Artefatti. “Vivere è una vergogna”, esercizi d’ammirazione per Valerio Zecchini

Il primo post-contemporaneo (e futurista) sbarcato sulla Terra e le sue incursioni in picchiata contro i luoghi comuni

 

 

 

“Le sardine senti questa, un’altra cazzata! Milieu progressista ripulito digitalizzato benservito da un’agenzia di marketing pigliando alcuni secchioni tra un grumo d’annoiati fuoricorso che gigioneggiano da tempo immemore a Bologna; contestazione perenne ridotta a pantomima, la subdola tirannia del vuoto: un bravo ragazzo riccioluto, fotogenico diacono, ambizioso scout in fregola da volontariato, esibizionista “cittadino del mondo” che fuma spinelli di nascosto dalla mamma: davvero c’è nemmeno più il gusto del situazionismo ben fatto, tant’è che la statua di Freak Antoni piange sangue vero nel pubblico parchetto. Pensionati? Già da giovani morti, perché a Bologna tutto è già stato fatto e il resto pianificato, cultura compresa ovviamente. Città molliccia, curiale, sazia e nostalgica, la torre e il tortellino, l’osteria rifatta com’era una volta ma finta, centuplicata; aia stanchissima impiastricciata chiacchierona finto-divertente, paracula pur tuttavia sempre ubbidiente al partito qualsiasi esso sia e sempre lo stesso, perpetua nel suo comodo vizio le solite cose, il medesimo giovanilismo da assessorato, quei tali storditi che suonano i bonghi dagli anni ’80, la montagnola – che palle! – sede di un’epica fasulla, bonaria con l’iscritto e l’affiliato spietata col reietto alla morale allungata nel brodo, annacquata del più generico civismo, la Medjugorje dei rompicoglioni allogeni, poi ci si fa una canna tutti assieme ed ogni problema è risolto o solo rinviato con patrocinio del Comune. Una città che scoppia di diritti e virtuose azioni, medaglie d’oro e primati sulla qualità della vita, buona per annoiati in procinto d’annoiarsi ulteriormente fingendo d’essere contro qualcosa, fedeli al programma, di camerieri coi rasta. Bologna prevedibile. Bologna retorica. Bologna paranoica.”

Si perdonerà la lunga autocitazione, ma pareva un bel modo, spaccone il giusto, d’introdurre e omaggiare il sommo Valerio Zecchini, detto il falco, colui che tra l’altro ebbe l’ardire di elaborare un autarchicamente felsineo “atto d’odio per Bologna”, il piacere d’ospitare tra Artefatti un ritratto arbitrario del genio guastatore, purissimamente anticonformista, che per l’appunto da Bologna viene e a Manila nelle Filippine ora sta, autoesiliato o in qualità di proconsole patafisico, d’immaginifico ambasciatore delle nobili cause perse, chissà. Come a dire, scadendo nella frase fatta solitamente rivolta a tristi comparse in camice bianco, i nostri giovani cosmopoliti assunti con plauso per nettare i cessi all’università di Boston – slogan qua invece più che mai pertinente – il caso ultraumano di un vero e proprio “cervello in fuga” (ovviamente dalla mediocrità intellettuale italica).

Scrittore, agitatore, sobillatore performativo, stravagante e ironico eppure serissimo, soprattutto intrepido declamatore situazionista per mezzo di quei bollettini a firma Post Contemporary Corporation, sorta di manifesto sprezzante e spiazzante, stentoreo dispaccio d’eresie musicate eretto in contrapposizione radicale alle innocue vacuità dell’imperante postmodernismo. O post nullismo. Laddove tutto stagna e all’idea è sopraggiunta Ikea il passaggio di consegne tra vivere e acquistare, tra osare e poltrire, somiglia sempre più ad un tramonto edulcorato con filtro ammiccante, ad una resa incondizionata: agli interminabili postumi dell’intrattenimento comunicativo, all’agonia eternizzata della beneducata parola morta, all’innocuo chiacchiericcio del design salottiero, ad una subordinazione seppiata al bel tempo andato, la tradizione (o solamente la gioventù?) rimpianta mentre la si ammazza in pixel. D’altronde il futuro congegnato dal progressismo ideologico assomiglia sempre più ad un incubo assai realistico, servono voci dissonanti non altre majorettes e pappagalli.

