticano. Avremo il governatore regnante e quello emerito?

Anche la mia regione è stata dichiarata zona rossa, dopo un breve transito dal color giallo iniziale all’arancione. Vi risparmio le facili battute: sono settant’anni che la Toscana è una zona rossa. C’è poco da scherzare, anche perché la decisione comporta problemi pratici non indifferenti e rischia di assestare il colpo di grazia a molte attività turistiche che, a differenza di quanto avvenuto sulla costa, non hanno potuto usufruire della tregua estiva. Nessun italiano viene a visitare Firenze in estate, quando il caldo è insopportabile. E di luglio e d’agosto gli stranieri non c’erano.

Anche sul terreno della vita quotidiana la scelta dell’algoritmo comporterà tanti piccoli problemi: non potersi allontanare dai dintorni della propria abitazione senza un giustificato motivo e un modulo di autocertificazione, doversi mettere in tuta – io che amo fare le mie camminate veloci vestito normalmente, tutt’al più con delle scarpe più comode – per poter svolgere attività fisica in un parco cittadino, sempre che il sindaco non decida, come la primavera scorsa, di chiuderlo. Ma non mi lamento certo, perché c’è chi è messo molto peggio di me.

Il presidente della Regione, Eugenio Giani, è accusato di non aver cercato di anticipare la decisione, o di non aver introdotto restrizioni sua sponte quando la Toscana era ancora gialla o arancione. C’è chi già rimpiange il “governatore” uscente Rossi, che forse avrebbe chiuso prima molte attività e che anche nel cognome è più intonato alle odierne contingenze. A volte ho l’impressione che la Toscana sarà presto come il Vaticano, con un presidente regnante e un presidente emerito. Con la differenza che, a differenza di papa Ratzinger, il presidente emerito esterna, eccome. 

In tutto questo c’è una logica: Rossi è un vecchio comunista, Giani proviene dal partito socialista e la sua è una cultura liberale che lo fa sentire a disagio nell’imporre restrizioni ai più elementari diritti costituzionali. Abituato da assessore del Comune di Firenze e poi da presidente del Consiglio regionale a gestire il consenso, partecipando a tutte le inaugurazioni, dividendosi fra quattro cene ogni sera  e tuffandosi in Arno ogni capodanno, gli tocca ora affrontare il dissenso. Onestamente, non lo invidio.

p.s. qualcuno potrà chiedersi perché ho usato il termine “governatore” fra virgolette. Il motivo è semplice: è un termine inappropriato, anzi per l’esattezza coloniale. Negli Stati Uniti, repubblica federale, i governatori vennero chiamati così perché succedevano alla guida delle ex colonie ai governatori nominati dalla Corona britannica, e l’appellativo è rimasto cucito loro addosso. In Italia chiamare governatori i presidenti delle Regioni è nel migliore dei casi una semplificazione giornalistica, nel peggiore un segno di piaggeria, un po’ come quando durante il Ventennio per lusingarlo si chiamava “signor colonnello” un console della Milizia che magari aveva terminato il servizio militare come sottotenente.

14 novembre

Addio Arno!

A Firenze è l’ultimo giorno in arancione, prima dell’avvento della zona rossa. Ne approfittiamo per fare una bella passeggiata sul greto dell’Arno, in direzione di Compiobbi, ma senza superare i confini comunali. Si rischiano multe di 400 euro, mentre chi arriva in Italia violando i confini nazionali ha diritto a ospitalità e assistenza sanitarie gratuite.  

Famigliole riunite, padroni con cane (li metto in guardia, perché nella zona è stato avviata una procedura di derattizzazione con esche avvelenate, e ho già visto qualche topo morto nell’erba), clima un po’ da ultimi giorni di Pompei, un po’ da ultima notte prima della chiusura delle “case”, un po’ (naturalmente enfatizzo) da C’era una volta in America, con la scena dell’ultimo trasporto di whisky prima del proibizionismo. Sotto un cielo sereno, che qualche scenografica nuvoletta rende ancora più bello, si respira una libertà di movimento che tutt’a un tratto torna ad apparirci un bene prezioso. A tanto questo maledetto virus venuto dalla Cina ci ha ridotti: persino a camminare sul greto dell’Arno, distanziati, ci sembra di fare qualcosa di trasgressivo, come un ragazzino che ha fatto forca a scuola in barba ai genitori e al maestro. Ne sorrido, ma è un sorriso amaro, quasi una smorfia, cui si sovrappone una domanda: e se questi divieti fossero un primo tentativo di pedagogia sociale, volto a farci accettare dal potere qualsiasi cosa, in nome di una poco salutare dittatura salutista?

