“La città dei vivi”, l’orrore dell’omicidio Varani nell’urbe putrescente

L'ultimo libro di Nicola Lagioia indaga sull'uccisione del giovane a Roma da parte di Manuel Foffo e Marco Prato

Nicola Lagioia, direttore del Salone di Torino

“[…] tutto è umano e tutto si corrompe.” (p. 99)

 

Roma, quartiere Collatino. È la notte tra il 4 e il 5 marzo del 2016 e Manuel Foffo e Marco Prato uccidono, seviziandolo, Luca Varani. Uno dei delitti più efferati degli ultimi anni.

 

“Per quali strade il male può irrompere nella nostra quotidianità travolgendo vite dentro cui ci sentivamo al sicuro? E in che modo certe persone considerate piuttosto ordinarie fino a un attimo prima, si ritrovano a compiere le azioni più mostruose restando loro stesse incapaci di una spiegazione?”

(Nicola Lagioia su Domani, 13 novembre 2020)

 

Una delle note positive di questo 2020, un po’ sui generis, è stato ritrovare tra gli scaffali delle librerie un nuovo libro di Nicola Lagioia: “La città dei vivi”, edito da Einaudi. La storia narrata è drammatica, tragica. Lagioia veste i panni dell’investigatore a tutti gli effetti e indaga, sin dall’inizio della vicenda, attraverso le vite di Foffo, Prato, Varani e così ancora, a cerchi concentrici, fino a raggiungere le persone più distanti dai protagonisti del romanzo. E a cerchi concentrici è fatta anche la narrazione dell’intera opera: un passo alla volta, una storia dentro l’altra, una storia dopo l’altra. Sì, le storie de “La città dei vivi” sono molteplici: c’è l’omicidio di Luca Varani; ci si imbatte in un olandese che vaga per Roma (questo personaggio appare e scompare ripetutamente lungo tutto l’arco del racconto e ci si ritrova a chiedersi, ogni volta, che fine abbia fatto); c’è Roma in tutto il suo splendore e in tutta la sua decadenza; c’è Nicola Lagioia uomo, lavoratore e poi anche scrittore.

 

In questo libro si incontra nuovamente il Lagioia de “La ferocia”, ma soprattutto di “Riportando tutto a casa”, con il suo inconfondibile stile a volte un po’ prolisso e macchinoso. Al centro del racconto, la società che si sgretola fagocitando in un profondo buco nero città, persone e giovani generazioni sempre più smarrite e affaticate dagli errori delle generazioni passate. Nel testo vengono approfonditi in maniera certosina gli aspetti caratteriali dei due assassini, e della vittima stessa, oltre che delle rispettive famiglie.

Attraverso analisi di documenti, incontri e interviste l’autore prova a scavare a fondo nell’animo di ciascuno dei personaggi e vi trova una voragine di contraddizioni. Lo scrittore viviseziona Manuel Foffo e Marco Prato e quanto più gratta nella melma e nell’ambiguità tanto più emerge la neutra “normalità” di entrambi. Tutti potremmo essere Manuel Foffo e Marco Prato. Foffo, come tanti, odia profondamente suo padre. Prato odia la madre per non aver accettato la sua transessualità. Foffo è «abituato a subire le decisioni altrui» (p. 21). Prato è un narcisista istrionico, che spesso parla di sé al femminile. Legati da un pericoloso magnetismo, i due agiscono cercando di superare poco alla volta i propri limiti compiendo una mattanza, un rito ancestrale. A far da sfondo alla vicenda sesso, vodka e cocaina. Un’attrazione fatale per se stessi, ma anche per gli altri, non solo per Luca Varani, il capro espiatorio di tutto, o del Nulla:

 

“«Dovevo essere in una situazione molto strana, – raccontò ai carabinieri (Damiano, amico di Marco Prato n.d.r.), – perché scusate, se io mi accorgo di stare senza bancomat e dico posso salire un attimo?, e loro mi rispondono di no, be’, in una situazione normale avrei insistito, giusto? Sarei riuscito a impormi. Invece ho fatto come ha detto Prato (è andato via n.d.r.)»” (p. 310)

 

Prato è il male? O lo è Foffo? O Manuel Foffo e Marco Prato insieme sono il male? È il vuoto pneumatico dei protagonisti quello che più colpisce di questa storia, e gli interrogativi rimangono tali sino all’ultima riga del romanzo.

 

Giornalisti e “pubblico” invadenti; genitori assenti, troppo presenti, troppo indulgenti, troppo retrogradi; giovani viziati, volenterosi ma disarmati, vigliacchi, egocentrici e concentrati solo sulla desiderabilità sociale; una città allo sbando, ma che «regalava molto più di quello che chiedeva in cambio» (p. 459); prostituzione; omofobia; pedofilia; omicidi; suicidi. In questo libro c’è tutto. Lo scrittore barese sfrutta la letteratura per raggiungere l’ignoto, e provare a spiegarlo. Tutta la narrazione è pregna della soggettività di Lagioia, il filtro della vicenda è sempre il suo io, che muove i suoi passi ben oltre l’oggettività della giustizia. Lo scrittore mostra, inoltre, come spesso l’uomo sia disposto a tutto pur di trovare nell’altro la causa dei propri fallimenti, dei propri errori. Il tema dell’atavica lotta tra il bene e il male consegna all’opera sfumature da saggio filosofico.

 

“Mi sforzavo di capire, ma era come guardare in un pozzo dopo il calar del sole, e fu forse perché nel buio si credono di vedere le cose più assurde, o si indovinano le più interessanti, che arrivai a pensare che fosse la vicenda, nella sua intrinseca malvagità a distorcere le cose, pensai che questa entità avesse una volontà propria, degli interessi propri, il male chiama il male e certe forme retoriche sono i suoi strumenti di contagio, così il male ci irretisce, pensai ancora, gioca a confonderci, usa schegge di realtà per convincerci di cose che non sono vere.” (p. 183)

 

La città dei vivi è Roma, un corpo in decomposizione che puzza maledettamente. Eppure, la putredine attrae i vivi, come un magnete, così che anche lo scrittore barese non sa staccarsi né emanciparsi dall’Urbe in decadenza.

 

La città dei vivi è Marco Prato, morto suicida nel carcere di Velletri. La città dei vivi è Manuel Foffo, condannato a 30 anni di carcere.

 

La città dei vivi di Nicola Lagioia (pp. 472, euro 22,00, Einaudi)

 

 

Silvia Savini

Silvia Savini su Barbadillo.it

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