Tant’è che il postmoderno, che vuol dire niente, come sofà parolaio esiste solo per giustificare un rinvio di senso riciclando il passato su riviste patinate, s’abbina bene all’agognato benessere professorale raggiunto dagli ex sessantottini, dagli utopisti figli di papà divenuti borghesi pragmatici, padri di figli da mantenere in una bolla spiraliforme fatta di superflue liofilizzazioni culturali, vieppiù annoiati presso comodi attici in centro storico con la bandiera della pace dimenticata sul balcone, tra le peonie e la lettiera del gatto. Zecchini (talvolta con le K al posto delle C, forse per sarcastico vezzo), novello Don Chisciotte imbullonato, scende in picchiata col suo apparecchio parolibero, come in un aeropittura di Tullio Crali sull’anonimato della città spenta; egli può ben essere definito un provocatore alla maniera futurista, astronauta psichedelico, uno che mette il dito nella piaga del cartongesso democratico, anche se l’obiettivo del suo ridondante assalto non è la Tradizione, bensì la cancrena sovente passatista del luogo comune, l’abitudinaria reiterazione di sciocche frasi fatte e banalità albioniche assortite, il recinto cronachistico fatto di soporifere menate pedagogiche attraverso le quali inibire il vitalismo creativo di eventuali nuovi arditi. Zecchini sferza, azzarda, fomenta ribaldo, arguto e sprezzante sfida le pusillanimi riunioni di condominio culturale, i lugubri circoletti di lettura dove pontificano le anime belle, le professoresse femministe in pensione, non liscia il pelo al gatto morto, addirittura radicalizza tra serio e faceto, aforisticamente alla Cioran: “Vivere è una vergogna” e “Un mondo peggiore è possibile”. Oppure, sbeffeggiando il santino peace & love sentenzia: “Bob Marley era una brutta persona”.

Bologna dunque come meta-luogo divenuto alienante, pingue monumento alla bontà, latteria per pasciuti poppanti futuri convinti democratici, museo delle cere comuniste poi base spaziale degli arcobaleni del mondo nuovo, mausoleo della pasta ripiena, è il dicastero perfetto di questo addomesticamento pachidermico generalizzato, di questa ribellione sovvenzionata, di questa libertà totalitaria e ombelicale, della schiavitù al plebiscito della parte giusta, giustificata da un manicheo, appiattito quanto paralizzante concetto di uguaglianza. Zecchini invece, autodefinendosi con una certa ironia radical chic di destra, si vanta saggiamente della differenziazione, dell’eccezione alla regola e assieme a pochi altri – per restare sotto le torri vengono in mente i Disciplinatha, Helena Velena, Oderso Rubini, Skiantos, Gaznevada, Massimo volume, Bifo, Luigi Ontani – è il farmaco/veleno, l’elemento reagente alla pruderie omologante, aedo maledetto cibernetico saltimbanco, capro espiatorio nel coro dell’Antoniano, aizzatore libertario, post-ideologico miliziano, giammai militante. L’utilizzo che egli fa dei motti fascisti in chiave pop (art), il recupero di certi termini impolverati – Patriottismo e Disciplina, ad esempio – le suggestioni tratte da Mishima, Pound, Jünger, D’Annunzio, Marinetti (addirittura reinterpretando Quarto d’ora di poesia della X Mas), non ne fanno però un propagandista nostalgico, tantomeno un retrivo conservatore della specie ultima, quella incolta e bigotta, devota alla polizia locale, alle telecamere di sorveglianza.

Valerio Zecchini difatti si muove autonomamente, mimetico nella cornice dell’arte d’avanguardia, forse l’ultimo territorio intellettuale dove la censura del “politicamente corretto” fatichi a posare gli artigli (perché erroneamente la si ritiene vaccinata dal servilismo al potere, un baluardo di libertà). Così la fisicità belluina e la postura marziale del samurai in lui s’intrecciano a fughe psichedeliche, a paradossali misticismi, a sprezzature da dandy. Futurista esoterico, sciamanico novatore, anarco-individualista, Zecchini sintetizza sapientemente l’eloquio folleggiante con la retorica guerrafondaia da balcone, l’affermazione eretica con l’iperbolico elogio di una gerarchia superomistica, lasciando lo spettatore attonito, basito, sovente scandalizzato: convinzione o parodia? Apologia o iconoclastia? Insomma, Zecchini ci fa o ci è? Chissenefrega! nel dubbio, nella mancanza di risposta sta il fascino del personaggio, la sua funambolica originalità, in questo mondo nuovo popolato da obbedienti replicanti.

 

Donato Novellini

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