15 novembre

Da Aosta a Sanremo, come bocciare a un concorso per la Rai

Scopro con un misto di stupore e di sgomento che un caro amico è stato bocciato a un concorso per giornalisti Rai per non aver saputo rispondere, nei test selettivi, a una domanda sul vincitore di un festival di Sanremo. Una volta la Rai organizzava quiz, non li utilizzava per scegliere i dipendenti. Ricordo che, quando partecipai a una selezione per praticanti giornalisti nelle redazioni regionali del terzo canale, nel lontano 1979, la prima prova fu un tema. La sostenni a Milano e la superai egregiamente, con l’aiuto di una un po’ ruffianesca citazione di Gramsci, ma fui bocciato all’orale. Su consiglio di un amico avevo deciso di concorrere per la redazione regionale della Val d’Aosta, perché in quella regione ricchissima per i trasferimenti statali non esisteva disoccupazione intellettuale e quindi c’era poca concorrenza. Superai brillantemente la prova di bilinguismo, però mi fregarono con una domanda sul prezzo dello zucchero nella Valle. Non sapevo che rientrava fra i privilegi concessi a quella microregione – un tempo poco più che la riserva di caccia dei Savoia – per scoraggiarne le velleità di secessione dall’Italia e di annessione alla Francia. Mi consolai con un piatto di spaghetti alla carbonara e uno di saltimbocca alla romana in una trattoria di via Ripetta dove mi recavo, pochi anni prima, quando facevo il militare a Cesano. E imboccai un’altra strada

La bocciatura fu giusta: dovere di un buon giornalista è documentarsi sempre, soprattutto sui luoghi in cui si dovrà recare. E poi quello sconto sulle accise era un pezzo di storia: subito dopo la guerra de Gaulle, che aveva posato le sue mire sulla Val d’Aosta, faceva distribuire sacchi di zucchero e di altri generi di prima necessità nella regione, per ingraziarsi gli abitanti in vista di un eventuale plebiscito per l’annessione. Ma il fatto che si possa non entrare in Rai perché non si segue il festival di Sanremo mi sembra un assurdo: visto il livello della musica leggera italiana, fra rapper e trapper, mi sembra piuttosto un titolo di merito.

16 novembre

Sanità 1. E se tornassimo a Ippocrate?

C’era una volta il giuramento di Ippocrate. Il medico si impegnava solennemente a operare secondo scienza e coscienza, a non provocare la morte del paziente, a non somministrare alle donne incinte farmaci abortivi (esisteva evidentemente anche nell’antica Grecia l’equivalente della pillola del giorno dopo). Con qualche aggiornamento è rimasto tale fino ai nostri giorni. Il medico era libero da condizionamenti e nessun burocrate ministeriale o regionale poteva imporgli di prescrivere questo o quel farmaco.

Dopo, sono arrivati i “protocolli”. Ufficialmente, linee guida che dovrebbero guidare il medico nella sua azione, di fatto consegne da cui il suo impegno professionale è rigorosamente condizionato. In molti casi, soprattutto nell’ambito ospedaliero, i protocolli sono recepiti favorevolmente dai medici, specie dai più giovani, che li considerano qualcosa di scontato. Averli seguiti rigorosamente li pone al riparo da un eventuale contenzioso; in un certo senso rientrano nell’ambito della cosiddetta medicina preventiva. Preventiva non di malattie o di complicazioni, ma di grane legali e richieste milionarie di risarcimenti. 

Il fenomeno del resto s’inquadra nel più vasto contesto del declino di quelle che un tempo si chiamavano le professioni liberali. Basti pensare al mondo della scuola, in cui si è andata affermando la tesi, cara alle sinistre, che il principio costituzionale della libertà d’insegnamento debba venire declinato in chiave collegiale. Di qui linee guida, riunioni di “dipartimenti”, limitazioni alla libera scelta dei manuali da adottare. O al mondo del giornalismo, con l’Ordine che, nato per tutelare la libertà di espressione, rischia di trasformarsi in un organo di censura delle opinioni scomode, col pretesto della tutela di un’opinabile deontologia professionale.

Nel caso dei medici di famiglia l’imposizione di protocolli è particolarmente discutibile, visto il rapporto fiduciario che lega il dottore al paziente. Già ora i medici di base (a proposito: che brutto termine! fa pensare a una partita di baseball o a una corrente della vecchia sinistra democristiana) sono sottoposti in alcune regioni a restrizioni nella prescrizione degli esami e dei medicinali, e rischiano sanzioni se sfiorano un certo budget. Ora, in seguito all’emergenza Covid, si affacciano protocolli più stringenti, come quelli dettati dal professor Matteo Bassetti, primario di Malattie Infettive all’ospedale San Martino di Genova, nonché coordinatore della commissione sui ricoveri di pazienti affetti da Covid-19 istituita dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Consigli, linee guida o vere e proprie consegne? In ogni modo la reazione dei medici di famiglia è stata pronta e, sul sito change.org, è stata lanciata la petizione “Medici contro la nomina del prof. Bassetti come Coordinatore Gestione Pazienti Covid“, che ha già raccolto quasi 4.000 firme. Senza entrare nel merito delle questioni tecniche, sorge un interrogativo: e se tornassimo a Ippocrate? 

17 novembre

Sanità 2. Il vero costo della pandemia

Lucido articolo di Alessandro Campi sul “Messaggero”, intitolato “La logica dell’emergenza che non serve agli italiani”. Affronta fra l’altro un tema che in molti conoscono, ma di cui in genere si preferisce tacere: i riflessi negativi dell’emergenza Covid sulla già disastrata sanità pubblica. Da un lato l’accesso ai pronto soccorso viene scoraggiato per chi soffre di altre patologie, dall’altro  aumenta il numero di chi per timore del contagio trascura i normali controlli periodici (anche chi scrive rientra in questa categoria), evita di donare il sangue o si vede rinviare interventi chirurgici da tempo programmati perché le strutture sanitarie sono sature. Le conseguenze di questa congiuntura in termini di vite umane si conosceranno forse solo fra qualche anno, quando si potranno verificare le cifre complessive sulla mortalità in questi mesi e confrontarle con la media dei decessi ante pandemia, ma tutto lascia pensare che saranno tutt’altro che indolori. Ai morti di coronavirus si aggiungeranno molto probabilmente molti morti per coronavirus, per non aver potuto effettuare in tempo interventi chirurgici risolutivi, per non aver potuto beneficiare di trasfusioni di sangue o di plasma, o magari, soggetti a rischio, per aver procrastinato esami utili a diagnosticare in tempo il degenerare di determinate patologie. 

Sotto questo profilo il bilancio della pandemia potrebbe essere molto più pesante del previsto e colpire non soltanto i contagiati. Una voce in più sul conto che nessun governante occidentale avrà mai il coraggio di recare agli untori con gli occhi a mandorla.

18 novembre

Trump 2. Non dimentichiamo Pat Buchanan, candidato giusto nel momento sbagliato

È strano come pochi commentatori politici, almeno in Italia, si siano resi conto di un fatto d’importanza non trascurabile: le idee che hanno condotto alla vittoria Donald Trump e che senza l’effetto pandemia gli avrebbero assicurato anche il 4 novembre scorso il successo non sono che una volgarizzazione un po’ rozza del pensiero di uno dei più lucidi pensatori della destra statunitense. Sto parlando di Patrick “Pat” Buchanan, che non fu solo un ideologo e un giornalista, ma un esponente di un certo rilievo del partito repubblicano, consigliere di Nixon, cui rimase fedele anche dopo il Watergate, di Ford e poi di Reagan. Di origini irlandesi e di famiglia cattolica, all’inizio degli anni Novanta Buchanan prese le distanze dalla deriva iperliberista del partito dell’Elefante e si candidò alle primarie repubblicane del 1992, contro Bush Senior. Non ebbe successo; del resto era difficile sconfiggere un presidente che usciva vincitore dalla guerra fredda e (all’apparenza) dalla guerra del Golfo: squadra che vince non si cambia. Fallì di nuovo, nonostante qualche successo iniziale, alle primarie del ’96 e nel 2000 si presentò con un piccolo raggruppamento, ma non raccolse che mezzo milione di voti in tutti gli Stati Uniti.

La critica alla globalizzazione, la rivendicazione dei valori tradizionali, la denuncia dei pericoli dell’immigrazione clandestina, il protezionismo – tutte tematiche trasformate in slogan dal vincente Trump – facevano parte dell’arsenale ideologico di Buchanan, come il motto America First, che per la verità risaliva all’isolazionista Lindberg. Strenuo avversario del Nafta – l’accordo di libero scambio nordamericano, – denunciò il rischio di un impoverimento della working class statunitense in seguito all’abolizione delle dogane: “se in Messico il costo del lavoro è di un dollaro l’ora e negli Usa di dieci – era uno dei suoi slogan preferiti, – i nostri salari non potranno che scendere e agli americani toccheranno paghe da hamburger per lavori da hamburger”. Nel clima di euforia turbo-capitalista e anarco-liberista che caratterizzò l’intero Occidente negli anni Novanta e nei primi anni Duemila non fu capito: era l’epoca dei neocon, in cui lui, paleo-conservatore, non si riconosceva, come non si riconosceva nella politica estera di Bush Jr e nella seconda guerra del Golfo. Quando i fatti gli dettero ragione, per lui era ormai troppo tardi. Così è stato l’outsider Trump, con tutti i suoi limiti caratteriali, a raccogliere quello che lui aveva seminato. Sotto un certo profilo, si può dire che Buchanan è stato il candidato giusto al momento sbagliato, mentre Trump è stato il candidato sbagliato al momento giusto. Un momento che però non sembra destinato a durare.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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